mercoledì 31 dicembre 2008

Nel giorno di San Silvestro




Oggi è l’ultimo giorno del 2008, il primo vero ultimo dell'anno di questo blog, nato nel settembre del 2007. Abituati alle Gazette de Beaux Arts o alle Revues Musicales, alcuni di noi nemmeno sapevano che fosse un blog, che senso potesse mai avere, come potesse vivere o si potesse organizzare. Lo prendemmo come un divertissment tra amici, un posto ove poter esprimere il nostro parere sul canto, passato e presente; sulla sua storia; sulla sua evoluzione; sui modi attuali di dare vita al “recitar cantando”. Un gioco musicale!

Per i primi tempi scrivemmo più per spasso che con coscienza di essere letti, e magari anche ascoltati, perché quello di internet appare, al neo entrato, un mondo che consente la libera espressione di se stessi ma….senza riferimenti, o coordinate di viaggio. E così per un certo tempo abbiamo vissuto il nostro Corrierino, come una bottiglia contenente un messaggio e lanciato nell’Oceano verso ignota fortuna ed ignoti destinatari. Certi di rimanere inascoltati, perché portatori di un pensiero certamente difficile, lontano dal comune sentire, spesso fastidioso e provocatorio. In un contesto, quello dei siti italiani, ove vige la peculiare abitudine ( assolutamente estranea a siti esteri quali quelli francesi o spagnoli, ad esempio ) di censurare opinioni contrarie alla moda in atto, in quanto riferite alla tradizione passata in punto di tecnica di canto, gusto, prassi esecutive, trasformando così luoghi di dibattito tra melomani in agenti di omologazione del pubblico, abbiamo cercato di costruire un spazio virtuale che contenesse le nostre opinioni, nonché le ragioni storiche e le esperienze di ascolto che lo ispirano, consci del fatto che non basta ormai semplicemente indicare pregi o difetti di una prestazione o di un’artista, ma occorra una più ampia messe di giustificazioni alla manifestazione delle proprie convinzioni, per essere intesi dalla maggior parte degli interlocutori. E questo a causa di un oggettivo mutamento del pubblico, che non è più quello di tradizione, ossia frequentatore dei teatri dalla giovinezza alla tarda età, ma composto di fasce giovani, che si avvicinano al genere per abbandonarlo dopo alcuni anni.

Di qui la nostra convinzione che il messaggio contenuto nella bottiglia fosse destinato a pochi, pochissimi “archeologi” della conoscenza melomaniaca, anche perché, oggi come oggi, il termine “tradizione” inesorabilmente si scontra con le consumazioni veloci e superficiali del nostro presente, non per nulla governato dalle “mode”. Anche l’opera risente con tutta evidenza del fenomeno, e lo osserviamo nel facile consenso che taluni moderni “divi” sanno muovere attorno alla propria carriera, salvo essere altrettanto facilmente dimenticati allorquando, per motivi che possono essere i più vari,….non vanno più di moda!
Nel parlare in base ad un backgruond “di tradizione”, che non è tradizionalismo ( anche se talvolta si viene tacciati in questo senso ) pensavamo di spaventare un pubblico avvezzo alla consumazione hic et nunc. Del resto, in termini più generali, anche la cosiddetta “cultura” artistica ( parola che chi scrive non ama per nulla..), musicale, architettonica, letteraria, viene diffusa nelle sedi universitarie e istituzionali in corsi che si sono fatti sempre più brevi, tanto scorciati da sembrare degli abregée, inventari di quei contenuti che si dovrebbero conoscere, ma sempre corredata dall’illusione, per il momento ancora necessaria, di possedere una conoscenza piena a tutti gli effetti.

A nostro avviso appariva del tutto logico che, ove ha luogo l’incontro con il pubblico dei grandi numeri ( per ciò che sono i grandi numeri di un genere che è di nicchia rispetto alla musica rock o altro.. ), la “tradizione” del canto sia stata accuratamente elisa, dato che in quei luoghi hanno da realizzarsi gli obbiettivi del potere commerciale, assai spesso in contrasto con le ragioni dell’arte del canto. La “barbosa e pedante” tradizione passata viene costantemente afflitta, in quei luoghi, dalle ragioni della “modernità”, dall’inutile proclamazione della propria libertà di essere artisti aderenti al presente, sino alla completa manipolazione della realtà storica, proclamando che oggi si canta comunque meglio che in passato. Proclamando, ma non certo dimostrando! Salvo poi strumentalizzare la storia, o meglio, servirsi ad arte di nomi di cantanti del mio tempo, comodamente privi di documentazione sonora, nel tentativo di assimilare i moderni ai miti del passato.

Sicchè nel parlare della tradizione non potevamo che pensare di rivolgerci ad un pubblico di una certa età, per non dire ….centenario come noi, oppure di fallire per oggettivo anacronismo della nostra posizione, al di là di ogni specifico contenuto. Di qui il nostro atteggiamento…..ludico e del tutto disincantato, anche perché, come ben sapete, l’opera è per noi un hobby e non una professione. Siamo andati via alla chetichella per un po’ di mesi, come sei vecchi amici in una leggera scampagnata, accontentandoci dei nostri cinquanta contatti giornalieri; delle decine, talora più di un centinaio, di download degli ascolti proposti; dei primi messaggi che arrivavano….

Ci interessava particolarmente stimolare l’ascolto dei cantanti antichi, dinosauri volutamente dimenticati o vilmente sbeffeggiati da certa “critica” e che, a dispetto delle registrazioni elettriche ed acustiche, posseggono, invece, la forza di uscire dal disco e materializzarsi davanti alle nostre orecchie come i geni che si vaporizzano dalle lampade magiche, provandoci chiaramente una diversa pratica del canto. Quando Ester Mazzoleni si aggiudicò il palmares della più gettonata il Natale scorso, con 124 ascolti, ci parve una conquista, e la festeggiammo!

Chi ci segue sempre ha potuto constatare assieme a noi l‘incremento di contatti, degli ascolti e dei post, pur non essendo il Corriere della Grisi un forum. Tutto ciò che è arrivato, è arrivato da sé, come l’onore di essere linkati e letti anche all’estero; di vedere le nostre opinioni rimbalzare su altri fori, e persino su veri grandi giornali. E domani leggerete, immagino con uno stupore anche maggiore del nostro…..che, vi assicuro, non essere stato piccolo, i numeri e gli ascolti che compongono la nostra hit parade del 2008. Il record della bravissima Ester è stato più che disintegrato, e ciò non è avvenuto in virtù dei tags che accompagnavano gli articoli. I numeri ed i nomi paiono dimostrarci l’esatto contrario di quanto potevamo attenderci da questo sito…..ben più di quanto ci abbia segnalato il counter, che da dopo l’estate ha davvero preso a correre ad una velocità inaspettata.

Sapendo di esser letti tra consenso e dissenso, abbiamo ritenuto di dover riflettere comunque sul “messaggio” che voi ci avete inviato leggendo, scaricando e postando. Ed a voi vogliamo sottoporre le nostre considerazioni.
L’esperienza di quest’anno ci impone una maggiore puntualità e precisione nelle recensioni degli spettacoli cui assisteremo: non siamo né vogliamo essere critica ufficiale, continueremo ad essere e sentirci hobbisti, ma se le nostre osservazioni, per forza di numeri, paiono avere un certa diffusione, non possiamo non tenerne conto, per mero senso di responsabilità.
Gli argomenti di natura storica, nella fattispecie di storia della vocalità, hanno risvegliato un interesse inaspettato, almeno stando a quanto si può percepire in altri siti, anche stranieri. La finestra aperta sul teatro d’opera a 78 giri ha riscosso un consenso nettissimo, che ci spingerà a continuare a proporvi, e se possibile ad articolare ulteriormente, argomenti ed ascolti.

Quanto poi alla nostra linea di pensiero, o meglio, alle nostre generali convinzioni circa l’evoluzione-involuzione del canto lirico, vedremo di illustrarle ed approfondirle in modo più…strutturato ed ampio. Qui, a dispetto dei nostri detrattori, non ci sono né pazzi, né killers, né fanatici, ma solo dei….melomani, fantasmi di leggendari divi del canto! La nostra critica, certo dura, al teatro d’opera contemporaneo non ha uno scopo semplicemente distruttivo, come si vorrebbe opportunamente far credere, dato che anche noi amiamo l’opera, ed ameremmo andarci ancora in futuro e con prevalente soddisfazione, come ci è capitato in un passato che non risale certo a quando calcavamo le scene!. Questo però oggi non avviene perché molto, moltissimo è mutato in poco tempo, spazzando via un “saper fare” accumulato da generazioni di cantanti, direttori, maestri ripassatori. E la riprova del mutamento rapidissimo, anche nel pubblico, viene ogni volta in cui ci capita di dire cose banalissime e se non scontate per gli ascoltatori delle nostre generazioni, ma che suonano del tutto inusitate, se non incomprensibili o addirittura scandalose per i più giovani. La nostra critica non mira certo a crearci un posto al sole, o un invito a teatro da parte di un cantante in cerca di consenso ( ci è accaduto anche questo nell’anno appena trascorso …), o a manipolare chi ci legge, ma è tesa semplicemente ad indagare quelle che noi, in qualità di melomani più o meno giovani, liberi spettatori paganti che amano andare all’opera ( oltre che fantasmi di divi del passato!! ), riteniamo essere le magagne alla base dello stato attuale del melodramma. E di stimolare la riflessione, anche quella dissenziente al limite, da parte di chi ama l’opera. Il nostro modo di andare a teatro non è certo quello della media del pubblico d’oggi, ce ne rendiamo conto. Anni di melomania “attiva”, però, ci hanno consentito di maturare, grazie a scambi di opinioni con molte e diverse persone che abbiamo potuto incontrare e con cui molto abbiamo condiviso, una serie di considerazioni generali, di carattere vocale ma anche extravocale, che, a questo punto, ci pare meritino un’illustrazione dettagliata e che la recensione spicciola, per sua natura, non può contemplare. Vedremo se riusciremo a dare una forma organica a questo modo di pensare, di essere melomani e, soprattutto, cosa ne penserete voi!

Per ora auguriamo a tutti voi che ci leggete un 2009 felice, sereno e ricco di tanta buona musica!

E per iniziare bene il nuovo anno, vi proponiamo l'operetta di San Silvestro per eccellenza, il Pipistrello, in un'esecuzione di quelle che piacciono tanto a noi... e anche a voi, visti i numeri dei download! Naturalmente con tanto di galà e gustosa Adele "fuori programma" finale.

Auguri, auguri a tutti!


Gli ascolti - San Silvestro


J. Strauss jr. - Die Fledermaus



Atto II

Dieser Anstand so manierlich - Karl Mikorey & Margarete Teschemacher (1938)


Galà

J. Strauss jr. - Frühlingsstimmen - Erna Berger (1938)

J. Strauss jr. - Eine Nacht in Venedig - Komm in die Gondel, mein Liebchen - Peter Anders (1938)

Lehár - Friederike - Warum hast du mich wach geküsst - Maria Reining (1938)

Lehár - Zigeunerliebe - Hor' ich Zimbalklange - Esther Rethy (1938)


Atto III

Spiel' ich die Unschuld vom Lande - Edita Gruberova (1993)

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Alla ricerca di Amina (e cercando anche di Elvino): le grandi Sonnambule


A corredo, completamento, confronto, conforto e sostegno della recensione del disco gallitalico, insomma, per rifarsi un poco i padiglioni auditivi, proponiamo alcuni frammenti di grandi interpretazioni del titolo belliniano. Buon ascolto.










