mercoledì 30 gennaio 2008

Cyrano de Bergerac alla Scala


Domanda ingenua e come tutte le ingenue perfida: “Ma era proprio necessario riproporre il Cyrano de Bergerac alla Scala?”
In una stagione dove la poca inventiva e gli scarsi mezzi si coniugano in maniera impietosa, la ripresa di un titolo desueto e non forse per caso dubito abbia significato e rilevanza.
E qui mi fermo perché mezzo secolo or sono la domanda era destinata, grosso modo con gli stessi argomenti, a riproposte come la Bolena di Maria Callas o la Semiramide e la Beatrice di Tenda con Joan Sutherland.
E quindi la sospensione del giudizio è doverosa in merito all'opportunità della ripresa dell’opera di Alfano.

Però ci sono osservazioni doverose come la sospensione del giudizio circa l’opportunità della riproposizione.
Siamo al solito uso strumentale di spartiti ed edizioni di un titolo.
Cyrano de Bergerac venne rappresentato il 26 gennaio 1936 all’Opera - allora Teatro Reale dell’Opera - di Roma con Maria Caniglia e José Luccioni. Solo nel maggio successivo all’Opera Comique venne rappresenta in lingua francese. Credo in omaggio all’originale romanzo di Rostand, uno dei capisaldi della letteratura francese.
La limitata circolazione dell’opera però avvenne sempre in lingua italiana.E non vedo validi motivi per non rappresentare la versione originale, a maggior ragione in un teatro italiano.
Oggi una Carmen in italiano, versione che pure ebbe l’onore della Galli Marie protagonista al suo apparire in Italia, verrebbe bollata per uno scempio e tacciamo delle reazioni per un Wagner in italico idioma.
Ma sul Cyrano, siccome qualcuno l’ha imparato in francese, silenzio. Attendo ansioso che qualche rappresentante della critica togata affronti l’argomento.
Perché se tutti tacciono aspetto ancor più ansioso una bella Semiramide in francese coi balli ed arie aggiunte. Ammesso e non concesso che chi ha istituzionalmente l’incarico di programmazione sappia dell’esistenza di questa versione, pure approvata da Rossini.
Come pure anche senza lo spartito è chiarissimo che il title role sia stato ampiamente rimaneggiato ed opportunamente ridotto nella gamma di estensione per essere alla portata dell’attuale titolare.
Attuale titolare è il signor Domingo, che ulteriormente accorciato, inadeguato scenicamente perché salti e mobilità alla sua età (quale che sia ufficiale o ufficiosa) costano fatica, ha sfoggiato la stessa voce dura e fibrosa di ogni sua apparizione, al primo atto, nella scena del teatro, anche malferma, con qualche sol o la acuto durissimo e di gola e nessuna dinamica di canto che faccia pensare ad un innamorato poeta. Tanto eloquente quanto fisicamente sgraziato. Basta sentire la scena del balcone quanto Cyrano si maschera da Christian dove il ricorso al parlato è assai frequente.
Non sono mai stato un estimatore di Domingo, ma il signor Domingo che cosa ha che spartire con una parte che, senza ascendere ad acuti stratosferici, richiede capacità di espandersi in zona medio alta e di sospirare melodie d’amore, anch’esse in zona centrale, ma con obbligo di piani e languore?
Non trovo censurabile in astratto il rappezzo, l’accomodo (anche se talvolta è evidentissimo e poco musicale), molto invece una raffigurazione inadeguata del personaggio.
Quanto agli altri, se si volesse esemplificare che cosa si intenda per urla belluine (termine molto usato nelle recensioni teatrali) o per slancio inconsulto (termine caro ai soprani veristi) basta sentire l’ingresso della Radvanovksy nella scena del campo. La voce di considerevole volume in zona medio alta suona sistematicamente fissa e stonata. Legato, dinamica, colori, essenziali in una parte pensata per Claudia Muzio (Maria Caniglia fu una scelta dettata dalle condizioni di salute della divina Claudia) e che richiederebbe la cantante attrice di stampo verista. Nulla di tutto questo piani e pianissimi suonano indietro in alto urla scomposte e sconsiderate.
Accomuno nella recensione i signori Alberghini e Spagnoli, rispettivamente Carbon e De Guiche. Motivo semplice: ufficialmente sono bassi. In natura la voce di basso è rara e difficile a trovarsi, come quella del contralto. Entrambi con adeguata e ripensata cognizione tecnica canterebbero e credo esibendo voci ben più sonore e squillanti in registro di baritono.
Basta pensare all’esempio di Bruscantini, partito come basso ed approdato persino a Rigoletto o Renato del Ballo.
Poi deve essere segnalato il miracolo dell’orchestra scaligera. Suona bene nel Tristano, in maniera indegna nella ben più facile Stuarda e poi ritorna ad esibire un suono morbido ed ampio precisione in tutti i settori in occasione del Cyrano.
Le conclusioni mi paiono scontate.
Quanto alla messa in scena per chi è amante della tradizione, del descrittivismo si tratti di una via , di un teatro o di una boulangerie di Parigi, piuttosto che delle mura dell’assediata Arras lo spettacolo proposto da Francesca Zambello è splendido.
Sarà bieca tradizione, sarà il retaggio delle scenografie alla Benois (che tanto infiammarono proprio il pubblico scaligero), ma dopo il magazzino industriale propinato nel Tristano o il catalogo della Breda Tubi portato in scena nella Stuarda, un po’ di scontata tradizione riconcilia con l’opera. Almeno gli occhi. Per le orecchie possiamo dire “ riprova sarai più fortunato”.

Franco Alfano
Cyrano de Bergerac
Libretto di Henri Cain
Nuovo allestimento

Direttore - Patrick Fournillier
Regia - Francesca Zambello
Scene - Peter J. Davison
Costumi - Anita Yavich
Luci - Mark McCullough
Coreografia - Duncan MacFarland

Personaggi e Interpreti
Cyrano - Plácido Domingo
Roxane - Sondra Radvanovsky
La Duègne - Annamaria Popescu
Lise - Carla Di Censo
Soeur Marthe - Monica Tagliasacchi
Une Soeur - Anna Zoroberto
De Guiche - Pietro Spagnoli
Carbon - Simone Alberghini
Christian - German Villar
Ragueneau - Carmelo Corrado Caruso
Le Bret - Claudio Sgura
De Valvert - Guido Loconsolo
L'Officier espagnol - Nikoloz Lagvilava
Le Cuisinier - Davide Pelissero
Lignière - Alessandro Paliaga
Le Mousquetaire - Daniel Golossov
Montfleury - Pierpaolo Nizzola
Prima sentinella - Giuseppe Bellanca
Seconda sentinella - Lorenzo Decaro

Teatro alla Scala, Milano
29 gennaio 2008

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Rossini Opera Festival 2008 - Tra sogni e realtà


E' appena stata ufficializzata la programmazione e i cast del Rossini Opera Festival 2008. Tre i titoli d'opera : Ermione, L'equivoco stravagante e Maometto II, preceduti dal concerto inaugurale di Juan Diego Florez dal suggestivo titolo "Il presagio romantico", seguono l'esecuzione dello Stabat Mater e i concerti di canto, che vanno dal concerto celebrativo in onore di Maria Malibran con protagonista Joyce Di Donato, fino ad arrivare ai concerti di Carmela Remigio (con il puntuale sostegno del maestro Magiera al piano), di Lawrence Brownlee e infine Patrizia Ciofi.
Ma veniamo ai cast. Il primo titolo operistico della stagione è una delle opere più impegnative del catalogo rossiniano, ”Ermione”, ennesimo ruolo Colbran ed opera che guadagnò al Rossini Opera Festival un colossale fiasco nel 1987 a causa della protagonista, una declinante Montserrat Caballè e del direttore Gustav Kuhn, impreparato e stilisticamente inadeguato. Ad impersonare la figlia di Menelao sarà quest’anno Sonia Ganassi, già discutibile Elisabetta nel 2004, dove dimostrò di avere poco in comune con le scritture Colbran per tecnica e stile. In campo tenorile i due ruoli principali, Pirro e Oreste, rispettivamente un ruolo da baritenore scritto per Andrea Nozzari e un ruolo da tenore contraltino dalla spiccata propensione alla drammaticità scritto per Giovanni David. Nel primo si cimenterà Gregory Kunde, che aveva già affrontato Pirro nel 2003 negli Stati Uniti, al posto di Francesco Meli, il quale più volte aveva dichiarato di esser titolare del ruolo. Alle prese con l’alta tessitura di Oreste vedremo Antonino Siragusa, distintosi in passato come valido interprete di alcuni ruoli tenorili rossiniani, ma Barbieri e Donne del lago poco riusciti gettano molte ombre su questo debutto. Nel ruolo contraltile di Andromaca invece il Festival propone un mezzo acuto come Marianna Pizzolato. A dirigere Roberto Abbado. Regia di Daniele Abbado. Come dire…tutto in famiglia.

Seconda opera in cartellone “L’equivoco stravagante”, protagonista Marina Prudenskaja, recentemente interprete di Arsace sotto la direzione di Alberto Zedda a Berlino, dove non aveva mostrato grande propensione per il canto rossiniano. Insieme a lei il giovane tenore Dimitry Korchak, buon interprete di Giannetto ne La gazza ladra durante la passata edizione, il solito Bruno de Simone e l’immancabile Marco Vinco.