Atto I

Come per me sereno
María Barrientos, Amelita Galli-Curci, Maria Callas, Joan Sutherland, Beverly Sills, June Anderson, Renée Fleming

Prendi l'anel ti dono
Fernando de Lucia, Cesare Valletti (con Maria Callas), Alfredo Kraus (con Renata Scotto), Shalva Mukeria (con Natalie Dessay)

Vi ravviso o luoghi ameni
Pol Plançon, Tancredi Pasero, Simone Alaimo

Son geloso del zefiro errante
Tito Schipa & Amelita Galli-Curci, Nicolai Gedda & Joan Sutherland, William Matteuzzi & Lucia Aliberti

Finale I : D'un pensiero e d'un accento
Maria Callas, Joan Sutherland, Edita Gruberova

Atto II

Tutto è sciolto...Ah, perchè non posso odiarti
Fernando de Lucia, Alfredo Kraus, Rockwell Blake, William Matteuzzi, Shalva Mukeria

Ah! non credea mirarti
Adelina Patti, Claudia Muzio, Amelita Galli-Curci, Luisa Tetrazzini, Maria Callas, Renata Scotto, Joan Sutherland, Leyla Gencer, Marilyn Horne, Edita Gruberova, Mariella Devia, June Anderson, Renée Fleming, Elizabeth Parcells

Ah! non giunge uman pensiero
Amelita Galli-Curci, Luisa Tetrazzini, Marcella Sembrich, Maria Ivogün, María Barrientos, Maria Callas, Renata Scotto, Joan Sutherland, Adelaida Negri, Frederica Von Stade, Edita Gruberova, Maria Dragoni, Mariella Devia, June Anderson, Renée Fleming, Elizabeth Parcells

Gli ascolti sono a cura di Adolphe Nourrit.

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lunedì 29 dicembre 2008

Il soprano prima della Callas, quarta puntata: Maria Caniglia e Zinka Milanov

Maria Caniglia e Zinka Milanov rappresentano il modello del soprano Verdiano fra la fine degli anni trenta e il principio dei cinquanta.
Lauri Volpi, che abbiamo assodato non amava le voci femminili molto dotate al centro, parlando della Caniglia ricorre al termine “voce dominante, che lasciava alle altre le briciole”. Le altre si chiamavano, magari, Maria Pedrini e Gabriella Gatti.La definizione potrebbe valere uguale ed identica, trasferita al Metropolitan, per Zinka Milanov.

Dal 1937, quando vi debuttò come Leonora del Trovatore il soprano croato rimase nel massimo teatro americano (con la sola eccezione delle stagioni 1947 e 1948) sino al 1966 quando il concerto di chiusura del vecchio Met fu anche quello di addio alle scene dell’esausta Zinka.
Nei principali teatri italiani ossia Scala, San Carlo e, come lo si chiamava allora, il Reale dell’Opera la Caniglia fu dal 1935 la monopolista del repertorio spinto. Non affrontò, se non nel dopo guerra i titoli più pesanti come Gioconda e Fanciulla (e Norma che allora era un’opera da soprano drammatico) per la presenza, sino al 1946, di un’altra voce assolutamente torrenziale: Gina Cigna.
Va detto che i monopoli dei ruoli, allora a differenza di oggi, avevano fondamenti ed artistici e contingenti.
La qualità delle due voci nel ricordo di chi le abbia ascoltate è concorde si trattava di voci di grandissimo tonnellaggio ed anche molto belle in natura. Entrambe, per la situazione contingente,(il ritiro o il declino al Met della Ponselle e della Rethberg, in Italia della Raisa, della Scacciati e della Arangi-Lombardi e della Muzio si trovarono in tempo rapido (anche se la Milanov a Zagabria fra il 1928 ed il 1937 aveva cantato un repertorio vastissimo) a cantare sistematicamente opere pesanti per le quali la voce, forse, la tecnica, per certo, non erano del tutto adatte. La Milanov soprattutto il tardo Verdi e la Tosca, la Caniglia un repertorio ben più vasto, che comprendeva il tardo Verdi ( in condominio, però, con la Cigna e la Pacetti), Puccini, Giordano, Mascagni (che per la voce della Caniglia aveva una assoluta predilezione) ed anche Wagner (Lohengrin e Tannahauser), Spontini (Vestale), Gluck (Ifigenia), Meyerbeer (Africana), il primo Verdi (Luisa Miller ed Oberto) e persino il Donizetti di Poliuto nel 1955 a Caracalla.
Per il dettaglio la Milanov era anche un po’più rifinita tecnicamente e quanto meno castigata nel gusto come l’esecuzione della Casta diva o della scena di Leonora testimoniano. E come testimonia il fatto che fu lei e non la Caniglia o la Cigna a rimanere al Metropolitan quando il teatro cercava fra il 1937 ed il 1938 le sostitute dei due soprani spinti Ponselle e Rethberg.
La Milanov era, e qui lo testimoniano il maggior numero di registrazioni live alterna perché talune esecuzioni degli anni ‘50 ( Gioconda e Trovatore al Met rispettivamente 1953 e 1955) sono ancora di gusto, mentre altre come il Boccanegra o la Cavalleria sono decisamente infelici e inficiati da un gusto verista che, neppure, Mitropoulos riesce a frenare.
Neppure la Caniglia, testimonianza discografiche alla mano brillava per costanza di rendimento perché lo Chenier del 1941 o il Ballo del 1943 mostrano, sotto il profilo vocale una cantante più provata e tecnicamente discutibile che quella della Francesca del 1951 o di taluni stralci di un Trovatore sud americano del 1946.
Entrambe avevano il loro tallone di Achille negli acuti estremi, con la differenza che, talora, la Milanov (vedi il d’amor sull’ali rosee) cantando piano o mezzo forte evitava scivoloni. Oltre tutto nessuna delle due era una musicista rifinitissima, come testimonia ad esempio un don Giovanni della Milanov o come l’episodio della Messa da Requiem, famosissima, di Santa Maria degli angeli dove era la Stignani a dare l’attacco alla collega.
Il difetto è ovvio sia la Caniglia che la Milanov disponevano in natura di una dote eccezionale (per essere chiari poche se ne sono sentite tali negli anni successivi, nessuna oggi) di colore splendido, femminili e dolci, però, il gusto dell’epoca richiedeva accento drammatico e l’accento drammatico del tempo imponeva sonorità del mezzo forte in su ed un registro basso ampio e sonoro, ossia di petto. Le note di petto eseguite senza un adeguato sostegno ( chi avesse voglia di sentire una nota di petto ben sostenuta deva andare alle registrazioni di una Onegin o di una Stignani, fra i mezzo soprani, o una Leider e una Destinn o una Russ fra i soprani) comportano come logica conseguenza una voce scissa in due tronconi, difetto che nature straordinarie come la Milanov o la Caniglia riescono anche a mascherare per vent’anni e l’impossibilità di una dinamica sfumata e del cosiddetto “riposo per la voce” come lo chiama Lauri Volpi il cantar piano riferito, proprio alle voci femminili alle prese con Aida o Ballo in maschera. Eppure le cantanti delle generazioni immediatamente precedenti fossero la Rethberg, la Arangi Lombardi o coeve ed attive in altra area, come la Lemnitz, avevano praticato un gusto più meditato e lasciato esecuzioni che ancor oggi non sono affatto datate.
Intendiamoci bene oggi ascoltare il timbro veramente sontuoso della Milanov nel finale primo di Gioconda, o una esecuzione dell’allegro “Ah bello a me ritorna” con una voce che forse solo la Caballé sfoggiava più belle o lo slancio (poi possiamo discutere se sia o meno autenticamente verdiano) di Leonora di Vargas che giunge al convento della Madonna degli Angeli sono esperienze che fanno saltare sulla sedia l’ascoltatore. Come all’ascolto sorgerà il sospetto, che, persino, la vituperata Caniglia sia stata modello per soprani spinti per trent’anni nell’eseguire arie come l’”Ebben ne andrò lontana” di Wally.



Gli ascolti


Maria Caniglia


Catalani - La Wally

Atto I - Ebben ne andrò lontana (1936)

Cilea - Adriana Lecouvreur

Atto IV - Poveri fiori (1943)

Verdi - La traviata

Atto II - Madamigella Valéry?...Dite alla giovine...Morrò, la mia memoria (con Mario Basiola - 1939)

Verdi - La forza del destino

Atto II - Son giunta!...Madre pietosa Vergine (1941)

Verdi - Otello

Atto IV - Era più calmo...Mia madre aveva una povera ancella...Ave Maria (1938)

Zandonai - Francesca da Rimini

Atto III - Benvenuto signore mio cognato (con Giacinto Prandelli - 1950)


Zinka Milanov

Bellini - Norma


Atto I - Sediziose voci...Casta Diva...Ah! Bello a me ritorna (1944)

Bellini - Norma

Atto II - In mia man alfin tu sei (con Frederick Jagel - 1944)

Ponchielli - La Gioconda

Atto I - Angele Dei (con Anna Kaskas - 1939)

Verdi - Rigoletto

Atto III - V'ho ingattato, colpevole fui (con Leonard Warren - 1944)

Verdi - Il trovatore

Atto IV - D'amor sull'ali rosee (1954)

Verdi - Aida

Atto III - Pur ti riveggo mia dolce Aida (con Giovanni Martinelli - 1943)

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domenica 28 dicembre 2008

La Sonnambula Dessay-Meli-Pidò: recensione

Esaminati altrove i problemi filologici rimangono quelli dell’edizione, che potrebbe essere pregevole e rilevante a prescindere dalle tonalità e dai raggiusti. I quali, però, per onestà intellettuale dovrebbero essere dichiarati nei libretti di accompagnamento e, in difetto, chiaramente dichiarati e rivelati dalla critica togata. In difetto non vi è rispetto del pubblico, il silenzio è forviante specie per chi si avvicini, giovane ed inesperto, all’opera.