Infine "Maometto II". Nonostante Alberto Zedda sia per sua stessa ammissione da tempo alla ricerca di una "vera voce Colbran" anche quest'anno in una parte Colbran viene proposta un soprano leggero, la giovane Marina Rebeka, studentessa dell'Accademia (come Olga Peretyatko, Desdemona al ROF 2007). Una scelta alquanto non-sense, che ben si sposa d'altronde con le due precedenti riproposte di Maometto II, entrambe affidate a Cecilia Gasdia, anch'essa priva del peso specifico richiesto dal ruolo. Resta perciò ignoto il motivo per cui scritturare una voce per natura sfogata in alto e per giunta leggera in un ruolo che invece richiede un centro robusto e un registro grave molto solido. Protagonista sarà Michele Pertusi, indispensabile nelle ultime edizioni del Rossini Opera Festival vista la penuria di veri bassi rossiniani (e vale la pena ricordare che nel delirio generale si erano dichiarati pronti ad interpretare Maometto II sia Marco Vinco che Alex Esposito). Quanto comunicato dal Rossini Opera Festival propone il nome del tenore Cosimo Panozzo, anch’esso giovane dell’Accademia. Non è specificato però se come Condulmiero o come Paolo Erisso, per il quale era stato invece annunciato Francesco Meli. Come Calbo assisteremo al debutto nel ruolo di Daniela Barcellona, le cui mende tecniche l’hanno fatta produrre in prove alquanto dubbiose negli ultimi anni anche a Pesaro, prove che non hanno scoraggiato la direzione del Festival dall’offrirle questo nuovo debutto oltre allo Stabat Mater. A farle da doppio per una sola sera il mezzosoprano Hadar Halevy, diretta frequentemente dal maestro Zedda e in passato criticabile Malcolm e pessimo Calbo ad Amsterdam nel 2007. Dirigerà il Maometto II Gustav Kuhn, e si spera che questa volta impari la partitura, come non avvenne nel 1987 (come racconta Philip Gossett nel suo Divas and Scholars, pag. 7 – ed. Chicago-London 2007).

Ed è al Rossini Opera Festival che vogliamo dedicare un paio di ascolti:

Maometto II - Sì ferite, il chieggo, il merto - Beverly Sills (aggiunta a L'assedio di Corinto)
Maometto II - Non temer d'un basso affetto - Marilyn Horne

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martedì 29 gennaio 2008

Juan Diego Flórez in concerto alla Scala

Il tour concertistico di JDF ha fatto finalmente tappa anche al Teatro alla Scala di Milano.
Il celebre tenore è ritornato tra i proclami un po’ eccessivi dell’ufficio stampa del teatro ("Il 20 febbraio dell’anno scorso, li aveva ripetuti di slancio: i nove Do di Tonio ne La fille du régiment di Donizetti, coroncina che alcuni tenori non riescono nemmeno a iniziare. Ed era esplosa la gioia del pubblico. Qualcuno aveva obiettato che il rito del bis è un passo indietro, ma Juan Diego Flórez è così: il regalo della naturalezza nel toccare e tenere le vette del suo registro, se può, lo elargisce senza risparmio e senza pensarci troppo. E condivide con molti il pensiero che il teatro musicale è il cerchio magico in cui chi eccelle ha diritto a qualche eccezione, se serve a tenere in vita l’antico rito del melodramma……" ), sull’onda del successo dell’ambizioso disco dedicato a G.B.Rubini e del concerto-conferenza tenuto all’Università Cattolica.
Concerto molto atteso dei suoi innumerevoli fans, come ad ogni esibizione di una superstella che si rispetti, soprattutto per la curiosità di sentirgli eseguire dal vivo le due impegnative arie del Bianca e Fernando e dell’Elisabetta Regina d’Inghilterra. Si, perché il programma, o meglio, i programmi della nutrita stagione concertistica del peruviano ( di circa 60 serate programmate per il 2008 un terzo sono concerti di canto, come l’anno passato del resto..) si fondano sull’esibizione di alcuni particolari estratti del suo ambizioso cd, intorno ai quali sono collocati opportunamente pezzi di assoluto riposo, limitato contenuto virtuosistico, un po’ di folcklore peruviano ( forse in onore dei “folcloristici” come noi! ), anticipazioni sul suo futuro operistico e…pause.
Un mix sapientemente dosato e calibrato, dove si osa ma solo il minimo indispensabile al mantenimento dell’immagine di grande virtuoso contraltino: le alte puntature del Bianca e Fernando e la drammatica fatica dell’Elisabetta vengono subito archiviate al primo tempo, con tanto di soccorrevole intermezzo pianistico tra le due esecuzioni, non bastando quelli di prammatica. Poi giù, al secondo tempo, con i pezzi della Morales, per tornare all’antico scaldavoce dei tenori di un tempo, J’ai perdu mon Eurydice, al più facile virtuosismo dell’aria aggiunta L’espoir renait dans mon ame sempre di Gluck, a chiudere il programma con la lirica Linda di Chamounix. Un programma sopra la media corrente, è sicuro, ma che non ha certo le velleità universali e la magnificenza dei programmi di una Horne, o la lussuosa eleganza di una Sutherland, di una Berganza o di una Cuberli, né l’esprit de merveille della sequenza di grandi scene con cabaletta di un Merritt, di un Blake, di una Dupuy o di una Anderson. Insomma,un programma perfettamente in stile con la carriera di Flórez, forse un po’ troppo riciclato, perché nell’era dei mass media gli strumenti che servono a costruire le fame planetarie svelano poi anche gli aspetti seriali e ripetitivi del lavoro degli artisti, nel suo caso la reiterazione eccessiva dei programmi da concerto ( ed ancora il pensiero và al buon Bonynge, che, in altri tempi, già riteneva che un programma da concerto non dovesse essere ripetuto più di 3-4 volte affinchè conservasse appieno il suo vero contenuto artistico e …magico ). Ci siamo recati tutti assieme al concerto, anche noi presi dalla curiosità che l’allure mediatica che circonda questo cantante suscita. E' stato il solito Flórez.
Decisamente migliore il secondo tempo anzi i bis, quasi che Flórez abbia pensato il concerto più sui bis che non sul programma vero e proprio. In questo è stato veramente generoso e simpatico con i fans in delirio. Per altro non ha eseguito nessun brano nuovo rispetto a quelli che ha eseguito nel folto carnet di concerti tenuti sino ad ora, anzi alcuni erano già stati eseguiti proprio a Milano lo scorso mese di novembre.
Ciò nonostante e nonostante una serie di problemi vocali, e per conseguenza interpretativi, il pubblico, fra applausi fuori tempo e ostentati ringraziamenti, ha decretato al tenore un successo che ricorda certi concerti scaligeri di autentici fuoriclasse.
Siccome Flórez e i suoi ammiratori sono convinti che il tenore peruviano sia un cantante assolutamente unico e di levatura storica la prestazione del tenore peruviano non può essere giudicata in raffronto alla situazione mediocre del presente, ma oggettivamente.
I grandi o ritenuti tali si devono comparare solo fra loro.
Oggi il problema è che a Flórez non si addicono né i brani di tessitura acuta né quelli di tessitura centrale.
Nella scena di Gennaro di Lucrezia Borgia, aggiunta per Nicola Ivanov, tenore contraltino per eccellenza, Flórez è stato in costante difficoltà, senza dinamica e senza colori, perennemente sul forte e per contro nella belliniana “Ricordanza”, che si rifà alla pazzia di Elvira, ha retto con sforzo e afonia la tessitura centrale. In entrambi i brani il legato è inesistente e i tentativi di sfumare, di cantare piano e pianissimo si risolvono in suoni vuoti, smorti, veramente poco piacevoli.
Non solo, ma un tenore di origine rossiniana ossia di agilità ha eseguito con evidente difficoltà sia gli elementari passi di agilità dell’aria del Re pastore che quelli dell’aria di Orfeo nella versione Le Gros.
E siccome Rossini sarebbe l’autore per eccellenza di Florez quello che il tenore peruviano ha eseguito lascia molto perplessi.
L’accento assolutamente minimalista da parte comica dell’opera del settecento napoletano secondo il miglior gusto anni ’50, non si addicono né alla poetica dell’”Esule” nè alla verve salottiera dell’Orgia e le cose peggiorano quando lo stesso peso e la stessa inesistente dinamica vengono applicate alla grande scena di Norfolk, dove le agilità in tempo veloce sono spesso pasticciate e l’accento assolutamente inerte. Dinamica inesistente. E come sempre acuti ghermiti e spesso ovattati. Ossia la negazione dell’estetica e della tecnica rossiniana.
In generale si deve rilevare che gli acuti di Flórez suonano ghermiti ed ovattati soprattutto i primi, chevrotanti e nasali gli estremi sicchè è facile pensare che il sostegno del fiato non sia quello del fuoriclasse, quale Flórez vorrebbe essere. Il tutto è evidentissimo nella cadenza dell’aria di Carlo della Linda, dove il primo acuto (credo un do) suona nasale, ma facile ed abbastanza squillante poi accade qualche cosa e la cadenza con un altro do finisce malamente rappezzata.
Che qualche cosa nell’organizzazione vocale di Flórez vada male alle prese con i primi acuti è evidentissimo nell’aria di Orfeo, troppo bassa per un tenore come Florez, privo del timbro e dell’ampiezza che il genere tragico richiede ed anche - in fondo siamo in una esecuzione concertistica - della dinamica e del gusto di uno Schipa, che eseguiva normalmente il lamento di Orfeo.
Il problema emerge uguale ed identico anche nell’arioso di Romeo dove manca l’estasi e abbandono e dove la voce, oltre ad accentuare il fastidioso vibrato che da sempre la caratterizza, si irrigidisce irrimediabilmente nello sforzo di emettere e tenere il do conclusivo. Come gusto Flórez tiene “comizio” solo che il volume e l’ampiezza limitata nascondono e mitigano lo svarione interpretativo.
Insomma, di questa serata abbiamo apprezzato la verve di JDF, la simpatia e comunicativa di un artista consumato e la sua generosità nei confronti del pubblico (che non è stato liquidato, ai bis, con un paio di ariette da salotto), ma, con la voce messa in questo modo e quindi regolarmente nasale e falsettante nei piani e a mal partito fin dai primi acuti (e si taccia dei contorcimenti adottati per produrli), è difficilissimo sfumare, variare, imprimere a ogni brano il suo carattere. Il programma scorre monotono, senza fremiti e sorprese, generando una comprensibile impressione di noia e freddezza esecutiva. Non è ingessato l'interprete, lo è la sua tecnica di canto, che non gli consente la necessaria flessibilità.

PRIMA PARTE

I. “Dies Bildnis ist bezaubernd schön” (aria di Tamino da Die Zauberflöte) - Wolfgang Amadeus MOZART
II. “Si spande al sole in faccia” (aria di Alessandro da Il Re Pastore) - Wolfgang Amadeus MOZART
III. “La ricordanza” - Vincenzo BELLINI
IV. “All’udir del padre afflitto” (aria di Fernando da Bianca e Fernando) - Vincenzo BELLINI
V. “L’esule” (Qui sempre ride il cielo)- Gioacchino ROSSINI
VI. “L’orgia” (Amiamo, cantiamo) (testo del Conte Pepoli) - Gioacchino ROSSINI
VII. (Piano solo) “Prelude de musique anodine” (Allegretto moderato), dai Péchés de vieillesse (vol. 13) - Gioacchino ROSSINI
VIII. “Deh! troncate i ceppi suoi” (aria di Norfolk da Elisabetta, regina d’Inghilterra) - Gioacchino ROSSINI

SECONDA PARTE

I. “La zamacueca” - Rosa Mercedes AYARZA DE MORALES
II. “Malhaya” - Rosa Mercedes AYARZA DE MORALES
III. “Si mi voz muriera en tierra” - Rosa Mercedes AYARZA DE MORALES
IV. “La rosa y el clavel” - Rosa Mercedes AYARZA DE MORALES
V. “Hasta la guitarra llora” - Rosa Mercedes AYARZA DE MORALES
VI. “J'ai perdu mon Eurydice” (aria di Orfeo da Orphée et Eurydice) – Christoph Willibald GLUCK
VII. “L’espoir renait dans mon ame” (aria di Orfeo da Orphée et Eurydice) – Christoph Willibald GLUCK
VIII. “Linda! si ritirò” (aria del Visconte Carlo da Linda di Chamounix) – Gaetano DONIZETTI

BIS

"Una furtiva lacrima" - da Elisir d'Amore -Gaetano DONIZETTI
"Ah, lève-toi soleil" - Roméo et Juliette -Charles GOUNOD
"T'amo qual s'ama un angelo" - Lucrezia Borgia -Gaetano DONIZETTI
"La donna è mobile" - Rigoletto - Giuseppe VERDI
"L'alba separa dalla luce l'ombra" - ( testo di Gabriele d'Annunzio ) - Francesco Paolo TOSTI

by GG, DD, AT

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giovedì 24 gennaio 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte III: Tamagno e De Negri


I tenori drammatici italiani Francesco Tamagno e Giovanni de Negri.
Il pubblico odierno, quando pensa al tenore drammatico o di forza (ammesso e non concesso, che, oggi, rappresentanti della categoria calchino la scena) pensa a voci scure, baritonali, limitate in estensione e dinamica per lo sfoggio di turgidi centri sopra pesanti orditi orchestrali e l’insistenza della scrittura vocale nella scomoda zona del passaggio superiore della voce.

E’ l’immagine delle registrazioni di Caruso dopo il 1915. Basta ascoltare il famosissimo arioso di Eleazaro piuttosto che il breve estratto del duetto di Africana. Il problema è che Caruso applicava anche a Nemorino questa vocalità. Vedasi il duetto di Elisir con Giuseppe de Luca.
Una siffatta scelta vocale, propiziata dalla vocalità verista ha seminato in circa un secolo molte e molte vittime. Il cantare in una tessitura centrale è possibile senza una particolare cognizione tecnica e se, poi, la carriera dura cinque dieci anni è logico. Spesso con riferimento a questo fenomeno si parla di epigoni di Mario del Monaco, ma credo che l’origine rimonti a molto prima ossia al tentativo di imitare Caruso stante l’indubbio fascino che la voce del tenore napoletano esercitò sulle generazioni successive.
Anche qui, poi, Caruso fu in realtà il massimo rappresentate di una mutata poetica e di una mutata scrittura vocale, che connota, in parte, il tardo Verdi e, al massimo grado, il Verismo. E siccome quello era il repertorio imperante i tenori del post Caruso a quel modello si rifecero.
Sulle scene, però, prima della fama planetaria di Caruso, le cose andavano diversamente. Ai tenori cosiddetti di forza, che si contrapponevano a quelli di grazia, si richiedeva accento scandito, nobile ed epico, squillo e penetrazione negli acuti, ma al tempo stesso dinamica sfumata, senso della poetica del personaggio, dedito tanto alla conquista guerresca che femminile, martire della Fede e martire d’amore, al tempo stesso.
L’esempio di contrapposizione fra tenore di grazia e tenore di forza è esemplificato dagli ascolti di Alessandro Bonci, da un lato, e Francesco Tamagno (1851-1905) dall’altro.
Gli ascolti del tenore piemontese sono molto interessanti per chi voglia praticare un po’ di storia del gusto e della vocalità. Tamagno, si sa, deve la propria fama all’essere stato il primo interprete di Otello. Tamagno non piaceva o quanto meno destava perplessità in Verdi, che lo riteneva un cantante piatto, stentoreo, poco espressivo e con difetti musicali.
Chi oggi ascolti le registrazioni di Tamagno deve considerare che incise ultracinquantenne, di fatto ritirato e dopo aver affrontato un repertorio massacrante dove Profeta, Guglielmo Tell, Norma, Poliuto ed Ugonotti erano i titoli più ripetuti oltre ad Otello. Scarsissimi i rapporti con il nascente verismo, se si esclude Andrea Chenier, personaggio che per il suo connotato fortemente tribunizio ben si presta alla vocalità di un tenore come Tamagno.
Con queste premesse nelle registrazioni effettuate nel 1903, oltretutto nella villa di Tamagno a Varese e con mezzi di assoluta fortuna dovremmo sentire un rudere di tenore. Sentiamo un cantante musicalmente approssimativo, disponibile ai patteggiamenti con i fiati, ma che sfoggia un timbro argentino, dizione scolpita ed accento scandito quando il testo lo richieda, acuti facili, e dinamica sfumata. Molto maggiore della media dei tenori a lui successivi, che abbiano inciso nel pieno della carriera. Non solo nella cosiddetta pastorale del Profeta abbondano anche le smorzature perfino sulle note acute e le messe di voce sempre in zona acuta.
Le stesse modalità esecutive emergono nell’inno del Profeta, nell’andante dell’aria di Arnoldo (credo abbassato di mezzo tono, però) e, naturalmente, nell’entrata di Otello, il famoso “Esultate”, che Tamagno in teatro regolarmente bissava o trissava, a seconda dell’atmosfera della serata. Dopo Tamagno l’ultimo tenore che si attenne ad una simile esecuzione ed interpretazione di Arnoldo è stato Giacomo Lauri-Volpi. In fondo il tenore anticarusiano per eccellenza.
L'"Ora e per sempre addio” ha uno stile nobile, un tempo largo, che Tamagno regge nonostante gli acciacchi del tempo ed allontana Otello da qualsivoglia notazione passionale verista e ne fa il condottiero della Serenissima di Shakespeare, terrorizzato dalle corna più che dai Turchi, ma pur sempre figura fortemente idealizzata.
Nel finale di Otello Tamagno senza sfoggiare mezze voci paradisiache è sulla medesima lunghezza d’onda. Cosa facesse dal vivo all’epoca del debutto è difficile immaginarlo, visto il ventennio o quasi fra registrazione e debutto.
Lo stesso dubbio sorge ascoltando le registrazioni di Giovanni Battista De Negri (1850-1923), l’altro grande Otello, che registrò due brani (il “Niun mi tema” e l'"Ora e per sempre addio”) del capolavoro verdiano praticamente ritirato e, per giunta, dopo un intervento alle corde vocali.
La differenza fra i due protagonisti è nella qualità vocale, il timbro di De Negri è, infatti, più scuro di quello di Tamagno e molto bello al centro, che doveva essere morbido e rotondo, la dinamica è sfumata, l’interprete è molto sobrio e misurato, pur con una voce, che si intuisce usurata. L’idea di un personaggio assai parente di Raoul o di Jean de Leyda e non già di Canio o di compare Turiddu (che fra l’altro nei primi anni del 900 cantavano i tenori cosiddetti di grazia e non quelli di forza) è evidente.
Due Otelli così differenti ed entrambe distanti da qualsivoglia vezzo verista, sia pure per quel che emerge dai reperti archeologici delle registrazioni del primo decennio del secolo XX, smentiscono, in maniera abbastanza evidente, la sfruttatissima, quanto infondata giustificazione, opportuna soprattutto per gli Otelli del dopo guerra, tutti inferiori al personaggio ed alle sue esigenze vocali ed esecutive, che i primi interpreti non sono mai quelli ideali per un personaggio.



Francesco Tamagno
Meyerbeer - Le prophète - Sopra Berta
Meyerbeer - Le prophète - Re del Cielo
Rossini - Guglielmo Tell - O muto asil del pianto
Verdi - Otello - Esultate
Verdi - Otello - Ora e per sempre addio
Verdi - Otello - Niun mi tema

Giovan Battista de Negri

Verdi - Otello - Ora e per sempre addio
Verdi - Otello - Niun mi tema

Enrico Caruso
Donizetti - L'elisir d'amore - Venti scudi (con Giuseppe de Luca)
Halévy - La Juive - Rachel, quand du Seigneur
Meyerbeer - L'Africaine - Deh! Ch'io ritorni alla mia nave