Dopo l’ascolto dell’Elvino di Francesco Meli un qualsivoglia giovane ascoltatore si meraviglierà e si domanderà, lecitamente, per quale motivo un Bergonzi non abbia mai avuto stabilmente in repertorio Elvino o perché un Kraus ed un Pavarotti abbiano avuto approcci fugaci con la parte. Perché l’Elvino di Francesco Meli canta spesso su una tessitura che è simile a quella di Nemorino.
L’aggiusto e l’accomodo erano, da sempre, al servizio del carattere del personaggio e dell’interpretazione, quindi. Nell’edizione, invece, abbiamo solo aggiusti ed accomodi. Manca, però, il corrispettivo della interpretazione rispettosa della poetica del personaggio e dell’autore. Perché il signor Meli, dotato in natura di un timbro di qualità, non pratica il canto professionale (le idee su sostegno, copertura e proiezione del suono, immascheramento sembrano sconosciute, alla fine dell’ascolto) tanto è che appena compare un mi3 o un fa 3 si strozza e, a scelta, emette falsettini o grida. Quindi nessuna dinamica perché la mancanza di tecnica lo costringe ad emettere piani “indietro”, ad ignorare i numerosi trilli o mezzi trilli a pasticciare i pochi passi di agilità previsti.
Elvino non sogna perché non fraseggia a mezza voce, Elvino non spara acuti, Elvino non ricorda la indiscussa ascendenza rossiniana del suo canto. Gli esempi si sprecano, bastano i toni dei recitativi veristi, i moderati dei duetti privi di legato, il suono indietro e sfibrato ad ogni tentativo di addolcire e smorzare; lo “Sposi or noi siano” del famoso “Prendi l’anel ti dono” è la summa della tecnica e del gusto del protagonista maschile.
E tralascio che in una registrazione con velleità culturali non venga eseguito il da capo della cabaletta “Ah perché non posso odiarla”. Con una simile scelta il protagonista maschile perde la sua scena più importante, che ne fa un vero protagonista e non un “puntello” alla protagonista.
Eppure in altra epoca di nessuna attenzione filologica con trasporti meno evidenti di quelli proposti per, edizione critica Tito Schipa, Alfredo Kraus ed anche il supremo trasportatore, Fernando de Lucia hanno sfoggiato dinamica ed accento assai più pertinenti al personaggio ed alla poetica belliniana.
Le osservazioni sono identiche per la protagonista, che sarebbe il più celebre soprano d’agilità oggi in carriera, stando a luoghi e titoli delle sue esibizioni.
In generale sentiamo una voce usurata, che stenta a legare e non brilla nei passi acrobatici, proposti nella versione letterale, il più delle volte, o con abbellimenti che non rispondono alla principale funzione dell’abbellimento.
Passando in rassegna la parte i limiti della protagonista sono costantemente identici. La voce suona molto vuota nella zona bassa, gradevole al centro,a condizione di non superare il mezzo forte e appena si avvicina la zona del passaggio superiore compaiono suoni, che gergalmente parlando, sono di gola, ovvio che gli acuti siano duri, faticosi, esibiti al minimo. Ossia la negazione della voce impostata secondo le prescrizioni della scuola italiana, incondizionatamente seguite da tutte le protagoniste di levatura. Ma anche dalle solide professioniste.
E’ una Amina, che, rimanendo ai soprani leggeri nei passi patetici, (la signora Dessay più volte ha manifestato insofferenza per l’aspetto acrobatico spettacolare del melodramma italiano, donde il dubbio del perché lo affronti sì spesso) non può certo competere con l’esecuzione della giovane Scotto o con i 78 giri di una Galli–Curci o di quel che resta (sempre troppo) di Adelina Patti o di Marcella Sembrich.
Sul canto di agilità vuoi la cabaletta della sortita che il rondò finale manca lo sfoggio di acrobazie che il momento scenico impone, ma anche un accento particolare e peculiare per la protagonista. Anche in questo caso il confronto con una cantante, prima di tutto “eloquente” come Renata Scotto è insostenibile per la Dessay.
Il conte Rodolfo di Carlo Colombara, un tempo dotato di vera voce di basso (e questa come tutte le parti di Filippo Galli è molto baritonale) ricorda, più che un nobile signore ancor disponibile ad amori ancillari, un versione nostrana di Gremin con canto in lingua paraslava. Anche qui una versione che si picca di essere filologica e critica dovrebbe essere importata ad un ripristino o tentativo di ripristino delle categorie vocali del tempo.
Se poi andiamo ad esaminare i suoni orchestrali non troveremo certo raffinate e tenui sonorità che richiamino il clima da idillio pastorale, ma suoni piuttosto pesanti e grevi e nessun finezza. Non mi sembra, fra l’altro, ma posso sbagliare di avere sentito il suono delle due trombe ad introdurre l’aria di Elvino. E poi sempre per coerenza, almeno nella registrazione l’esecuzione completa e completa di variazioni sarebbe non solo doverosa, ma onesta nei confronti del pubblico, che si illude di acquistare un prodotto non solo artistico, ma anche filologicamente valido.
Buon ascolto ?

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venerdì 26 dicembre 2008

7 dicembre: tonfi e trionfi

E nonostante tutto non sarà questo l'ultimo nostro pensiero alla serata inaugurale del massimo teatro milanese. E' una serata che riserva emozioni ed in coda ancora emozioni. Come le riservava la sera di Santo Stefano, sino al 1950 dedicata all'inaugurazione scaligera.
Allora un pensiero ai tonfi e trionfi delle serate inaugurali, la sera in cui, un tempo, principiava la stagione detta di Carnevale e Quaresima.


Il primo Sant'Ambrogio fu quello del 1951 con i Vespri che segnarono non solo il cambio di data, ma l'inzio dell'ERA CALLAS. I più accreditati vedovi possono trarre anche da questo elemento motivo di mitizzazione della Maria!
Per la cronaca anche santo Stefano fu serata di tonfi e trionfi. Il più clamoroso -tonfo - fu quello del Santo Stefano 1831, vittima Norma. Ma le cose non andarono tanto bene neppure con il santo Stefano 1833, première di Lucrezia Borgia. Poi si parlò di due titoli storici e il primo inciampo fu dimenticato. Per la gioia dei nostri ascoltatori vi offriamo una Norma che, se non ricalca nel gusto quella di Giuditta Pasta e Giulia Grisi, richiama quella delle mirabolanti sorelle Marchisio, che nel 1859 alla Scala venne salutata come opera risorgimentale considerato ed il momento storico ed il coro antiimperialista dei Galli.
Gli inciampi degli ultimi anni, invece, sono rimasti. Vissuti in prima persona quelli della fine dell'era Abbado e dell'incipit della Muti.
Abbado, direttore imprestato al melodramma, lasciava spesso il podio il 7 dicembre ad altri colleghi; a volte per stima e rispetto (Otello di Kleiber nel 1976 e Fidelio di Böhm nel 1974) altre volte (Falstaff di Maazel 1981) perchè più attratto da altre scelte musicali.
Nel 1984 propose Carmen, che era stata un trionfale e rivoluzionario titolo ad Edimburgo con Teresa Berganza. Per la Scala venne prescelta Shirley Verrett, altra diva amata e prescelta da Abbado. Il contorno era sulla carta sceltissimo ossia Domingo, Raimondi e la giovane Alida Ferrarini (poi una Micaela per antonomasia). Alla resa dei conti la protagonista era vocalmente sfilacciata e visivamente pìù Azucena che Carmen. Si dirà sempre zingare e sempre spagnole sono. Ma non basta. Il pubblico riprovò la protagonista, che pubblicamente e ripetutamente non trovò di meglio che imputare l'insuccesso al tardivo arrivo di Domingo. No comment!!!

Quanto al Muti principiante direttore principale scivolò, dopo un bel Nabucco, su Guglielmo Tell e Vespri.
I retroscena del Tell e la buccia di banana che il direttore medesimo si procurò in punto Matilde d'Asburgo sono ormai noti. Se a questo aggiungiamo la provvidenziale arte del maestro nel rendere più dolorosa e ardua la già dolorosa via dell'essere Arnoldo in Scala, imponendo tempi lentissimi, assoluto ed acritico rispetto dei segni di espressione, non sorprende che il Tell finisse fischiettato qua e là e che certificasse l'incomunicabilità fra Muti e Rossini fu il minimo.
Per la cronaca quando Muti ritornò a Rossini la prima volta disponeva di assoluti fuoriclasse (anche se debuttanti in Scala) e fu molto ligio ai loro desiderata e la seconda volta in trasferta agli Arcimboldi i tempi e il pubblico erano cambiati, anzi educati si diceva nell'entourage del maestro. E poi, al Moise, venne propinato le physique du role di Roberto Bolle, che tante prime ha salvato con esibizioni atletico fisiche encomiabili.
Quanto ai Vespri, dove il primo vero applauso della serata tocco a Patrick Dupont c'era sempre il solito soprano caro al pubblico milanese, c'era un tenore che andava sostenuto in altro modo, le idee del maestro per cui una cadenza andava, pena la morte, eseguita come scritta e un allestimento al risparmio e bruttino e per giunta ripetitivo dell'idea risorgimentale di fondo di altro allestimento, quello che aveva inaugurato la stagione 1970. Quella, per intenderci, della bagarre Scotto - vedovi Callas.
Fatto sta che dopo quelle infelici prestazioni sul repertorio il pubblico milanese venne premiato con titoli desueti (Armide ed Iphigenie di Gluck, Fidelio e Wagner che non si fischiano mai essendo musica assoluta, ad onta di come venga eseguita).
L'ascolto di una divina o reputata tale nella grande aria di Leonora del Fidelio è la prova di come i costumi e la mentalità del pubblico in un decennio avessero virato. E male.
Eppure il pubblico scaligero aveva anche pizzicato cantanti celeberrimi. Basta sentire che accade alla fine del sonnambulismo della Callas. Sonnambulismo che soprano e direttore realizzano in maniera splendida.
Il Macbeth, però, è un'opera fortunata in Scala. Fu uno dei trionfi dell'era Abbado. Bellissimo da vedere, grandiosi orchestra e coro. Poi se si guarda un po' meglio gli encomi che salutarono e mitizzarono la coppia protagonistica e la elessero a rispettivi paradigmi dei due ruoli sono da rivedere. E preciso non solo oggi, ma anche allora avrebbero, a mio avviso, meritato un po' di cautela. Il fascino dello spettacolo era indubitabile.
E di grande fascino, macchine sceniche perfettamente oliate, supportate da idee registiche e musicali che rivelavano "qualcosa da dire" furono Simone e Don Carlos.
Il senno del poi, soprattutto con riferimento a Simone, che venne ripetuto spesso in maniera routinaria per oltre un decennio fa vedere che c'erano anche qui difetti e mende. Soprattutto riferite al cast vocale ed a maggior ragione in un'epoca che se non più aurea era certo meno scalcagnata dell'attuale. Poi personalmente faccio follie per il cast del Boccanegra 1935 del Met e per la direzione sempre al Met di Mitropoulos.
C'è poi nell'epoca passata, quasi cinquant'anni, un'inaugurazione che spesso viene ricordata ossia quella del 1960 con il rientro di una consumata e poco allenata Maria Callas. Sentita oggi e per registrazione (e con l'aggiunta che quella fu la recita migliore per unanime giudizio) la Callas ha sempre il suo perchè ed il suo significato, almeno come puntigliosa professionista; ciò nonostante ogni volta che nel loggione scaligero qualcuno mormorava, invocando la MARIA, la replica è sempre: "ricordatevi il Poliuto".
Anche questo fa parte della storia come fa parte della storia ed è un esempio per tutti, ripeto tutti il mestro Gavazzeni che sonoramente fischiato in sede di esecuzione di una Forza del destino si rivolse al pubblico invitandolo a lasciar finire lo spettacolo, riservandosi, poi, alla fine ogni sacrosanto esercizio del diritto alla riprovazione. Altri tempi: da vent'anni abbiamo chi addomestica titolo e pubblico e chi fa lo stupito come se fosse la prima vola che un teatro riprova!!!!



Beethoven - Fidelio
Atto I - Abscheulicher! - Waltraud Meier, dir. Riccardo Muti - 7 Dicembre 1999

Bellini - Norma
Atto II - Deh! Con te li prendi...Mira, o Norma...Sì, fino all'ore estreme - Joan Sutherland & Marilyn Horne

Verdi - Macbeth
Atto I - Schiudi inferno - Piero Cappuccilli, Shirley Verrett, Franco Tagliavini, Nicola Martinucci, Stefania Malagù, dir. Claudio Abbado - 7 Dicembre 1975

Verdi - La forza del destino
Atto II - Or siam soli - Ilva Ligabue & Nicolai Ghiaurov, dir. Gianandrea Gavazzeni - 7 Dicembre 1965

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mercoledì 24 dicembre 2008

Buon Natale!

Gli auguri di Buon Natale sono sentiti e sinceri per tutti coloro che ci leggono.
Dieci direbbe qualcuno, ma se venticinque furono stimati dal grande don Lisander i propri, di dieci possiamo, nel rapporto proporzionale, essere orgogliosi. Ma sappiamo per certo che sono molti di più.