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martedì 22 gennaio 2008

Maria Stuarda: la rivincita del secondo cast


Prima di procedere alla recensione della terza rappresentazione di Maria Stuarda, e del differente cast proposto, vorrei premettere una breve e, ahimè, sconsolata riflessione di carattere più generale. Alla luce delle recenti produzioni nazionali ed internazionali dai risultati più che deludenti (soprattutto per i nomi – anche di un certo prestigio – coinvolti), e mi riferisco in particolare ai pessimi Puritani con la Netrebko o all’assai mediocre Lucia di Lammermoor con la diva Dessay, ma anche al ROF dell’estate scorsa (e pure di quelle precedenti ad essere sinceri..) o alla disastrosa Lucrezia Borgia del Festival Donizetti di Bergamo (con un’esibizione semplicemente indecorosa della Theodossiu), mi chiedo perché ostinarsi a rappresentare e proporre un repertorio che presenta indubbi problemi legati alla vocalità, senza avere (non perché non esistano in assoluto, ma piuttosto perché non si vogliono o non si possono scritturare) interpreti adeguati, adatti per stile e tecnica al belcanto e capaci di superare (o almeno di affrontare degnamente) tutte le difficoltà che esso comporta. E il mio stupore e il mio domandarmi perché, si ripropone anche di fronte a questa Maria Stuarda scaligera, programmata nell’ambito di una delle stagioni più sgangherate e raffazzonate, che la storia di quel teatro rammemori.
Detto questo – e preso atto della situazione – passerei alla Maria Stuarda andata in scena domenica 20 gennaio. Il motivo di interesse della serata, nonchè di questa ulteriore recensione (dopo quella pubblicata in occasione della prima) è la presenza di un cast parzialmente diverso. Accade spesso, infatti, che i “secondi cast” riservino sorprese inaspettate e si rivelino migliori dei più blasonati (a volte) interpreti del cast principale (così era successo anche l’anno scorso, sempre con Donizetti: con la Fille du Regiment, dove le “riserve” erano decisamente più in forma delle – o meglio dire – della star, che a parte l’esposizione mediatica e il risibile affaire del bis “spontaneo”, in realtà programmato a tavolino già dalle settimane precedenti, e ampiamente dibattuto sulla stampa ancor prima che accadesse, ha deluso assai, soprattutto in termini di corpo e volume). A tale “regola” questa Maria Stuarda non fa eccezione: certo non fa nemmeno gridare al miracolo poiché molti problemi si sono ripresentati identici, ma nel complesso – accanto ad elementi rimasti appunto immutati (e che hanno perpetuato gli stessi vizi e difetti, già riscontrati nelle sere precedenti) – il cambio delle due protagoniste ha portato ad un certo miglioramento. Ad esso va ad aggiungersi un piccolo aggiustamento nella concertazione che, lungi dall’aver raggiunto almeno un livello di mediocrità, non è stata così disastrosa come alla prima.
Ma procediamo con ordine, iniziando proprio dal manico: dalla bacchetta. Fogliani (premesso che non mi spiego come possa dirigere alla Scala un Fogliani: e pensando a quando si faceva la gavetta vera e non si passava, in virtù di chissà quali meriti, dall’anonimato al podio del Piermarini) è la riprova della sacrosanta utilità dei fischi: infatti, dopo essere stato contestato sonoramente, ha pensato bene di “correggere” qualcosa (non molto a dir il vero) nella sua direzione. Resta un pessimo direttore – da far rimpiangere i tanto criticati “battisolfa” (che però il mestiere sapevano farlo ed erano in grado, consci dei propri limiti, di fare un passo indietro e lasciar spazio ai cantanti) – incapace di reggere il palco, con sbavature e scollature di ogni tipo tra orchestra e cantanti e con scelte di tempi grottescamente letargici (la cavatina di Maria e il suo "quando di luce rosea" dilatate sino allo spasimo, interminabili, così come il coro che apre la scena finale, lugubre e funereo). Ciò che però è più grave (e che invece dovrebbe essere il minimo indispensabile per svolgere quella professione) è la totale incapacità di assecondare i cantanti, di aiutarli, di sostenerli, di coprirne le difficoltà, e la completa mancanza di duttilità nell’adattare la propria concertazione ai differenti interpreti che si trova a disposizione. Per intenderci, impone alla Lungu i tempi della Devia, ignaro (colpevolmente) o non curante delle diverse vocalità e tecniche, caratteristiche e limiti. Tanto che le difficoltà incontrate dalla protagonista sono per lo più imputabili ai tempi assurdamente lenti staccati da Fogliani. La cosa si è fatta evidente e palese nell’atto II quando la Lungu, al termine della cabaletta – mentre il direttore impostava una nenia soporifera laddove occorrerebbe ritmo, perdendo così per strada palco e buca (chissà in quali pensieri si era perso Fogliani in quel momento) – giustamente stizzita, gli fa un evidente cenno con la mano per dirgli di spicciarsi, di darsi una mossa. A quel punto il maldestro direttore fa una brusca accelerata chiudendo il brano in un pasticcio indegno persino di un teatro di provincia, figurarsi alla Scala…ma tant’è. Tuttavia, a parte le suddette costanti, rispetto alle recite precedenti (e grazie, immagino, ai fischi che le hanno accolte, come dicevo) qualche miglioramento c’è: qualche tempo è più sostenuto e meno lugubre, a volte si sente maggiore mordente, l'orchestra è più precisa, la sinfonia in particolare (che resta sempre brutta, ma la colpa qui è di Donizetti) non è più quel pesante e lento clangore della prima, dove ognuno sembrava fare un po’ quello che gli pareva. Tutto questo naturalmente non basta a salvare una direzione, ma è utile come dimostrazione della necessità dei fischi e delle contestazioni (doverose, quando meritate) anche a scopi curativi (alla faccia di chi accusa chi esprime il proprio dissenso, di essere un facinoroso sobillatore).
Ma passiamo ai cantanti. La protagonista è Irina Lungu che sostituisce la Devia e che nel complesso risulta decisamente migliore. La parte è difficile, certo, e non tanto per il virtuosismo (che è qui ridotto), ma per la tessitura (che impegna molto i bassi) e per l’accento nobile, la tenuta, l’interpretazione e la richiesta ampiezza di fraseggio e di fiati. Certo la Maria Stuarda non è opera adatta alla sua voce (che non è di un vero soprano centrale, adatta piuttosto a Lucia e Giulietta Capuleti...), e di una regina la Lungu non possiede né il temperamento né tutte le credenziali tecniche, tuttavia il timbro è bello, gli acuti sono sicuri e sonori – mentre i bassi sono più problematici (ma anche le grandi interpreti del ruolo hanno sofferto in questa zona). La voce infine, pur rimanendo un pò piccola, possiede più corpo e sicurezza rispetto a quella della Devia (e non incappa in quelle piccole stonature in cui è inciampata la più celebre collega, graziata la sera della prima da un pubblico che più che l’esibizione ha applaudito nome e carriera) e sono certo che, con altro direttore, il risultato sarebbe stato molto più convincente (purtroppo Fogliani affloscia in modo intollerabile persino l’invettiva, che risulta spenta e pallida). Bella invece la preghiera, purtroppo non risolta sulla tenuta di fiato (come quella meraviglia che ci fa ascoltare la Sutherland), ma intelligentemente cesellata (anche se costretta a prendere qualche respiro di troppo), con tanto di salita all'acuto.
L’altra regina è una Maria Pia Piscitelli in forma, che surclassa l’Elisabetta della Antonacci sia nel volume che nella correttezza tecnica. Certo risultava un po’ ingolata (ma nell’atto III è migliorata sensibilmente), ma mai ha mostrato i gravi problemi di emissione della collega (voce indietro, ovattata, chiusa). Due protagoniste quindi, che sicuramente avrebbero meritato gli onori del primo cast.
Con esse però, purtroppo terminano le cose buone. Meli infatti è risultato uguale a sé stesso: inaccettabile. Il problema è il solito: voce bella, bellissima, corposa, calda, ma lasciata allo stato brado. Semplicemente Meli non canta con tecnica da professionista. L’emissione è costantemente forzata e “di gola”, col risultato di sbiancare i suoni man mano che raggiunge la zona acuta, sino a strozzarsi in una parte che non è certamente tra le più impervie della letteratura tenorile, tutt’altro. Non si può, però affrontare Donizetti e i ruoli di “tenore protoromantico” come se si cantasse una romanza di Tosti o “Mattinata” di Leoncavallo. La voce poi, a causa di questa mancanza di tecnica e di questi sforzi immani per salire, si sta usurando e accorciando sempre di più. Non capisco poi come mai Meli continui ad ostinarsi a cantare ruoli con tessiture per lui proibitive, quando certe note non le ha, non ci arriva. E la natura non fa sconti, soprattutto se si ignorano i limiti che essa impone e se non si sopperisce ad essi con la giusta tecnica. E pensare che dopo Leicester dovrà affrontare il ben più complesso Edgardo nella Lucia di Lammermoor bolognese, e lo sa solo il cielo come, in una condizione del genere, potrà reggere il finale. Davvero un peccato, uno spreco (ma sono le stesse parole che mi ripeto ogni qualvolta ho occasione di sentirlo).
Resta da parlare di regia, scene e costumi, del solito Pizzi, ormai in pieno delirio autoreferenziale: le solite scalinate, i soliti cieli lividi, i soliti bei costumi che non c’entrano nulla con la scena circostante (qui rappresentata da una struttura sostanzialmente fissa e macchinosa di grate metalliche con passerelle che venivano spostate con rumori e strepiti di ogni sorta, tali che spesso coprivano voci e orchestra). Insomma la solita inutile minestra già vista e rivista che ormai ha decisamente stancato. I cantanti sembrano poi lasciati a sè stessi, liberi di improvvisare gesti e movimenti. E dunque alla fine? Che dire? Sicuramente un applauso sincero alla Lungu che ha affrontato coraggiosamente e dignitosamente un ruolo estraneo alla sua vocalità, con buoni risultati, nonostante i tanti ostacoli una direzione dilettantesca ed un partner maschile inadeguato hanno frapposto. Dimostrando ancora che non necessariamente un “secondo cast” è inferiore al primo. E vincendo pienamente la “sfida” con la Devia sul campo della Stuarda. Un applauso anche alla Piscitelli che ha fatto bene in una parte complessa, anche drammaticamente. Un biasimo a tutto il resto ed in particolare alla Scala, che sembra ormai aver perso una qualsiasi logica artistica/organizzativa e una precisa direzione di percorso.

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sabato 19 gennaio 2008

Le interviste: John Osborn

Cari lettori, come avrete ormai capito questo Corriere ama moltissimo il lato "epico" dell'opera. Ci affascinano le battaglie dei grandi cantanti alle prese ora con terribili cimenti canori, ora con il desiderio di andar oltre i propri limiti vocali, ora con il confronto con qualche altro grande, talvolta addirittura in lotta... con se stessi! E' questo il lato romantico e affascinante dell'opera e dei suoi protagonisti, che il pubblico ama proprio in forza della loro personalità.
In un presente triste, di carriere costruite a tavolino, con il bilancino da farmacia e fallaci slogan pubblicitari, John Osborn ha rinverdito il mito romantico del tenore ottocentesco, sfidando a viso aperto l'Arnold rossiniano. Un gesto davvero unico, a nostro avviso, che gli è valso ammirazione e plauso da parte di tutti, sia per la qualità del canto espresso sia, appunto, per il coraggio dimostrato nel mettersi in gioco al mille per mille, rischiando... romanticamente!
Ecco perchè, cogliendo l'occasione dell'Orphée bolognese, abbiamo voluto porgli alcune domande, nonostante sia un tenore in piena carriera e non un giovane debuttante, come sono stati sinora gli ospiti delle nostre interviste. Come già avvenuto per l'intervista a Michele Angelini, lasciamo in inglese le domande e le risposte. Qui trovate la traduzione. Enjoy!