Gli auguri sono di tranquillità e serenità in un momento che stenta ad essere tale.
L'opera, la musica possono essere un aiuto.
E noi siamo ricorsi a maestri del canto natalizio di provata esperienza e lungo corso!
Avessero nel cuore i gelidi e nevosi Natali dell'Europa del Nord o dei grandi spazi americani o quelli tiepidi e solari del nostro Mezzogiorno, sono tutti splendidi nel rendere una gioja e una armoniosa serenità, quella che Giulia Grisi, Domenico Donzelli, Gilbert-Louis Duprez, Adolphe Nourrit ed Antonio Tamburini augurano di cuore ai loro lettori, che sono,invece, assai più di dieci!


Gli ascolti - Buon Natale!

Adeste fideles (tradizionale) - John McCormack

Franck: Panis angelicus - Fernand Ansseau

Adam: Minuit, Chrétiens - Pol Plançon

Huarte: Madrigal español - Tito Schipa

O Tannenbaum (tradizionale) - Lotte Lehmann

Humperdinck: Weihnachten - Ernestine Schumann-Heink

Pierpont: Jingle Bells - Beverly Sills

Gruber: Stille Nacht - Kirsten Flagstad

Bach/Gounod: Ave Maria - Eleanor Steber

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martedì 23 dicembre 2008

Edizioni critiche ed edizioni criticabili : la Sonnambula, Dessay - Meli - Pidò

Circa un anno fa, su un foro all’epoca di moda tra i melomani italiani, ebbi una singolare “disputa” col tenore Francesco Meli a causa delle recite concertistiche di Lyon e di Paris della Sonnambula di Bellini. Recite destinate ad essere documentate in un disco, da poco uscito, edito dalla Emi – Virgin, ed in cui il giovane tenore italiano interpretava l’impervio ruolo di Elvino.

Punto della questione, al di là della qualità della sua prestazione e dei fraintendimenti in merito a falsettoni e falsetti, le tonalità praticate da Meli in quell’esecuzione di Elvino. In alcuni punti chiave e particolarmente impervi della parte, le tonalità suonavano dalla registrazione radiofonica evidentemente abbassate, in un modo sconosciuto sino a quel momento, ma che, come affermato dallo stesso Meli, erano così definite nello spartito a lui fornito. Nuovo spartito Ricordi, che espressamente recava la dicitura “edizione critica”, cioè quella a cura di Luca Zoppelli ed Alessandro Roccatagliati.
Da melomane, ammiratrice incondizionata del duo Sutherland – Bonynge, riportai su quel foro parte delle complete ed affidabili ( quelle si! ) note critiche che il direttore-filologo australiano aveva allegato al libretto del disco Decca del 1963 della Sonnambula da lui diretta, protagonisti appunto la Sutherland e N. Monti. Questi, semplicissimamente, nel modo del filologo praticante sul campo, descriveva le vicende che avevano caratterizzato l’originaria acutissima scrittura di Elvino sin dalle prime rappresentazioni e per mano di Bellini stesso:

The keys used are those generally adopted both in this century and the last and are as published by Ricordi, the tenor part having been written abnormally high for Rubini. In the original manuscript the duet Prendi l’anel ti dono was written in B flat major and its cabaletta, Ah vorrei trovar parola, in G minor (now published in A flat major and F minor); the duet Son geloso was written in G major, not F major; the tenor cavatina, Tutto è sciolto, was written in B minor, not A minor, and the cabaletta, Ah perchè non posso odiarti, in D major instead of B flat major". (La Sonnambula. Note by Richard Bonynge, pg. 8 in: La Sonnambula, edizione Decca 1963, J Sutherland, N. Monti, R Bonynge )

Rispetto a quanto normalmente praticato dai tenori moderni, ossia l’edizione Ricordi tuttora in commercio, evidentemente Meli cantava in tessitura più bassa la cavatina di sortita “Prendi l‘anel ti dono”, la stretta del finale I “Non più nozze”, la scena di Elvino “ Tutto è sciolto”, restituendoci un Elvino dal colore singolarmente baritonale ( da baritenore, meglio dire ), in contrasto con quanto avevamo sino a quel momento sentito da tutti gli interpreti precedenti del ruolo.
Insistentemente sollecitato dalla Grisi e da Donzelli, che domandavano quale edizione stesse mai cantando, se la versione da baritenore proprio di Donzelli, che fu interprete del ruolo ( ma cosa cantasse esattamente non sappiamo dire…), o una trasposizione tonale verso il basso liberamente da lui operata, Francesco Meli rispondeva semplicemente che cantava “l’edizione critica”. Le tonalità dei passi in questione furono così indicate dallo stesso tenore:

- "Prendi l' anel ti dono" e il duettino seguente " Ah vorrei trovar parole" è scritto mezzo tono sotto;

- il finale del primo atto da "Non più nozze" è mezzo tono più basso fino alla fine delle stesso;

- "Tutto è sciolto" e "Pasci il guardo" sono un tono sotto, la cabaletta "Ah perchè non posso odiarti" è invece nella tonalità tradizionale;

il resto dello spartito è dal punto di vista musicale, a parte qualche notina diversa, identico a tutte la altre Sonnambule in circolazione...Per la signora grisi posso dire che lo spartito in mio possesso è l'edizione critica edita da casa Ricordi nel 2004 condotta sull'edizione critica della partitura a cura di Alessandro Roccatagliati e Luca Zoppelli; più di questo non so che dirvi a parte che io faccio il mio lavoro con una passione sfrenata e che ci metto tutto me stesso....."

La “disputa” finì lì, e forse alcuni la interpretarono, leggendo quelle pagine, come una mera questione di melomania o di faziosità loggionistica, mentre era, invece, a parer nostro, soprattutto una questione di principio, che meritava una risposta chiara ( idem dicasi per il fraintendimento sulla nozione di falsettone e di falsetto ).
In particolare ci sembrava che sussistesse gran confusione tra edizione critica e prima versione, tra versioni successive autografe e versioni successive non autografe, tra versioni documentate e libertà dell’interprete, il tutto a detrimento del pubblico e del suo diritto alla chiarezza circa la realtà storica di Sonnambula e delle modifiche apportate alla sua vocalità, trasporti e, più in generale, variazioni degli esecutori inclusi.
La recente apparizione del cd nei negozi ha risollevato, analogamente, la medesima questione, anche se su scala diversa, dato che il disco ha un pubblico di certo ben più numeroso dei siti web e, per giunta, pagante.
Il libretto di accompagnamento, anonimo, riporta quanto segue: “Questa registrazione di Sonnambula segue l’edizione critica di Alessandro Roccatagliati e Luca Zoppelli, pubblicata nel quadro dell’edizione critica delle opere di Vincenzo Bellini realizzata da Ricordi, in collaborazione con il Teatro Massimo di Catania.
I cambiamenti più spettacolari concernono Elvino (tenore). Due numeri chiave di questo ruolo, la cavatina “Prendi l’anel ti dono” ed il bel duettino tra Amina e Elvino “ Vedi o madre “erano stati trasportati in tonalità più alte, e questo a detrimento della logica tonale dell’opera. Questi ritrovano oggi la loro tessitura originale. Gli editori si sono ugualmente attenuti ad una rilettura approfondita dell’orchestrazione e delle nuances ed hanno restaurato il duo di trombe che introducono la scena di Elvino all’atto II e che la tradizione aveva soppresso…
.”
Di nuovo affermazioni poco credibili, come quella sulla trasposizione verso l’alto del duettino Amina - Elvino, contrarie a tutto quanto era noto anche ai melomani circa la tradizione interpretativa e la vocalità dell’opera e che chiariscono sulla realtà dell’edizione critica e le ragioni delle trasposizioni tonali adottate per il disco. Affermazioni “perfezionate” anche dalla nota sul restauro delle due trombe a chiave che precedono, stando all’edizione critica, l’aria di Elvino, ma che nel disco……..non si sentono!

A questo punto, ad evitare interpretazioni arbitrarie del disco come dei fatti, oltre che per curiosità intellettuale mia e dei miei amici del blog, ho cercato di ottenere dalla sola fonte attendibile, ossia i curatori dell’edizione critica in questione, elementi di chiarezza.
Grazie ad Internet ho rintracciato il professor Fabrizio Della Seta, dell’Università di Pavia, Facoltà di Musicologia, condirettore dell’edizione critica di Sonnambul,a come dell'integrale delle opere di Bellini, con i prof. Zoppelli e Roccatagliati. Mi sono rivolta al professor Della Seta via mail. Ho ricevuto una risposta molto cortese e chiarissima, che il professore ha acconsentito che venisse pubblicata per i lettori di questo blog, nonostante si tratti di un sito di hobbisti e non di una sede scientifica, ritenendo doverosa una corretta informazione del pubblico.
Pubblichiamo qui di seguito la mia mail e, quindi, la sua risposta.

Gentile Prof Della Seta,
mi permetto di disturbarla in merito all'edizione critica della Sonnambula di Bellini, cui lei ha partecipato.

Conoscevo le vicende della parte di Elvino, ossia quanto pubblicato sino ad oggi nelle note introduttive ai dischi degli anni '60, e che portarono, se ho ben inteso, la tessitura originariamente scritta da Bellini per Rubini a quella dello spartito Ricordi comunemente adottato.

Ora leggo che l'edizione critica curata da lei e dai suoi colleghi, implica ulteriori abbassamenti della parte di Elvino, fatto peraltro percepibile, anche ad orecchio profano come il mio, durante l'ascolto dell'ultima edizione discografica Meli - Dessay.

Le scrivo, dunque, per domandarle a quale versione o rimaneggiamento di Bellini si riferisca questa diversa e più bassa scrittura della parte di Elvino ( per quale cantante fu così trasportata la parte o in quale occasione? ).
Mi sono permessa di scriverle direttamente dato che la vostra edizione critica non è ancora in commercio nè le note allegate al disco che ho acquistato contengono spiegazioni in merito.

Mi scuso del disturbo e la ringrazio per la sua disponibilità

cordialmente e con molti auguri di buon natale


******


Gentile Signora,
La ringrazio per aver posto un problema quanto mai delicato. Devo precisareche i curatori dell'edizione della Sonnambula sono i colleghi AlessandroRoccatagliati e Luca Zoppelli. Naturalmente, come condirettore insieme aisuddetti dell'Edizione critica delle opere di Vincenzo Bellini, m
i ritengocorresponsabile dell'operazione nel suo complesso. Ho ricevuto il CD con l'incisione Pidò-Dessay-Meli da soli tre giorni, l'ho immediatamente ascoltato e sono rimasto stupito quanto e più di Lei. La nota anonima che si legge nell'opuscolo dichiara infatti che "i cambiamenti più spettacolari" di questa edizione riguardano le sezioni in cui interviene Elvino, che "erano stati trasposti in tonalità più alte, anche a detrimentodella logica tonale. Essi ritrovano oggi la loro tessitura originale". Ecco come stanno le cose in realtà:

- Cavatina di Elvino ("Prendi, l'anel ti dono") originale (autografo di Bellini ed edizione critica): Sib maggiore; spartito Ricordi (1831) ed edizioni correnti: Lab maggiore; CD Sol maggiore.


- Duettino ("Son geloso del zefiro errante") originale: Sol maggiore; spartito Ricordi: Fa maggiore; CD: Fa maggiore.


- Stretta del Finale I ("Non più nozze") originale: Sol maggiore; spartito: Lab maggiore; CD: Sol maggiore.

- Aria di Elvino ("Tutto è sciolto"/"Ah, perché non posso odiarti") originale: Si minore/Re maggiore; spartito Ricordi (1831); Sib minore/Rebmaggiore; spartiti più recenti: La minore/Sib maggiore; CD: Sol minore/Sibmaggiore.