Tell us about your beginnings as a musician. At which age and with whom did you start studying? Which singers played a role in your decision to become a tenor?

Since the age of 5, I have always loved singing. I would sing around the house, or anywhere I went. I continued to sing all the time, sometimes at church, and I continued to develop the voice naturally as I grew up. In high school, I started my stage experience through theater/acting class, and I found myself doing music theater a little bit. I kept very busy playing sports with my brothers, and also singing in any music activities as well. I loved the sport of wrestling, and I had to juggle time with wrestling and music. I loved singing in choir, show choir, and I sang in many honor choirs, always being selected for solos since I was 14 years old. When I was 16 years old, I was selected as tenor soloist in a men's chorus of Roberta Lee while I was an All-State Music Festival Chorus member in the state of Iowa where I was born and went to school. It was already an honor to be selected to be a member of this chorus, but to be selected as a soloist was an even greater honor. The concert was televised and recorded, and from that moment, I decided I needed to pursue a career in singing. Being from rural Iowa, I had virtually no exposure to opera, and I had the same stereotypical impression of opera as many other Americans. I thought that it was all about big fat people with horned helmets and breast plates singing at the top of there lungs. I finally saw my first opera on television later in my 16th year, and it was THE BARBER OF SEVILLE. I didn't know how to have a career singing classical music, but I enjoyed it so much, that I thought I'd give opera a try.

So, I learned "La donna e' mobile" and sang an audition for Dr. Robert Larsen at Simpson College, who also happened to be the Artistic Director of the Des Moines Metro Opera, which also was based in Iowa. I made it into college and started studying music theory, piano, ear training, sight singing, and of course, voice.
When I first arrived at Simpson, I enjoyed singing chorus in my first opera ever, and it was SUSANNAH by Carlisle Floyd, an American composer. I chose to go to Simpson College because they had undergraduate opera, and we performed a fully staged opera two times a year with full orchestra. It was invaluable experience for me. I learned so much about the stage, how to design and build the stage sets, to do my own make-up and wigs, and especially that opera was not only an art form, but a lot of work too. Under Robert Larsen's guidance, I performed seven complete roles from the age of 18 to 22, including Tamino in THE MAGIC FLUTE and Alfred in DIE FLEDERMAUS. I had so much fun, and the more I learned about opera, the more I loved it! While at Simpson College, I also was a member of The Simpson Madirigal Singers, where I learned to sing in many in different languages, also under the direction of Robert Larsen. My college voice teacher was Anne Larson. She helped me learn to use other facets of my voice besides just loud and high.

In my senior year of college, I was only twenty-one years old when I won the Metropolitan Opera National Council Auditions. I was the only tenor to win that year, singing "Ah! mes amis... Pour mon ame" from LA FILLE DU REGIMENT. Singing on the Met stage with the Met Orchestra was such an amazing experience!

I was invited to be in the Met Young Artist Development Program later that year in 1994. I was still only twenty-two years old, and I was hearing and seeing the best singers in the world on the Met stage. I was able to see Domingo, Pavarotti, Lopardo, Vargas, Alagna, and Giordani, Freni, Fleming, Swenson, Dessay, von Stade, and Milnes, so many times. It was like a dream come true, and I was like a sponge. I learned how I wanted to act, and how I did not want to act around my colleagues and in a professional setting. The most amazing night was Halloween night, 31 October, 1996: Pavarotti was singing Mario Cavaradossi in TOSCA that night. When he finished singing E lucevan le stelle... the audience applauded so much that he had to sing it again. I had never seen that happen before, even at the Met! I was so impressed how it was just as fresh as the first time he sang it. It was truly outstanding! Three years in the program, working with all of the Met coaches; masterclasses with great artists such as Hermann Prey, Eduardo Mueller, Barbara Bonney, Sherrill Milnes, Regine Crespin, and Regina Resnik, to name only a few, were invaluable years of experiences that live with me still today.

I was given the privilege of two voice lessons a week with the late Edward Zambara. I studied with him for a total of eleven years, and I attribute all of my singing technique to these years of working with him. He unfortunately passed away only a couple of months ago. I miss his expertise already.

You are a real "tenore contraltino". with a strong high register and brilliant coloratura. Are these qualities natural for your voice, or did you obtain them by studying?

I truly began as a boy alto until I was about twelve years old. Then, the voice just matured into a tenor voice with a very easy top. It is truly a gift from God that I can sing so easily in the passaggio and high register. This has grown as I grow and mature, although I think the top has always been pretty powerful.

The coloratura, I never really thought about it that much until my second year in the Met program. I was studying IL VIAGGIO A REIMS with Warren Jones. He is one of the most gifted pianists, accompanists, vocal coaches I've ever known. I simply didn't know how to sing coloratura, as I had always sung lyrically, hoping to sing all of the lyric tenor roles. In one session, he taught me to sing coloratura using the speed of my natural vibrato to determine the speed of my coloratura. I had a big success singing Conte di Libenskof at the Wolf Trap Festival in 1996, and I've applied that to all of the coloratura parts I've prepared since then.

Which do you think are your qualities and your defects as a singer?

I believe that God gave me the gift of a high and beautiful voice. I have learned to use my breath to control different colors and vocal affects in different registers of the voice. I think I have some pretty exciting high notes. I love to sing high c's d's and e flats in performance. I think it is a rare ability to consistently be able to sing those notes with good tone quality and strength. I have learned to not sing just loud all the time, and to save the big voice for special select moments throughout a performance. It takes a lot of experience to learn and understand how your voice works and how it responds to different styles and languages. I like to maintain a sense of freedom and flexibility when I sing. That way, I feel the voice will stay healthy and will last a long time.

I suppose if you need to know a defect I have as a singer, I can tell you that sometimes I get a bit over excited when I'm singing something very exciting and high. Sometimes, I have a tendency to overshoot a note. But, I prefer to do that than to ever sing flat.

How would you describe your routine day as a singer?

On the day of a performance, I love to wake up late, without the alarm clock, as to wake up nice and calmly. The first think I crave when I wake up is lunch food. I don't really care for breakfast too much. Then, I shave, and I love to take a nice and long, hot and steamy shower. I love to begin singing and warming up the voice in the hot steam. Then, I get ready to face the world, and I love to go for a good walk. It is very physical what we do, and I feel it is necessary to get the blood pumping a bit in order to have the right energy for singing. I love to arrive at the theater one hour before a performance begins. If I arrive too soon, I can waste too much energy before I go out onto the stage, thus some of the performance could be lost before I even enter the stage. So, I arrive one hour before, get my make-up and hair done, get my costume, say hello to my colleagues and wish them a great performance. Then, I am nice and calm before I go out there and perform. I think there is nothing worse that to be running late and to be agitated before a performance.

Do you listen to opera recordings for study purposes and/or in your spare time? Which are the contraltino tenors that you prefer?

I normally listen to opera recordings when I am working on a new opera I've never performed. It helps me get adapted to the sound of the orchestra with the different voices. But, I don't listen to too much opera in my spare time. I suppose I listen more to Frank Sinatra and Harry Connick Jr.. Lately, however, I have been listening a lot to two cds that will be coming out soon, featuring my wife, Lynette Tapia, and myself singing Italian Donizetti arias and duets, and the second featuring the two of us singing French arias and duets.

Tenors I like to listen to who sing with this "tenore contraltino" quality would definitely be Kraus, Gedda, Schipa, and Gigli.

Which tenor is for you the most impressive from a technical point of view?

Although I could say some great things about several other tenors, I have to say that I admire Nicolai Gedda's singing the most. In my opinion, he really has mastered the operatic languages, and has the technical ability to always be understood. He never mumbles or modifies vowels to a point of incoherency. His technique and pronunciation is always perfect to the point of sounding many times better than the native speakers of any given language. I have to admit that I truly try to emulate this in my own singing. Unfortunately, I was apparently too young to have heard him sing live. I still dream of one day meeting him, just to talk with him about how he was able to do some of the things he did in the height of his career. I have heard from many that he was a wonderful person as well. Thank you Maestro Gedda for all of your contributions to opera.

You have sung several times in Italy (Napoli, Torino, Genova, Roma, and now Bologna). Do you like it? Do Italian audiences react in a stronger way, as many singers say, or is it just the same thing in every country?

I have sung mostly Rossini in Italy, France, Germany, Switzerland, Monaco, Portugal, United States, Canada, Chile, Argentina, Japan and China. Although there is a love for great singing everywhere, I have to say most certainly that Italian audiences tend to understand and appreciate the different bel canto traits that are necessary in order to give a great performance. It makes sense. It is in your blood, it is your tradition, it is your language. However, I think there is great competition with the Japanese. They have such a great appreciation for opera. When I have sung in Japan, the fans were amazing! They will line up in a very long line, and they will wait a long time, just to meet you and tell you what a wonderful performance you have given. They cheer like crazy at the end of the performance. They want your autograph, and they really want to know you. You really feel like a rock star! Luckily for me, there is a continuous and growing appreciation for bel canto opera all over the world. It is being performed well, and more and more conductors are willing to take on the task of doing a bel canto opera the way it was meant to be done.

You sang GUILLAUME TELL in Roma (I think it was your debut as Arnold). Why did you accept this role, and are you going to sing it again?

I was actually quite excited about the possibility to sing Arnold for the first time. I knew it would be quite an undertaking, but I really felt it would be an opportunity to share my true abilities. I found that as I studied the part, that it really fit me like a glove, and I grew to love the music. I felt very good about my performances, and would love to sing it again soon.

You are currently singing ORPHEE in Bologna in a newly adapted version, which is in our opinion too low for your voice. Did you know they were going to do this new version when you accepted to sing the title? Do you plan to sing the original Paris version in the future?