Ricapitolando, nel CD in un caso è stata adottata la tonalità originale di Bellini, in uno quella delle edizioni tradizionali, in un altro c'è stato unulteriore abbassamento rispetto a queste, in un altro ancora, l'Aria diElvino, si è scelta una soluzione mista, che rispetta il rapporto originale tra le tonalità iniziale e finale del pezzo. Inoltre, la nota illustrativa afferma che l'edizione ha ripristinato il passaggio per due trombe che introduce l'Aria di Elvino. Verissimo, ma nel CD questo passaggio non c'è, come manca nelle edizioni tradizionali (se nonricordo male c'era nell'edizione Bonynge-Sutherland).. Devo precisare che in tutto ciò non c'è niente di 'sbagliato', almeno inlinea di principio. Uno dei criteri che guidano il nostro lavoro è che l'edizione deve fornire dati certi sullo stato delle fonti e sulla storiadella tradizione esecutiva, mentre l'esecutore può e deve compiere delle scelte sulla base di tali dati. La trasposizione di brani in tonalità diverse sia da quelle scritte dall'autore sia da quelle delle edizioni a stampa era prassi corrente ampiamente documentata. Nel caso specifico, molti manoscritti attestano le trasposizioni che furono apportate alla Sonnambula nel corso dell'Ottocento, nessuna delle quali si può però attribuire direttamente a Bellini, ma questo, non vuol dire nulla: anche nella sua concezione la musica si doveva adattare di volta in volta alle caratteristiche specifiche degli esecutori impiegati (la logica tonale nonera una preoccupazione dominante). Oggi, quando un teatro decide di allestire un'opera servendosi di un'edizione critica, l'editore può fornire, oltre alla partitura base, materiali d'uso con brani trasposti nelle tonalità che il direttore stesso ritiene le migliori per i cantanti che ha a disposizione. Ed è questo che è stato fatto nell'esecuzione della Sonnambula, prima in teatro e ora in disco. Però queste scelte dovrebbero essere fatte con un criterio che guardi non solo al singolo cantante ma al risultato dell'insieme; qui il guaio è che adattando questi pezzi alle esigenze di Meli la povera Dessay, che canta insieme a lui, è costretta adiventare un mezzosoprano, soprattutto in "Ah, vorrei trovar parola", dove sprofonda fino al Si grave laddove c'era un Re. La stessa logica vale per i tagli, che Bellini introduceva a volte, ma che poteva riaprire in un'altra occasione. Anche in questo caso le cose andrebbero fatte con criterio: purtroppo nel CD hanno seguito pedissequamente la prassi tradizionale tagliando la maggior parte delle ripetizioni delle cabalette, nella Cavatina e nell'Aria di Elvino e nell'Aria di Rodolfo; solo le arie di Amina si sono salvate, evidentemente perché la Dessay ama cantare le ripetizioni variate.


Al di là di queste scelte, che pertengono all'esecutore e che l'ascoltatore è poi libero di giudicare, trovo veramente discutibile che le note illustrative delle esecuzioni (in disco o in teatro) vengano affidate a persone che evidentemente:

1) non conoscono l'edizione e i principi che la informano;
2) non hanno ascoltato la registrazione (o le prove) prima di scrivere. E che i responsabili dell'edizione non siano chiamati a spiegareil lavoro che hanno svolto, un compito che evidentemente essi potrebberosvolgere meglio di chiunque altro. Così si traggono in inganno, con affermazioni a dir poco arbitrarie, i fruitori, che normalmente non hanno per questi problemi l'attenzione e la consapevolezza che Lei dimostra di avere.

Nel ringraziarLa per l'attenzione, La prego di gradire i miei migliori saluti ed auguri,

Fabrizio Della Seta

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Ecco qui la verità della ricerca filologica.
Abbiamo così appurato:

- che il booklet contiene una certa dose di approssimazione e disinformazione ( e forse meriterebbe di essere corretto per rispetto ai curatori dell'edizione critica );
- le tonalità della prima esecuzione dell'opera rispetto a quelle dell'edizione Ricordi e di quanto eseguito nel disco;
- il fatto che esistano ulteriori trasposizioni tonali verso il basso dell'aria di Elvino "Tutto è sciolto", comunque diverse da quella eseguita nel CD, di cui non sappiamo l'autore;
- che Bonynge, per la sua edizione del '63, pur non eseguendo tonalità originarie ed eseguendo molte prassi di tradizione, aveva studiato realmente le vicende dello spartito documentandosi sui manoscritti, e riportando puntualmente i fatti nel libretto allegato al disco. Oggi i libretti che accompagnano i nuovi dischi sembrano non posseder la stessa affidabilità.

In definitiva, per quanto riguarda il tasso filologico dell'operazione, un'edizione più criticabile che critica a causa dei suoi principi ispiratori.
Segue recensione del disco.

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lunedì 22 dicembre 2008

Buon compleanno, Sor Giacomo! Sue, Magda & Eleanor

Buon compleanno, caro Puccini! In questo giorno, Vostro centocinquantesimo genetliaco, il Corriere della Grisi si unisce a tutto il mondo musicale nel ricordare il Vostro nome e soprattutto la Vostra opera. E lo fa, naturalmente, con un concerto, affidato in esclusiva a due autentiche Divine del canto: Magda Olivero ed Eleanor Steber. Voi non aveste la possibilità di udirle e vederle in scena, ma queste due gigantesse della scena lirica Vi hanno servito e onorato nel migliore dei modi, dai primi agli estremi anni delle loro carriere.

Difficile immaginare due percorsi più diversi: la regina incontrastata del repertorio decadente e verista fra Otto e Novecento, dalla carriera letteralmente interminabile, fra le scene di provincia e i grandi teatri internazionali, fino all'approdo, avvenuto nel 1975 a sessantacinque anni, al Met, e colei che per venticinque anni del Met fu l'eclettica ed elettrica principessa, alternando Mozart e Wagner a Verdi e Richard Strauss. Così come è difficile comparare la voce ricca, ambrata e cremosa di miss Steber allo strumento in natura meno attraente della signora Magda. Ma la tecnica ferrea e l'intelligenza interpretativa sono gli elementi che queste cantanti condividono e profondono a piene mani nelle loro interpretazioni delle figure pucciniane. E sono gli stessi elementi che latitano in tante esecuzioni correnti, in cui la musica Vostra, caro Sor Giacomo, si riduce, quando va bene, a ricettacolo di non sfogate buone intenzioni.

Ascoltiamo per esempio l'ingresso di Butterfly cantato dalla Steber. La voce della cantante americana è l'ideale per esprimere la giovinezza del personaggio, ma la brillantezza del timbro e la facilità in alto sono esaltate dal perfetto controllo del fiato, un fraseggio morbido e aderente alle Vostre richieste, Maestro: le indicazioni di "sostenendo", le smorzature, i crescendo, fino all'esaltante re bemolle sovracuto coronato in chiusa, il tutto con accento al tempo stesso castigato ed esaltato, il più adatto alla sposa, per quanto non americana e quindi agli occhi di Pinkerton piuttosto succedanea, che si accosti al talamo nuziale. La capacità di cantare legando i suoni a qualunque altezza, di variare la dinamica passando nello spazio di poche note da un pianissimo a un piano, a un forte capace di sovrastare l'orchestra, è identica nell'esecuzione della grande romanza del secondo atto, carica in eguale misura di malinconia e febbricitante attesa. La non perfetta padronanza della lingua italiana limita un poco l'effetto delle note ribattute al momento dell'approdo della Abramo Lincoln, ma la cavata che miss Eleanor sfoggia alle parole "Ei torna e m'ama" è tale da giustificare l'applauso a scena aperta che le tributa il pubblico.
Identici applausi, o meglio boati, suscita la signora Magda. "Un bel dì vedremo" è cantata con la consueta maniacale attenzione alle indicazioni dinamiche. Non Ve ne adombrate, Maestro, ma la signora introduce un paio di idee che, lungi dallo stravolgerla, migliorano la Vostra scrittura, ad esempio il pianissimo improvviso sulle parole "un picciol punto", a esprimere lo scarto fra l'irrisorietà di quel puntino che s'avvia per la collina e la felicità insostenibile che l'evento suscita nel cuore della protagonista, o la smorzatura sui do consecutivi di "per la collina", in modo da rafforzare la tensione del racconto. Tutta la sezione successiva è sussurrata in un pianissimo impalpabile ma perfettamente appoggiato sul fiato, in modo che il crescendo sulle parole "e un po' per non morire" e il successivo forte risuonino con un'intensità degna di una voce dotata di ben altra potenza rispetto a quella della Olivero. Altro momento altissimo è la scena della morte, in cui l'ascolto smentisce l'assunto, da tanti adottato, che vede nella cantante piemontese nient'altro che un'esecutrice bieca e sgangherata, verista nel senso più deteriore del termine. La spettrale declamazione delle parole incise sul pugnale, la smorzatura su "fior di giglio e di rosa", la messa di voce su "muore Butterfly", un non certo comodo la acuto, in cui l'indicazione "con voce di pianto" non ha nulla di naturalistico, e infine l'Andante sostenuto in cui la dinamica mutevolissima rende l'abbattimento e la commozione di Butterfly in maniera straordinariamente efficace. Insomma il bagaglio tecnico serve a rendere eloquente la voce, nel repertorio verista come in qualunque altro: non è un'alternativa all'espressività, bensì ne costituisce la precondizione, la base e il sostegno.

E sempre con l'ausilio della tecnica le signore danno vita a due letture di Tosca che più diverse non potrebbero essere, ma che hanno entrambe, caro Giacomo, un plausibile fondamento nella Vostra musica. Miss Eleanor coglie della cantatrice romana soprattutto il lato della Diva, forse in questo idealizzando un poco oltre il necessario un personaggio in realtà più pratico e per certi versi spiccio che poetico e distaccato. Però il duetto del primo atto è di un fascino irresistibile, l'Allegro moderato "Non la sospiri la nostra casetta" vario e sfumato, elegantissimo, un gioco sopraffino di rubati e accelerati, in cui la voce importante e nel registro acuto addirittura imperiosa è sempre dolcissima e può arrivare non solo a risolvere tutte le indicazioni richieste dallo spartito, ma a togliersi lo sfizio di eseguire la sestina a imitazione di un trillo su "ammolliscono i cuori", che nella Vostra bontà, Maestro, avete segnato come "oppure"... ben conscio, come certo eravate, di non aver certo lesinato in difficoltà e pensando al dopo-Darclée!! La perizia, l'intelligenza, lo charme della bella Eleanor sono tali, in questa pagina, che il suo Cavaradossi, non certo l'ultimo arrivato, si vede a mal partito e sembra perdere la testa, contentandosi di cantare su un solido mezzoforte, spianando le acciaccature per lui previste e osando qualche prudente mezzavoce e smorzatura solo nell'ultima sezione del duetto, in cui, per inciso, la Steber riesce a sopraffarlo nelle frasi cantate all'unisono. La sicurezza in alto è anche la cifra caratteristica della scena della tortura al secondo atto, in cui, se proprio vogliamo trovare un difetto alla cantante americana, dovremo ricercarlo nel registro basso, un poco troppo aperto e comunque non al livello dei centri, questi saldissimi e imprescindibili nel canto di conversazione da Voi condotto, in questa pagina, a vertici assoluti. Il perfetto controllo del fiato, che consente arcate sonore di grande compattezza, e il timbro luminoso rendono a "Vissi d'arte" tutto il suo carattere di preghiera, per quanto preghiera di una primadonna, e in quanto tale più simile alla perorazione teatrale che alla solitaria meditazione della credente, sia pure preda, a più riprese, di tentazioni blasfeme.
Tutt'altra sobrietà dimostra la signora Olivero, ancora una volta in ispregio all'immagine di strillona e becera che alcuni poco accorti censori hanno voluto di lei costruire. Basti sentire il raccoglimento della voce e le abbondanti sfumature profuse in "Ed io veniva a lui tutta dogliosa" per scorgere una Tosca affatto stanca e disillusa, ma non per questo meno nobile o composta. Al parlato (scritto, superfluo a Voi ricordarlo) di "Giuro!" segue infatti il più estatico dei pianissimi, prontamente scortato da un'incantevole filatura. Ecco il pianto nella voce, l'effetto alieno da ogni grossolanità ma sommamente efficace da Voi prescritto. Certo la signora Magda trova in pagine come questa la più alta espressione della propria arte. Il "Vissi d'arte" è tutto giocato su piani e pianissimi, un sussurro che però in nessun punto risulta diafano o evanescente, ed è ancora una volta la voce perfettamente appoggiata sul fiato a produrre quello che oggi parrebbe un vero miracolo, mentre un tempo era ordinaria amministrazione o poco più, ché se l'arte era, come sempre è stata, privilegio di pochi, il possesso dei ferri del mestiere era ben altrimenti diffuso. Qui come nella Butterfly, poi, l'accorta amministrazione dei mezzi vocali permette il rispetto letterale, anzi a tratti persino più accentuato che nella Vostra lettera, delle forcelle, conferendo alla voce, di per sé non irresistibile, una nota mesta e abbattuta che la rende unica e, mai come in questo momento drammatico, necessaria. Il finale del secondo atto, altro momento in cui molti attenderebbero, dalla cantante attrice quale la signora Olivero è, un eccesso di temperamento e un difetto di canto, la voce è sempre presente all'appello, l'intonazione non conosce vezzi od ondeggiamenti e l'unica licenza è costituita dalla resa parlata della celebre frase "E avanti a lui tremava tutta Roma", da Voi scritta come una serie di do diesis gravi. Come sentirete, Maestro, la soluzione non manca d'effetto, e credo che la divina Magda abbia a sperare nella Vostra approvazione.