Actually, I want to say first of all, that this experience singing this production with the Alagna's has been a wonderful experience. They are a very talented group of guys, who obviously have great imagination, and great aspirations for doing new and innovative projects in the world of opera.

Honestly, I did not know what to expect when I accepted to do Gluck's ORPHEE in French. I never before would have thought of myself singing Gluck, let alone any other Baroque style operas. I did know of Mr. Roberto Alagna, and that any opportunity to work with someone who has made such a great contribution to opera would be a high-profile and worthwhile experience. So, coming off of one of my most difficult and challenging roles ever, to something like Gluck was a refreshing change of pace. I honestly find the adaptation easy to sing. I never have to think twice about singing high notes, because in my case, there really aren't any. The top note is a B flat. So, it has actually been a very nice and relaxing experience. I didn't even have to sing the very challenging aria "L'espoir renait dans mon ame" or the last trio. Much of the role in this adaptation is in my middle and even lower register, which unfortunately doesn't really allow the tenor voice to shine. So, I used many different colors and shadings to allow for contrast in order to keep it interesting; and I saved my big voice for the few A flats and the couple of B flats that I had to sing. The Paris version normally would have the tenor sitting pretty high all night, touching up on high C's and even a D on one occasion. As you can tell from the rest of this interview, I would welcome the opportunity to do this opera again in the traditional tenor version. I really like the character of Orphée, and would love to get another crack at it.

What can you tell us about your future engagements? How do you think your voice is going to evolve?

I am very excited about my near future. I will be singing a RIGOLETTO at Opera New Jersey right after this, followed by L'ELISIR D'AMORE at Palm Beach Opera. Then, I am scheduled to sing I PURITANI in Seattle, again in Menorca this summer, and I will do my first ROMEO opposite Netrebko this summer in Salzburg. I have projects to sing my first Edgardo in LUCIA DI LAMMERMOOR in Bruxelles in 2009, and I will continue to sing Rossini, as I have BARBIERE DI SIVIGLIA, LA CENERENTOLA and L'ITALIANA IN ALGERI scheduled in the next few years.

Since singing LA JUIVE in Paris, the GUILLAUME TELL in Roma, and this ORPHEE here in Bologna, I see myself moving into French repertoire such as Hoffmann, Raoul in HUGUENOTS, Faust, Des Grieux, Werther, Romeo and Robert le Diable.

Ringraziamo John Osborn per la disponibilità e ci auguriamo di risentirlo presto in Italia!
Per saperne di più su di lui, visitate il suo sito ufficiale: http://web.mac.com/lynettetapia.




John Osborn

Bellini - La sonnambula - Prendi l'anel ti dono (con Sumi Jo - Versione Rubini)
Bellini - La sonnambula - Tutto è sciolto...Ah! perchè non posso odiarti (con Natalie Dessay)
Donizetti - La fille du régiment - Ah! mes amis, quel jour de fête!
Donizetti - La fille du régiment - Quoi! Vous m'aimez... (con Chen Reiss)
Donizetti - La fille du régiment - Pour me rapprocher de Marie
Rossini - Guillaume Tell - Ne m'abandonne point...Asile héréditaire

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mercoledì 16 gennaio 2008

Alla fine Maria Stuarda taglia la testa a tutti

Ho portato il taccuino e la penna ieri sera, perché avrei voluto rendervi una recensione fedele e precisa, una buona chiosa passo passo alla serata: pensavo fosse doveroso, perché la Maria Stuarda, piaccia o meno rispetto agli altri titoli regali o ducali di Donizetti, resta una hit del belcanto, una di quelli che, a lato del moderato virtuosismo, impone alla Regina vittima ed agli due protagonisti, di cantare sulla parola, di fraseggiare ed inventare accenti, intenzioni….insomma….di non mollare mai un attimo. Ancora una volta, però, la cronaca della serata si riduce al racconto della prestazione solitaria della madrina del canto contemporaneo, Mariella Devia.

Il cimento vocale, che spesso in Stuarda è più mestiere che vera invenzione di genio, è arduo per tutti: il soprano sopporta il peso sfiancante di un’opera che per due terzi grava su di lei lungo una scrittura centrale, tutto sommato spianata, massacrante per chi non possegga una sonora prima ottava, un sicuro primo passaggio di registro ed un bel corpo di voce timbrata nella zona centrale; il mezzo soprano (mezzo solo per il libretto e per nulla nello spartito !! ) alle prese con una scrittura insidiosa, propensa a far strillare anche le fuoriclasse più estese in alto, ma personaggio vero, di regina arcigna, irata e gelosa; il tenore, dal carattere un po’ sbiadito, grosso modo romantico, ma costantemente obbligato al canto “di stile” sul passaggio superiore ( ed anche un po’ più su…), elegante e nobile, un vero amoroso con la mano sulla spada.
Tre cantanti veri, dunque, e, come sempre, una bacchetta da belcanto. A metter in scena titoli come questi, infatti, dove anche le più grandi artiste ( e vale per entrambe le regine ) sono state costrette a guerreggiare con lo spartito, dovrebbero essere chiamati dei concertatori sicuri, esperti nell’arte del raggiusto come delle scelte dinamiche, conoscitori veri dell’arte del canto. Alla base del belcanto stanno da sempre le scelte dei tempi, ( la moderna chimera! ), tutte quelle necessarie ed impercettibili ( per noi ) variazioni all’interno delle frasi, atte a sostenere il canto; quelle scelte sottili …appena appena un po’ più piano…… accelerando ma solo quel tanto che basta…..quel mondo di infinite sottigliezze che i mestieranti del podio operistico, da che mondo e mondo, hanno sempre messo al servizio dei cantanti, soprattutto dei grandi, affinchè potessero dispiegare dal palco tutta la loro arte. Quanto poi all’avere sensibilità verso un cantante mentre è in scena, ogni sera, attimo per attimo…non parliamone! Quel genere di direttore assicura la pronta risposta dell’orchestra, che deve assecondare l’artista e non spiazzarlo con gesti e tempi indecifrabili: è la ragion d’essere del direttore d’opera, dai Serafin ai Bonynge, passando attraverso i Panizza o i Santi. Ieri, durante una serata di poca arte, poco canto e tanta noia, dove la sola cosa veramente straordinaria è stata l’esibizione anatomica della tecnica vocale della Grande Signora del belcanto italiano, la prima cosa che è mancata allo spettacolo è stato, come al solito ormai, l’apporto demiurgico della bacchetta, al punto tale che ne ha fatto le spese anche a colei che proprio la bacchetta intendeva servire, ossia la Devia. La lentezza spaventosa di alcuni tempi, ed, ahimè, un’incredibile mancanza di vigore nell’accento ( alludo alle cabalette come al concertato primo ) hanno anestetizzato una serata caratterizzata da numerosi fuori tempo dei solisti come del coro, scollamenti e fuori tempo maldestri in cui persino la Devia è caduta, durante la stretta con Talbot che segue il Quando di luce rosea, causando pure, tra lo stupore generale, un acutino sgangherato inammissibile dalla Nostra. Insomma, anche quella del battisolfa è un’arte che ha la sua ragion d’essere profonda e dignitosa, ma và saputa praticare. Fogliani ha diretto male e del belcanto ha dato prova di aver capito poco poco, ossia che talvolta il testo dovrebbe essere aiutato anche praticando la forbice pietosa, come nell’orrenda ouverture cui nessuna fola filologica può donare dignità d’ascolto, o come in certe cori di passaggio, eseguiti a tempo di funerale. Ignora, il giovane, che le voci piccole appaiono ancora più piccole dentro i tempi letargici, a maggior ragione in un teatro grande come la Scala, e che il tempo letargico và comunque sostenuto; ignora che la mancanza di vigore di un cantante può essere emendata, almeno in parte, da un’orchestra vigorosa nell’accento e….da tempi un filo più stringati….ignora….ed è anche maldestro nel praticare la lentezza che serve alla Devia. Il pubblico ha duramente punito il giovane maestro che, forse, per ben servire la Grande Cantante o chi per essa in questo repertorio, dovrebbe rivedere i suoi modelli direttoriali, ripiegando sull’arte sapiente e sottile del giusto tempo ( ossia il migliore per chi canta ) di un Gavazzeni o di un maestro della vocalità come Bonynge. Con Fogliani è caduto, anche se in misura minore, l’espertissimo Pizzi, che del belcanto, invece, ha sempre capito tutto, a cominciare da ruolo del costume delle primedonne, bellissimi ieri sera, soprattutto quello di Elisabetta. L’eccesso di staticità, in un’opera fin troppo statica e con cantanti sempre in difficoltà vocale, ha impedito anche al pubblico più sprovveduto di risollevarsi dal torpore e di appagare almeno un pochino la vista.
Eccessivamente simmetrico nella scenografia, dalla struttura tubolare perimetrale alle passerelle, sino alla sequenza delle entrate-uscite dei personaggi, con il solito vai e vieni incentrato sulla scala centrale, perno dell’azione, l’allestimento è mancato incredibilmente in due cose, di cui una assai grave per un grande uomo di teatro come Pizzi, ossia la precoce sparizione della foresta ( bellissima ) e, con gran danno dei cantanti, l’eccessiva apertura delle scene, soprattutto al primo atto. Le voci, salvo quando si trovavano al proscenio, sono state letteralmente risucchiate via nella torre e disperse anche lateralmente, con evidente perdita di consistenza di volume. E di certo non ce n’era bisogno bisogno, soprattutto per le donne.
Quanto al canto…..c’è poco o nulla da dire.
La Devia è rientrata dopo mesi, mostrando una voce ridottissima, al lumicino, nuovo handicap aggiunto a quello di una voce per sua natura inadatta alla scrittura di Stuarda. E siccome le vere primedonne cercano la lotta contro grandi nemici in epiche battaglie, ieri sera la Devia ha avuto modo di mostrare di quali e quanti prodigi tecnici sia capace. Si, perché mai, nemmeno con la Horne alla fine della carriera, abbiamo avuto modo di assistere a tanta incredibile esibizione di tecnica vocale: nemmeno un suono naturale, niente più timbro, nessun volume, anche una certa insicurezza in alto laddove è sempre stata gelidamente fermissima ( delude i fans quando non tenta il sopracuto in chiusa al duetto col tenore…), e persino….qualche calo di intonazione ( penso alle prime due frasi di O nube che lieve, o alla stretta con Talbot ). Sinceramente non ho visto una Maria Stuarda né plausibile né convincente, se non a tratti, come nel bellissimo ed intenso Quando di luce rosea , che vale veramente la serata, o nel Da tutti abbandonata al primo atto. Piuttosto una mostruosa esibizione di tutti gli ingranaggi, di ogni meccanismo della sua tecnica vocale, un vero esprit du machinisme del canto: lo sportello che nascondeva le sapienti alchimie della voce è lì, del tutto aperto, e mostra, nella sua magia, i movimenti di ogni pezzo, dai prodigiosi fiati anche rubati ( cala all’inizio della cavatina e reagisce con un fiato rubato di lunghezza interminabile …..idem dicasi nel Quando di luce…), alle messe di voce. Persino il canto sulle singole note, dove mai un suono risulta "preso da sotto", ma sempre diretto e centrato. Un mostro! Gestisce in questo modo uno spartito per lei smisurato e come San Giorgio, alla fine uccide il drago..nonostante la lotta abbia lasciato delle ferite sul vincitore.
Questo non è però arte del canto ( e nemmeno un buon esempio per chi verrà dopo ), perché non c’è la magia dell’illusione, del far credere e dell’emozionare. O meglio, non lo sarebbe mai stato se non fosse che i suoi compagni di avventura, possibili figli e nipoti della Diva, le stanno di fianco come estranei di altra professione, di altro mestiere. L’Antonacci grida e spinge con una voce piccola e vetrosa, corta e che non "gira" mai serenamente ( enorme il black out nella scena d’entrata !! ), bella a vedersi, ma impropria nell’emissione, negli acuti assenti, nelle notacce vuote di petto come nel canto che si fa addirittura parlato al duetto col tenore del II atto. Impossibili morbidezze ed abbandoni come un vero fraseggio incisivo per la terribile Elisabetta. Poca cosa, davvero. Quanto a Meli, che dire? Era la voce della sera, ma il canto resta quello di sempre, artificiosamente oscurato a simulare un immascheramento che non c’è, come non c’è il passaggio di registro verso l’alto. Canta, impiccandosi letteralmente, l’aria come i duetti, perennemente strozzato, e passando dal forte a squarciagola ai falsettini ( pochi, rispetto al solito ), con uno stile che nel canto lirico non ha spazio se non nel verismo. Si sperava che mutasse qualcosa ma……nulla.
Così alla fine Maria Stuarda, sessantenne di ferro, finisce per decapitare i suoi giovani colleghi, che restano lì incapaci di decifrare i segreti della sua lezione di anatomia vocale.