Abbiamo lasciato per ultima la Fanciulla del West. Forse non lo sapete, Maestro, ma la signora Olivero considerava la parte di Minnie una delle più affascinanti del repertorio, per la gamma di emozioni teatrali che permette di dispiegare. Ovviamente a condizione che l'interprete sia in pari misura dotata di perizia e fantasia. E siccome la signora a nessuna era (è???) seconda in queste doti, pensiamo di non poterci esimere dal proporre un'ampia selezione di una produzione dell'opera che la vide protagonista accanto a un senescente ma non certo finito Giacomo Lauri-Volpi (in fondo aveva solo sessantacinque anni e cantava in teatro da trentotto!). L'assolo "Laggiù nel Soledad" è l'ennesima dimostrazione del talento e anche dell'accortezza della signora Magda: un pianissimo ininterrotto, impreziosito da filature che sembrano ricama, il che, oltre a esprimere splendidamente l'incanto dell'infanzia rievocata, permette alla cantante di risparmiare la voce e arrivare fresca e riposata alla frase "S'amavan tanto", in cui la voce ha da salire al do coronato. Ovviamente su "e certo l'amerei" la Olivero sdegna il comodo "oppure" in fascia centrale e opta per la soluzione acuta, che porta ancora una volta la voce al la naturale, anche questo con corona. Certo passare la Vostra turgida orchestra, caro Maestro, non è una passeggiata... ma nel successivo duetto del primo atto tenore e soprano non faticano a svettare, malgrado la voce di Lauri-Volpi accusi oscillazioni più che scusabili, per l'età e per la drammaticità di una parte del genere, arduo cimento anche in più freschi dì. Ciò detto il si naturale su "bella m'appar" testimonia ancora una volta la grandezza del tenore di Lanuvio e giustifica pienamente l'applauso a scena aperta tributatogli dal pubblico. A questo risponde la signora Magda con l'assolo "Io non son che una povera fanciulla", in cui è l'accento incantato e pudico a farla da padrone, il che prepara splendidamente, per contrasto, lo sfolgorante passaggio sulle parole "su, su, su come le stelle", che porta la voce a due luminosi si naturali. Prodezze come queste, sia chiaro, si integrano perfettamente nel discorso musicale, così che non solo l'orecchio del pubblico, ma l'arte Vostra ne ricava il massimo giovamento.
E dato che non possiamo certo deludere alcuni nostri simpatici lettori, che dalla stigmatizzazione dei monumenti del canto ricavano un sottile godimento, proponiamo anche la scena della partita a poker, certi che chi vorrà sghignazzare alle spalle delle risate previste in partitura e rese con foga nevrotica dalla signora Olivero, avrà l'agio di farlo. Gli altri potranno ammirare la magnificenza del legato della suddetta, interrogandosi magari su come possa una cantante da più parti ritenuta vocalmente reprensibile eseguire in scioltezza le tremende frasi acute che coronano il secondo atto.
Ma, con tutto il rispetto per la signora Olivero, chi meglio dell'americana Steber può dare vita e soprattutto voce all'ardita saloon girl della California? Per dimostrare una volta di più che l'arte del canto non è una proprietà transitoria né un attributo della gioventù, abbiamo scelto di proporre Miss Eleanor in pagine estratte da due differenti esecuzioni dell'opera, a dodici anni di distanza l'una dall'altra. La prova del 1966, per inciso, costituisce l'addio alle scene della cantante. Ebbene la voce, nell'arco di quei dodici anni, ha certo perso smalto, soprattutto nelle note centrali e nel registro basso che si è fatto più sordo, ma l'intonazione e soprattutto il mordente, indice di una voce perfettamente proiettata, sono identici nei due nastri, il più recente dei quali invero fortunoso. E se nel 1954 la divina Eleanor sfoggia un canto a fior di labbro e al tempo stesso appassionato, umiliando un partner dalla voce imponente, ma interprete monocorde e stentato in acuto, l'ascolto più impressionante rimane il finale ultimo, in cui Minnie non solo ha da svettare su coro e orchestra a suon di la e si naturali, ma deve persuadere, intenerire e commuovere, e ciò non può essere fatto che attraverso un canto privo di ogni durezza e fatica, un canto ideale... il canto, in una parola! E la buona Steber in questo non avendo problemi, riesce a bersi con sorridente agio le difficoltà di cui è costellato il ruolo.

Per tutte queste ragioni, caro Maestro, abbiamo scelto le due signore per omaggiarVi, e insieme con loro Vi rinnoviamo gli auguri di felice compleanno. Centocinquanta ancora di questi giorni... e centocinquanta (ma bastano anche cento... dieci... o una soltanto!!) di queste magnifiche Primedonne!



Gli ascolti - Giacomo Puccini


Tosca


Atto I

Mario! Mario! Mario! - Eleanor Steber & Carlo Bergonzi (1959)

Ed io veniva a lui tutta dogliosa - Magda Olivero (1957)

Atto II

Ed or fra noi parliam da buoni amici - Eleanor Steber & George London (1959)

Vissi d'arte - Eleanor Steber (1959), Magda Olivero (1957)

Vedi, le man giunte io stendo a te - Magda Olivero & Scipio Colombo (1957)


Madama Butterfly

Atto I


Ancora un passo or via - Eleanor Steber (1948)

Atto II

Un bel dì vedremo - Magda Olivero (1961), Eleanor Steber (1948)

Il cannone del porto! Una nave da guerra - Magda Olivero (1961), Eleanor Steber (1948)

Atto III

Con onore muore...Tu, tu, piccolo Iddio - Magda Olivero (1961)


La Fanciulla del west

Atto I

Laggiù nel Soledad - Magda Olivero (1957), Eleanor Steber (1954)

Mr Johnson, siete rimasto indietro - Eleanor Steber & Mario del Monaco (1954), Magda Olivero & Giacomo Lauri-Volpi (1957)

Atto II

Una partita a poker - Magda Olivero & Gian Giacomo Guelfi (1957)

Atto III

Non vi fu mai chi disse: "Basta!" - Eleanor Steber (1966)

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Buon Natale


Cari lettori di questo Corriere, auguri ! Augurissimiiiiiiiiiii!!!!!!!!

Merry Christmas!
Joyeux Noel!
Feliz Navidad!
Frohe Weihnachten!


Auguri di un Natale felice, pieno di serenità, amore e amicizia da parte di tutti noi.

Per parte nostra, un presente musicale: la voce di una nostra cara "amica", per ringraziarvi dell'affetto dimostrato a questo blog ed un piccolo dono natalizio, vale a dire una maggior capacità di download dal blog, che, speriamo, vi consenta di scaricare meglio delle settimane scorse perché...................avete scaricato come pazzi!!!!!! Davvero..... avete schiantato le normali capacità del server degli audio.
Grazie ancora, e di nuovo auguri.

Mozart - Exultate, Jubilate - Alleluja - Sigrid Onegin

gg & friends

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sabato 20 dicembre 2008

Corrieri paralleli

Miei cari lettori,
il nostro beneamato Gilbert Louis Duprez mi invia ora, di suo pugno e penna ( d’oca, naturalmente ), una lettera che vi riporto integralmente, poiché riguarda alcune sue recenti ”composizioni” scritte, pubblicate dal nostro Corriere. Conoscete il temperamento del nostro Duprez, la sua grande suscettibilità d’artista e sommo tenore. Spero che anche voi avrete modo di consolarlo per la sua presente arrabbiatura.


Mia cara Giulia,
In codesti giorni successivi alla assai turbolenta prima scaligera, ho avuto la ventura di riprendere in mano – e leggere con maggiore attenzione – alcuni dei tanti “contributi” che la stampa nazionale ha dedicato all’opera di Verdi e all’inaugurazione di stagione del teatro milanese. Tra di essi, naturalmente, quello pubblicato dal Corriere della Sera proprio in data 7 dicembre 2008. Orbene, dopo le prime pagine dedicate a regista (ai nostri tempi non vi era un impiego siffatto, ricordi?), maestro concertatore, cantanti e passate edizioni, l’attenzione è stata catturata da un non breve articolo – a firma di Enrico Parola – intitolato “Le voci: prova corale e di divismo”, dedicato ai primi interpreti, agli aneddoti circa la formazione del cast e ai divi del passato (più o meno recente) che avrebbero lasciato il segno nell’interpretazione dei diversi ruoli. Iniziando la lettura – questa volta approfondita – certe frasi, certe espressioni, persino il modo di argomentare, avevano un che di familiare e di “già sentito”. “Ma questo è il Corriere della Sera o il Corriere della Grisi?” mi sono chiesto, non celando un piccato stupore. Infatti ho riconosciuto nell’articolo suddetto, ampie e consistenti “citazioni” (chiamiamole così…) dell’intervento a mia firma dedicato a Filippo II, e pubblicato il 17 novembre 2008: ben 20 giorni prima dello scritto sul quotidiano milanese! Appare coincidenza alquanto improbabile, infatti, che vengano utilizzate le medesime fonti, disposte nel medesimo ordine, con le stesse identiche parole (tutt’al più variate nella disposizione del predicato verbale o nella sostituzione – parca – con qualche sinonimo). Per non lasciare il discorso vago e imprecisato (e per fugare ogni sospetto di mala fede) voglio riportare alcuni esempi. Scrive il Corriere della Sera: “Attorno al ruolo dell’Inquisitore si sollevò una contesa tanto burrascosa da mettere a repentaglio la “prima” stessa: Jules-Bernard Belval si lamentò della brevità della parte, ritenendola indegna per un “primo basso” quale si considerava, e l’Opéra, usa alle bizze dei divi, cercò di conciliare le parti istituendo una commissione presieduta da Ambroise Thomas che avrebbe dovuto stabilire se quello dell’Inquisitore potesse essere considerato un ruolo principale. A quel punto fu Verdi a minacciare di ritirare l’opera, rifiutandosi di mettere sotto esame la sua musica. La direzione del teatro riuscì a raggiungere un compromesso sostituendo Belval con David, inizialmente scritturato come Monaco; caustico il commento del compositore sulle lungaggini della burocrazia francese: le tartarughe dell’Opéra discutono ventiquattr’ore per deciderese Faure o la Sass devono alzare il dito o tutta la mano”. Tale brano – sintetizzato e sfoltito – è del tutto analogo al seguente pubblicato dal nostro Corriere: “Il duetto con l’Inquisitore, però, finì per essere la causa di uno dei tanti momenti di tensione nel cast impiegato all’Opéra (le difficoltà incontrate da Verdi nella formazione e nella gestione della compagnia di canto, sono paradigmatiche per comprendere il grado di macchinosa burocratizzazione che aveva ormai assunto il teatro francese), tanto che si rischiò di doverlo eliminare dalla partitura o di modificarlo radicalmente (come altri brani, sempre a causa dei capricci degli interpreti). Per il ruolo dell’Inquisitore, infatti, venne scritturato Jules-Bernard Belval il quale rimase alquanto infastidito per la brevità della sua parte (circoscritta, in pratica, al solo duetto), a suo dire non degna di un primo basso quale lui era. Accusò, pertanto, il teatro di aver violato il contratto che prevedeva una parte principale, abbandonò le prove e fece causa alla direzione. L’Opéra – abituata ai capricci dei suoi cantanti – dovette correre ai ripari: istituì una commissione presieduta da Ambroise Thomas, con l’incarico di stabilire se il ruolo dell’Inquisitore potesse essere considerato una parte principale. Verdi si rifiutò di sottoporre la sua musica a suddetto esame e minacciò di ritirare l’opera. Dall’impasse se ne uscì con la sostituzione di Belval con David (scritturato inizialmente per la parte del Monaco). Tutto ciò con l’inevitabile perdita di tempo, tanto deprecata da Verdi (ma tanto consueta per l’assurda burocrazia parigina). Le “tartarughe dell’Opéra” scrive l’autore, che “discutono ventiquattr’ore per decidere se Faure o la Sasse etc., devono alzare il dito o tutta la mano”. Parole, espressioni, struttura, argomentare: identici. Prova provata è poi il fatto che il mio articolo riporta un errore (di cui chiedo venia), un’imprecisione: imprecisione ed errore che rimane identico sul Corriere della Sera. Il commento sulle “tartarughe dell’Opéra”, infatti, da me attribuito per sbaglio a Verdi, è in realtà contenuto in una lettera di Giuseppina Strepponi. Sulle fonti (come il saggio del Budden) l’informazione è corretta, ergo...il quotidiano non le ha neppure sfogliate! Altri brani, tuttavia, ricordano il Corriere della Grisi – anche se in modo meno esplicito. Quando parla del primo Filippo il Corriere della Sera scrive: “Louis-Henry Obin, già primo Procida, a quel tempo considerato il miglior basso francese, applaudito Don Giovanni, ma anche fine interprete della tradizione belcantista”. Il Nostro Corriere riporta: “Il ruolo di Filippo venne pensato da Verdi per il basso Louis-Henri Obin, che fu già il suo primo Procida. Obin, assunse, dopo la morte di Levasseur il ruolo di maggior basso francese e svolse la sua carriera nell’ambito del grand opéra: Meyerbeer, Halevy, Verdi (ma anche il Rossini del Moise). Si ricorda anche come grande Don Giovanni. La carriera e i ruoli interpretati, rivelano le caratteristiche vocali del cantante, e, di conseguenza, l’approccio al personaggio del tormentato Re di Spagna (così come disegnato da Verdi). Un basso nobile, controllato e misurato, fine dicitore e ancorato a certa tradizione belcantista e donizettiana, dal canto morbido e ricco di sfumature e di legato”. In realtà un’altra singolare coincidenza di pensiero, è stata riscontrata nel pezzo di Isotta relativo alle diverse versioni dell’opera, e che arrivava – in base agli stessi motivi – alle medesime conclusioni. Tuttavia in questo caso, l’onore di essere stati ispiratori della penna del critico musicale di punta del quotidiano milanese, supera la giusta delusione per non essere stati citati, neppure di sfuggita. Si trattava però, in quel caso, di mera “affinità elettiva” di ragionamenti, non di citazione (continuiamo a chiamarla così…) vera e propria. La questione dell’articolo di Parola, invece, è differente! Ma che succede? Perché rivolgersi ad un Corriere amatoriale di semplici appassionati, che non sono né musicisti né critici musicali per professione e che fanno tutt’altro nella vita?
Naturalmente se il Corriere della Sera necessita di collaboratori, dò fin da ora la mia disponibilità!!!

Vostro G.L.D.

Mio caro Duprez,
Voi vi fate prendere sempre dalla Vostra irruenza, proprio come quando cantavate. E forse il Vostro destino è proprio quello di chi, per farsi ascoltare ad ogni costo, (anche se sarebbe meglio dire “squillare”!), produce qualcosa di specialmente bello, destinato ad essere …..emulato. Fu così anche col Vostro do di petto, non Vi ricordate? Avete forse scordato l’ira che causava in Voi ogni tenore che si producesse in quella nota così prepotente, senza potervi stare al fianco nel resto? Pretendevate di averla inventata, ma anche di rimanerne il proprietario nel tempo a venire….davvero una follia da tenore!
Suvvia, che volete che sia se una penna sconosciuta si appoggia al celebrato e celeberrimo Gilbert Louis Duprez ? Chi vi è di più autorevole di Voi, che Vi trovavate proprio là, in sala, all’Operà quando si allestì quel…pasticcio malcantato? Eravate così curioso e speranzoso che quel Verdi si inventasse qualcosa che potesse ancora eccitarvi, anche solo un’aria che poi avreste finito per cantare per gli amici Vostri, nel salotto di casa e alla Vostra età, che non mancaste una prova sola! A mio avviso si tratta solo di un semplice caso di oggettiva autorevolezza e perfezione intangibile del Vostro scritto.

Eppoi quest’altra follia di proporVi quale collaboratore!! Ma, insomma, dopo tanti e tanti anni, avete ancora la velleità di voler stare in prima fila, di voler primeggiare, di pretendere di porre il nome Vostro sulla pagina di un moderno giornale, per poi trovarvi nelle pastoie burocratiche del giorno d’oggi. Come pensate che potreste mai farVi pagare, o pagare le tasse, o quella strana cosa che mi pare chiamino” contributi ” ?? Vorrei davvero vederVi, l’ombra centenaria di un tenore famosissimo, ad un pubblico sportello! A spiegar loro che avete 200 anni, siete defunto eppure presente….un’altra delle Vostre follie “alla Duprez”.
Eh, mio caro Gilbert Louis, noi creammo il Corriere della Grisi ispirandoci, pel nome, non solo al più grande moderno giornale italiano. Certo, artisti straordinari come noi meritavano un titolo altrettanto straordinario in cima ai loro nomi, come era nelle locandine di quando cantavamo. Ma parimenti ci piaceva ammiccare al clima di sereno divertimento che pervade il Corriere dei Piccoli, ingenuo divertissment per bambini, e ricordarci dei Corrieri dei tempi nostri, molti dei quali passavano la vita ad affannarsi in groppa ad un cavallo, per portar celermente novità e notizie. Eppure lo sappiamo bene che è solo un gioco; solo il divertimento di alcuni vecchi, antichi amici che, sedendo serenamente nella leggenda del canto, ogni tanto guardano giù, verso questo povero mondo dell’opera, così….bistrattato e malridotto. A questo punto, però, mi par che accada come quando, per gioco, si canticchiava tra amici, per allietare gli ospiti di un dopo cena: ci applaudivano anche lì, vi ricordate?, anche solo per aver accennato un’arietta da salotto. Accade solo questo, mio caro Duprez, che un’artista resta un’artista anche quando scherza, come ben diceva l’amico Gioachino. E sebbene noi scribacchiamo sul nostro Corriere solo per divertirci un poco e romper la noia della vecchiaia, non pensando di certo allo “scrivere” ufficiale, è pur vero che anche in questo seguitiamo nel nostro destino d’artisti sommi ……….a far successo!

Vostra affezionata e da sempre grande estimatrice
G.G.

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"Di tanti palpiti, di tante pene"