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martedì 15 gennaio 2008

Il mito della primadonna: Maria Stuarda



Dalla ripresa del Maggio Musicale fiorentino 1967 Maria Stuarda è rientrata, quasi stabilmente, in repertorio. Specie in quello di primedonne, giustamente desiderose di mettere in rilievo le proprie qualità e di poco fantasiosi direttori artistici di teatro, i quali si illudono che per fare novità si debba proporre la cosiddetta trilogia Tudor.
Mai Donizetti pensò ad una trilogia né tanto meno impresari e direttori di teatro coevo al maestro. E poi Bolena ed in parte Devereux sopravvissero per anni, mentre la Stuarda conobbe, come moltissime altre produzioni donizettiane, immediato oblio.
Se poi devo esprimere la mia opinione, per quale che vale, la mie preferenza va, piuttosto che alle regine, alle duchesse donizettiane in primo luogo Maria di Rohan e Lucrezia Borgia. Opere queste ultime di lunghissima sopravvivenza nel repertorio. Anzi mai sparite.
La tiepida accoglienza e la rapida sparizione della Stuarda è frutto della debolezza del libretto dove le due regine si incontrano ( e ciò secondo Schiller e contro la storia), ma a parte la famose apostrofe non hanno la possibilità di un vero scontro vocale e il terzo atto è per la più parte occupato da Maria, prima confidente con Talbot e poi, debitamente emendata dai terreni errori, pronta al patibolo, da martire o quasi.
Il limite drammaturgico è pregio assoluto se la Stuarda di turno è una vera grande assoluta primadonna con tutti i sacri crismi vocali, tecnici ed interpretativi. In assenza di queste qualità le caratteristiche drammaturgiche di Maria Stuarda si trasformano in armi a doppio taglio con conseguente affossamento del personaggio e dell’opera che sulla protagonista si regge per buona parte.
Tutte le prime donne del dopo Callas si sono gettate nella mischia. Della prima generazione una sola assente Renata Scotto, che in considerazione dei risultati conseguiti in Bolena e Rohan, sarebbe stata la quinta grande nei panni della regina di Scozia.
Va premesso che Maria Stuarda è parte più da soprano usurpato che da soprano assoluto dalla scrittura, quindi, marcatamente centrale, caratteristica più evidente nella versione per Maria Malibran, fondamentalmente spianata, (se si esclude la cabaletta della sortita, specie nella versione Malibran) propensa ad esprimersi con le “cantilene” tipiche del melodramma italiano dopo Rossini e prima di Verdi. In Stuarda, quando “ a cantilene” siamo quasi al record .
Tutte caratteristiche che non sono proprio le stesse voci delle maggiori Stuarde.
E chiaro quindi, che il successo la fama di grande interprete si acquista con i fraseggio analitico e con l’intervento sul testo dove consentito e in alcuni casi dove opportuno.
La prima caratteristica ufficialmente latita in Joan Sutherland. La seconda via interpretativa, invece, è praticata e con risultati degni della fama.
La scrittura bassa non consente alla Sutherland, particolarmente nella cavatina di sortita l’esibizione del legato, ossia di una delle sue caratteristiche peculiari. L’esecuzione e l’interpretazione crescono sia in disco che in house a partire dalla cabaletta con il da capo alzato di una terza, che consente tessitura agevole e il solito ( si fa per dire) virtuosismo di vero effetto. Anche se, ripeto, il virtuosismo non è proprio una delle chiavi di lettura del personaggio.
E ovvio che la Sutherland, voce, prima ancora che accento malinconico svetti nei passi malinconici a partire dal “ da tutti abbandonata”. Quindi anche la sezione centrale della confessione o le parti elegiache della scena finale si avvalgono dell’accento malinconico e dell’ottava superiore molto facile della cantante.
La Sutherland manca di sfumature rispetto alle altre colleghe. Questa è la sua caratteristica, ma è anche la sigla interpretativa di una Maria, che risponde ad una visione del personaggio molto regale e magniloquente, priva dei tormenti della donna. In questo senso l’esecuzione del famoso “ quando di luce rosea” è paradigmatica.
Certo che la scorrevolezza del “D’un cor che more” piuttosto che del “ se un giorno” hanno pochi confronti. La sola Sills, probabilmente.
La altre dive nei panni della Stuarda ricorrono ad una dinamica molto più sfumata.
Con una sostanziale differenza, non da poco, che le idee interpretative della Gencer e della Sills sono frutto di pensieri e di preparazione, mentre quelle della senora Caballe, dotata di un timbro di assoluta, irripetibile qualità sembrano piazzate a caso.
Dell’assunto gli esempi si sprecano dall’esecuzione pasticciata della chiusa dell’aria ( Scala 1971, soprattutto) agli accomodi nel duetto con Talbot ai risparmi tipo evitare mezza battuta per concedersi una più lunga presa di fiato.
Inoltre la Caballè ha sempre eseguito l’opera con una cospicua serie di tagli a partire dalle cabalette e quando le ha eseguite ( Parigi 1972) gli inserimenti, o abbellimenti, che dir si voglia, sono la quintessenza del casuale, magari in spregio di tempo e ritmo. Certo con una voce unica.
Rimangono “in lizza” la Gencer e la Sills. Entrambe delle quattro le voci più inadatte sulla carta e la Sills ancor più della Gencer.
E’ scontato celebrare la Gencer per la dinamica che all’interno di una stessa frase passa dal pianissimo al mezzoforte come accade nel recitativo iniziale e che differenzia con il colore della voce il “suolo beato” dalla “cruda nube” o dall’equilibrio fra la donna e la regina sia nel duetto con Leicester che, soprattutto, nella scena con Talbot.
La realizzazione della Gencer fa parte della storia dell’opera. E’ difficile ipotizzare protagoniste successive che non si siano misurate con le idee interpretative della cantante. E questo anche se nel 1967 comparivano già certi vizi e vezzi della cantante ( colpi di glottide e una non più perfetta fusione, talvolta fra le note basse ed il resto della voce).
Quanto a vizi e vezzi ne abbonda anche Beverly Sills e stranamente più in disco che in teatro. Certi effetti da disco in teatro sono ad altissimo rischio sulla resa e tenuta della serata e allora la Sills appare più misurata in house. E paradossalmente se ne giova.
Rimangono, tipici di una voce di soprano leggero i suoni aperti della famosa apostrofe “ figlia impura di Bolena” efficace, però per i doverosi interventi sul testo.
E’ difficile però immaginare una accento più vario. Non solo nei luoghi topici come il duetto con Talbot, ma anche il duetto con Leicester dove Maria è una donna innamorata e piacente (chiaramente contro la storia, atteso che Maria ormai matura all’epoca della morte e tutt’altro che avvenente) ed in ogni frase, spesso a condizione che la scrittura vocale sia propizia alla voce della cantante americana. E’ però difficile immaginare un accento più partecipe ed accorato nel “ d’un cor che more” o una più profonda nostalgia nella sortita. Inutile dire la gara a distanza Sills Sutherland nei passi acrobatici.
Davanti a tante primedonne il dopo è un po’ meno allettante anche se tutte le primedonne di fama e rilevanza della generazione successiva hanno affrontato la regina di Scozia.
Tralascio la Ricciarelli, dal timbro di qualità, ma con limiti e mende vocali che impediscono un possesso dello strumento e dell’espressione completo e soddisfacente.
Se la sono cavata molto, molto meglio nei loro approcci sporadici Maria Chiara e Lella Cuberli.
La Chiara era dotata di un timbro di grandissima bellezza, secondo solo alla Caballè, era una cantante che salvo un certo appesantimento della voce, derivato dalla assidua frequentazione con Aida dopo il 1980, possedeva una dinamica sfumata e, senza essere inarrivabile, se la cavava egregiamente come virtuosa. Certo non era una fraseggiatrice irresistibile, anzi piuttosto convenzionale e neppure assistita da una fantasia illimitata.
Il tutto per farne una più che buona protagonista senza la zampata della autentica primadonna.
In altro repertorio era una primadonna autentica Lella Cuberli, pur dotata di una voce limitata quanto a volume e timbro. Limiti che in Rossini, Mozart ed Handel nessuno rilevava, ma che l’operismo post rossiniano progressivamente evidenzia.
Alle prese con la Stuarda e, va detto, con il sostegno di un direttore unico in questo repertorio come Bonynge, la Cuberli fu credibilissima nei panni della Stuarda, anche se il timbro non era quella della Caballé, la facilità, (a rigore i re nat ci sono anche), in alto molto pensata e voluta e l’accento sempre attento, ma sicuramente più neoclassico che romantico. Insomma la Stuarda parigina richiamava anche per l’assoluta precisione di esecuzione, le famose Semiramidi o Giuliette Capuleti.
Per altro i limiti della voce sono ancor più evidenti nei soprani, che oggi più spesso vestono i panni di Maria. Parlo di Mariella Devia ed Edita Gruberova.
Credo, però che il limite di scarsa sonorità della voce al centro e poca propensione ad un rapporto diciamo “sillsiano” con il dato letterale dello spartito siamo più marcati in Mariella Devia. La signora Devia, rimasta con la Gruberova l’unica cantante della propria generazione in carriera e l’unica completa professionista da tempo ha preso gusto a cantare personaggi (Borgia, Stuarda, Bolena, Imogene ed anche donna Anna ed Elettra di Idomeneo, piuttosto che la verdiana Giovanna d’Arco) nei quali desta ammirazione per la longevità, la cosiddetta lezione di canto ed assoluta indifferenza per l’interprete e, in molti casi, anche per la virtuosa.
Che poi alcune frasi siano dette e pensate anche splendidamente sembra il minimo per una cantante di questa tempra.
In Edita Gruberova il limite nei panni di qualsiasi personaggio donizettiano e belliniano è il gusto. La voce al centro suona più ampia e timbrata di quella della Devia ed anche, sempre, in quella zona più giovanile e fresca (credo anche per il tipo di emissione), ma al gusto italiano disturbano i portamenti, costanti per l’emissione di ogni nota superiore al la, le conseguenti stonature sui sovracuti (non capisco, salvo che in nome dell’orgoglio della primadonna l’insistenza ad emetterli, mentre i pochi della Devia sono ancora facili) e soprattutto l’accento manierato e lezioso, che non ha nulla dell’accento sonoro e pieno di chi canta veramente all’italiana.
Ripeto due grandi prime donne con mille motivi per essere ammirati, ma basta sentire un recitativo di Leyla Gencer o una frase di Beverly Sills per essere immediatamente davanti ad una seria e completa raffigurazione della prima donna, nel senso più genuino e completo del
termine.