Heinrich Heine ha scritto: “O Rossini, divino maestro, Sole d’Italia che spandi su tutta la terra i tuoi raggi sonori, perdona i miei compaesani che ti insultano a colpi di carta e d’inchiostro. Ma io mi beo dei tuoi fasci di luce melodici, dei tuoi smaglianti sogni che, come farfalle, mi danzano intorno e mi baciano il cuore con le labbra delle Grazie”. Queste parole, scritte nel 1830 dal poeta tedesco, mostrano, meglio di altre, sia la fama raggiunta da Rossini in tutta Europa (Stendhal lo battezzerà il Napoleone della musica, conosciuto da Mosca a Napoli, e la cui gloria non aveva limiti “se non quelli del mondo civile”) sia l’esatta portata delle concezioni estetiche del suo teatro.
Rossini, infatti, rimane saldamente ancorato ad un mondo governato dall’armonia della Ragione, dall’equilibrio e dall’ordine, ogni suo lavoro tende a quel Bello Ideale che trascende i sensi per tradurre l’esperienza estetica in metafisica. In tutti i suoi lavori – anche in quelli più “rivoluzionari” del periodo napoletano – Rossini non abbandonerà mai questo archetipo ideale (anche se ne dilaterà le forme sino al limite estremo), questa ricerca della Forma, rifuggendo sempre i nuovi fremiti e i bollori dell’incombente Romanticismo, coi suoi clamori, le sue emotività, la sua irrazionalità. Un inattuale dunque, Gioachino Rossini, sospeso tra due mondi, l’uno morente, l’altro non ancora nato. E lontano dalle tempeste del nuovo secolo e dalle facili illusioni dell’avvenire, rimase a coltivare e a cercare di salvare dallo scorrere senza freno della Storia, la poetica del Bello (il Bello Sublime), poi inesorabilmente spazzata via dal Tempo e dalle disillusioni (e forse proprio l’impotenza di fronte ad un nuovo mondo che non gli piaceva e a cui sentiva di non appartenere, fu il motivo del ritiro precoce dalle scene, appena trentaseienne e all’apice del successo). Non a caso l’altro grande inattuale del secolo, Goethe, ammirò Rossini ed in particolare il suo Tancredi, la cui musica gli riaffacciava alla mente il sogno di una riconquistata, o forse perduta, classicità. E pure Stendhal riconobbe in Tancredi l’illusione di una nuova Arcadia, e ritenne che questa fosse l’opera più grande scritta dal pesarese.
Tancredi, melodramma eroico in due atti, fu la vera prima grande opera seria di Rossini (dopo una comunque ragguardevole serie di già maturi lavori, la cui "diversità" rispetto ai contemporanei, e difficoltà esecutiva - soprattutto nella scrittura orchestrale - gli valse il soprannome di tedeschino). Scritta per Venezia nel 1813, significò per l’autore la conquista delle platee nazionali e internazionali (conquista subito rinforzata, nel medesimo anno con il primo capolavoro comico, L’Italiana in Algeri). Dunque il successo. E la gloria. Ma con essa anche l’invidia. E di gloria e invidia è testimone il dileggio perpetrato dal compassato e serioso Richard Wagner (dimentico dei tanti debiti verso l’opera italiana e i suoi autori, tra cui ovviamente Rossini) nei Meistersinger quando ridicolizzò proprio una melodia di Tancredi, l’ormai famosissimo “Di tanti palpiti”. Ma per quanto sgradevole e stupido, questo episodio mostra la popolarità del genio pesarese e della sua fortunata creatura (popolarità, successo e soddisfazione che resteranno sempre, per lo stolido Wagner, un motivo di grettezza, rabbia e ingratitudine - e dopo Rossini, l'insoddisfatto bidello del Walhalla se la prese col povero Donizetti). Ma che cosa rappresenta Tancredi per Rossini? Innanzitutto geometria, armonia ed equilibrio nella ricerca di un Bello Ideale che è più illusione che realtà. E a questo ideale ogni cosa viene sacrificata: i sentimenti, i caratteri, i personaggi, il dramma (Baricco lo definisce con efficacia “preistoria del Dramma, che dramma non conosce”). In Tancredi si unisce la compostezza della tragedia classica all’astrattezza e all’innocenza della figura dell’Eroe. Da queste concezioni estetiche ne discende ovviamente un preciso panorama musicale, sia nel trattamento dell’orchestra che in quello delle voci. La vocalità di Tancredi è ispirata a questa classicità astratta, fin dalla scelta del protagonista en travesti (che richiama alla memoria l’epoca ormai tramontata e gloriosa dei castrati) e dalle geometrie di cadenze, agilità, abbellimenti. Stessa geometria che si rivela nella struttura dell’opera: introduzione, cavatina, duetto... Ovvio, dunque, che a tale forte idealità, e alle sue regole formalmente inscalfibili, deve ispirarsi ogni incisione di tale capolavoro per riuscire nel proprio intento, quello cioè di rappresentare il difficile equilibrio di dramma e ragione, illusione e disillusione, eroismo e sconfitta, astrattezza e affetti.
Premetto alla disanima delle incisioni, che non appare questa essere la sede più adatta per dar conto della storia compositiva dei due finali (Venezia e Ferrara), delle problematiche che essi comportano e delle loro differenze musicali e strutturali, mi limiterò solamente ad indicare, di volta in volta, quale finale è stato scelto. Per togliere ogni dubbio dico subito che, a mio avviso, solo una cantante ha saputo rendere alla perfezione tutto ciò che Rossini comunica e scrive: Marilyn Horne. La Horne semplicemente è Tancredi. Se si osserva la discografia si noterà che non molte sono le incisioni disponibili: 1978 diretta da Gabriele Ferro; 1983 diretta da Ralf Weikert (con la Horne nel ruolo del titolo); 1994 diretta da Alberto Zedda; 1996 diretta da Roberto Abbado; 1999 diretta da Gelmetti.
Ognuna di queste ha caratteri peculiari e spunti più o meno interessanti, ma ovviamente solo quella con la Horne del 1983 mostra di aderire perfettamente a quell’estetica del Bello Ideale e dell’astrattezza belcantista che restano oggettivamente i caratteri peculiari di ogni Tancredi (in particolare) e i paletti interpretativi entro i quali restare nell'affrontare l’intero teatro musicale di Rossini (in generale).
E allora iniziamo proprio da questa incisione: oltre alla Horne presenta l’Amenaide di Lella Cuberli, l’Argirio di Ernesto Palacio e l’Orbazzano di Nicola Zaccaria. Della protagonista si è già detta l’assoluta perfezione nel superare ogni difficoltà della partitura con sicurezza e disinvoltura: le agilità sono fluide e scolpite (vere agilità di forza, come si addice all’eroe), gli acuti sono sicuri, i centri caldi, e i bassi espressivi e cantati (non parlati o “ruttati” come capita spesso di sentire). Semplicemente perfetta. Non c’è da aggiungere nulla. Sullo stesso livello la Cuberli, che dona ad Amenaide un giusto tono elegiaco e trasognato che evidenzia il contrasto con il carattere eroico di Tancredi. Palacio fa quel che può, certo dopo Merritt e Blake, è cambiata l’idea del tenore rossiniano, ma allora quello era il massimo che si potesse avere. Ovviamente il confronto con le protagoniste è impietoso, ma Palacio esegue il compito fino in fondo e si può dire egregiamente, eseguendo pure la difficile aria del secondo atto (spesso tagliata). Gli altri personaggi sono ottimo contorno. Weikert (che certo non è Karajan) accompagna con gusto e una certa leggerezza, senza intromissioni e seguendo i cantanti in modo diligente, certo la Sinfonia iniziale e i preludi all’aria di Amenaide e alla Gran Scena di Tancredi (con quegli accenti beethoveniani) meriterebbero di più, ma non ci si può certo lamentare. L’opera è eseguita con il finale tragico di Ferrara ed è pressocchè integrale, con solo pochi tagli nei recitativi secchi e una piccola limatura nel Coro finale dei Cavalieri (N. 16 II A).
Torniamo indietro al 1978, la prima vera incisione completa dell’edizione critica firmata da Philip Gossett (se si eccettua quella incisa da Perras per la Maison de la Culture di Rennes nei primi anni ’70, in realtà poco più che un saggio). A fianco della splendida Amenaide della Cuberli, Tancredi è Fiorenza Cossotto, che mostra non poche difficoltà, soprattutto nei duetti, ma che, intelligentemente, non potendo inseguire l’eroismo del personaggio con agilità di forza e accento eroico, risolve Tancredi interiorizzandolo e dandogli una patina elegiaca che, seppur distante dagli intenti di Rossini, appare piacevole all’ascolto e per certi versi convincente. Certo i problemi talvolta emergono: soprattutto negli acuti e nelle agilità a volte un pò pasticciate. Ciò che però delude maggiormente è il contorno: e se l’Orbazzano di Ghiuselev (seppure faticoso) è tutto sommato buono, l’Argirio di Werner Hollweg è semplicemente pessimo. A partire dalla fantasiosa pronuncia, per proseguire con le agilità approssimate, agli acuti sforzati e alla mancanza di fraseggio e colore. La direzione di Ferro poi (su strumenti originali) si caratterizza per una pesantezza opprimente: dov’è l’Arcadia che tanto aveva affascinato Goethe? Il finale scelto è quello tragico e l’opera è integralissima, con tutti i recitativi secchi (e sentita la pronuncia di Hollweg, e la lentezza di Ferro, forse qualche taglio lì sarebbe stato opportuno).
Arriviamo al 1994 per un’edizione assai interessante. Tancredi è Ewa Podles, magnifa nel ruolo del protagonista, mostrando tutto il debito nei confronti della Horne. La voce è scura, potente, ma molto agile. Amenaide è l’algida Sumi Jo, a me piace, ma confesso che ad un primo ascolto si rimane spiazzati: un Rossini rivisto con gli occhi di Mozart. Argirio è il leggero e anonimo Stanford Olsen e Orbazzano è Pietro Spagnoli. Entrambi senza troppa infamia e senza lode (ma già è tanto che non si facciano disastri). Dirige Zedda, che, al contrario di Ferro, pare abbia messo il piede sull’accelleratore (e forse in certi punti, la sua lettura appare un pò troppo sbrigativa). Di sua mano pure le variazioni delle riprese. L’opera è integrale, ma con tagli consistenti nei recitativi secchi. Zedda sceglie il finale lieto (per altro eseguito non nella forma originale, ma in quella già ampiamente rivista da Rossini dopo le prime esecuzioni).
Roberto Abbado firma, nel 1996, una nuova edizione di Tancredi, che presenta, per la prima volta, entrambi i finali integrali. Tutta l’opera è completa, in tutti i suoi numeri, nonché presenta due appendici: la cavatina sostitutiva di Tancredi "O sospirato lido - Dolci d'amor parole" (rimpiazzo a “Di tanti palpiti") e quella di Amenaide "Ah se pur morir degg'io" (che sostitui “Ah che il morir nonè”), brani assai gradevoli, ma che mostrano solamente la superiorità degli originali. Tancredi è Vesselina Kasarova, Amenaide è Eva Mei. La prima si ispira chiaramente alla Horne, senza però raggiungerne i risultati, e, pur aiutata dalle facilitazioni che una registrazione in studio comporta, mostra qualche difficoltà nell’esprimere l’eroicità del personaggio. Stessa cosa per la Mei, incerta nell'imprimere un carattere compiutamente elegiaco ad Amenaide. Entrambe tuttavia, disegnano due personaggi adolescenziali, freschi, forse più incoscienti che eroici. Una lettura interessante e pure efficace. Certo è triste confrontare questa incisione di due voci belle e di bellissime speranze, alle loro odierne esibizioni, per me assai deludenti. Stesso discorso (dell’allora e dell’ora) vale per il tenore: Vargas incide forse il miglior Argirio documentato su disco, voce bella, e con un certo corpo, sicura e agile. Peccato poi che qualcuno gli abbia messo in testa di diventare un “tenore verdiano” coi risultati oggi udibili (o meglio inudibili). In sostanza un’ottima edizione in studio che presenta l’opera in tutto il suo splendore e con cantanti che, da queste premesse, avrebbero potuto segnare un’importante pagine nell’odierna esecuzione di Rossini. Purtroppo la storia è andata in modo differente.
Infine arriviamo al Rossini Opera Festival del 1999: un Tancredi molto deludente, salvato solo dall’Amenaide della Takova. Protagonista è Daniela Barcellona, che appare in più di un punto inadeguata al ruolo, con voce talvolta artificiosamente scurita, spesso ingolata e affaticata. Agilità e acuti non sono impeccabili, centri buoni, bassi pessimi (spesso parlati). Il peggiore è però l’Argirio di Filianoti (che per comodità si taglia pure l’aria del secondo atto: taglio ignobilmente giustificato da Gossett con argomentazioni degne di un pessimo azzecagarbugli di provincia), nel mozzicone di parte che gli è rimasta appare una voce del tutto inadeguata a Rossini e a qualsiasi suo titolo (eppure il ROF si è messo in testa che lui e Meli siano cantanti rossiniani). Inadeguata perche non ha l’estensione sufficiente, non ha l’agilità consona e non ha la robustezza e la resistenza richiesta. Non ci si improvvisa tenori rossiniani, e alla mancanza di natura (o alla mancanza di studio) non si supplisce con la speranza di miracoli e apparizioni improvvise di note sulla parte alta del rigo. Purtroppo, però, a queste mancanze, supplisce spesso l’agente, che riesce dove Madre Natura si è dovuta fermare. Sono i misteri dei nostri teatri. Tornando all’incisione, il resto – tolta la Takova – suscita ben poco interesse: Gelmetti è anonimo, e la partitura è presentata in forma composita: un mix delle diverse edizioni, con tagli ad arie e recitativi. Il finale scelto, comunque, è quello tragico.
Questo è un breve excursus dell’esistente, non saprei cosa ci possa riservare il futuro per ciò che riguarda Rossini e Tancredi. Temo tuttavia, che il recente (e fallimentare, almeno per me) esperimento del Tancredi romano firmato René Jacobs venga prima o poi riversato in disco (e sicuramente premiato coi soliti Diapason d’Or, Choc – Le monde de la Musique, Repertoire, che paiono creati dai cugini d’Oltralpe ad uso esclusivo di Jacobs e dei suoi...) aprendo così definitivamente la strada alla temuta barocchizzazione di Rossini. Chi vivrà vedrà. Per ora è meglio ascoltare l'esistente (rectius, parte di esso) e non aspettarsi molto dalle "magnifiche sorti e progressive" che la nuova generazione di sedicenti interpreti rossiniani (?) lasciano intravvedere. Chiudo quindi, con un’altra citazione, e mi riporto alla stesso poeta tedesco dell’iniziono: “Dove le parole finiscono, inizia la musica” (Heinrich Heine). Ascoltate la Horne e capirete Tancredi. Buon ascolto!

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