Donizetti - Maria Stuarda

Atto I
- Ah! quando all'ara scorgemi...Ah! dal ciel discenda un raggio
Shirley Verrett, Pauline Tinsley, Marisa Galvany, Martine Dupuy

- Quali sensi!...Era d'amor l'immagine...Sul crin la rivale
Shirley Verrett & Ottavio Garaventa, Pauline Tinsley & John Stewart, Marisa Galvany & Kenneth Riegel, Martine Dupuy & Alejandro Ramirez

Atto II
- O nube che lieve...Nella pace del mesto riposo
Leyla Gencer, Montserrat Caballè, Beverly Sills, Joan Sutherland, Mariella Chiara, Lella Cuberli, Barbara Frittoli, Mariella Devia

- Da tutti abbandonata...Ah! Se il mio cor tremò giammai
Leyla Gencer & Franco Tagliavini, Beverly Sills & John Stewart, Montserrat Caballè & Ottavio Garaventa, Joan Sutherland & Stuart Burrows, Maria Chiara & Francisco Araiza, Lella Cuberli & Douglas Ahlstedt, Barbara Frittoli & Paul Charles Clark, Edita Gruberova & Juan Diego Florez

- Scena del confronto Elisabetta-Maria Stuarda
Leyla Gencer & Shirley Verrett, Montserrat Caballè & Shirley Verrett, Beverly Sills & Pauline Tinsley, Joan Sutherland & Huguette Tourangeau, Edita Gruberova & Martine Dupuy, Barbara Frittoli & Anna Caterina Antonacci, Edita Gruberova & Sonia Ganassi

Atto III
- Quella vita a me funesta...Deh! per pietà sospendi...Vanne indegno, t'appare sul volto
Shirley Verrett, Pauline Tinsley, Marisa Galvany, Martine Dupuy

- Quando di luce rosea...Lascia contenta al carcere
Leyla Gencer, Montserrat Caballè, Beverly Sills, Joan Sutherland, Katia Ricciarelli, Maria Chiara, Barbara Frittoli, Mariella Devia

- Deh! tu di un'umile preghiera il suono
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland, Maria Chiara, Katia Ricciarelli, Edita Gruberova, Lella Cuberli, Mariella Devia

- D'un cor che more reca il perdono
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland

- Ah! se un giorno da queste ritorte
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland, Maria Chiara, Edita Gruberova, Lella Cuberli, Mariella Devia

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domenica 13 gennaio 2008

Cenerentola: l'arte del rondò finale.

Parlare di Marilyn Horne, Teresa Berganza, Lucia Valentini-Terrani e Martyne Dupuy, interpreti del ruolo di Angelina-Cenerentola di Rossini rappresenta l’opportunità per un piccolo viaggio nei ricordi di ascoltatore.
Crea, purtroppo, seri rapporti con il presente, non essendo un passato remoto, ma un passato molto prossimo.
Naturalmente della prima (Cenerentola solo due volte nella propria carriera nel 1956 e nel 1982 a San Francisco) ho ascoltato solo in concerto l’esecuzione del rondò. Reieterate le occasioni di ascoltare e vedere le altre tre interpreti. Perché va detto subito soprattutto Teresa Berganza e Martyne Dupuy andavano anche viste nei panni di Cenerentola. Attrici misurate e sobrie, ma efficaci trovavano nel personaggio di Angelina sguardi e gesti, che, con assoluta linearità connotavano la creatura rossiniana.
Delle opere comiche di Rossini Cenerentola, che è anche l’ultima della produzione, è la più simile nel ruolo protagonistici, per scrittura vocale, alle parti drammatiche del maestro.
Se escludiamo la cantilena “una volta c’era un re” di scrittura centrale e spianata, la protagonista si esprime sempre ricorrendo al virtuosismo. Basti pensare agli interventi nel finale primo “parlare pensar vorrei”, al sestetto all’atto secondo “questo è un nodo”, piuttosto che all’incipit del quintetto “signor una parola” o al duetto d’amore.
Angelina ricorre a tutti i mezzi dell’apparato melismatico rossiniano (terzine quartine, sestine) agilità di sbalzo, arpeggiati e volate e, per giunta, su una cospicua estensione di più di due ottave (anzi 18 toni, come ebbe a scrivere proprio la prima esecutrice Geltrude Righetti Giorgi) e di tessitura acuta, pur precipitando anche nella zona grave della voce.
Teresa Berganza la riteneva la più ardua da Lei affrontata nel repertorio rossiniano. A tale assunto, nel corso di una trasmissione radiofonica del 1983, se non mi sbaglio, Martine Dupuy rilevò che l’Arsace di Semiramide fosse ben peggio.
Insomma una piccola scaramuccia, a distanza, fra grandi primedonne rossiniane.
Una parte simile non può che essere monopolio di autentiche fuoriclasse. La circostanza espressamente scritta da Geltrude Righetti-Giorgi, è confermata dal fatto che nell’800 le più famose Cenerentole furono Adelaide Borghi Mamo, Marietta Alboni (che, spesso criticata, per la sua ingombrante figura trovava, invece, in Cenerentola la possibilità di essere una mite ragazzona, schiacciata e maltrattata) e Barbara Marchisio, le cui imponenti variazioni sono da sempre pubblicate più volte. Eseguite, talora. E abbiamo fatto tre nomi, che con pochi altri, costituiscono il gotha del belcantismo rossiniano ottocentesco in chiave di mezzo soprano.
E’ difficile e forse inutile scegliere fra le quattro esecuzioni vuoi che si prenda in considerazione il famoso rondò finale, sia l’ingresso di Cenerentola alla scena della festa. Occasione nella quale la protagonista, complice il travestimento, sfoggia una vocalità da autentica prima donna tragica. Insomma per Rossini in quell’occasione, che entri Semiramide o Angelina cambia poco o nulla. Entra una regina o aspirante tale, che deve cantare da regina.
Premetto che quanto alla Cenerentola di Marylin Horne abbiamo scelto il rondò di un concerto Rai del 1971 e l’ingresso nel finale dell’unica registrazione (a meno che non compaia quella del debutto del 1956) live della cantante.
Finale primo “sprezza quai don che versa”
A Buenos Ayres 1967 Teresa Berganza tiene non troppo l’ “a piacere” previsto sul mi di “sprezzo”, esegue con precisione assoluta le quartine di “don che versa” inserisce, però, un fiato prima del salto di due ottave previsto fra “fortuna e capricciosa” e un altro, contrariamente a quanto in spartito, prima del fa di “osa”. Quando però, arriva il gruppetto su “amor” e le ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa” è precisissima nell’esecuzione e la voce nella zona centrale è perfettamente risonante ed a fuoco. E il “bontà” finale è eseguito con un piano progressivamente rinforzato e, poi, smorzato di grande effetto. Dal vivo, anche in seconda galleria del loggione scaligero, la voce era sonora, dolce e penetrante e la registrazione scelta anche se fortunosa, rende a distanza di quarant’anni questa peculiarità della voce.
A Chicago nel 1983 Marylin Horne scambia, arrivando incognita alla festa, sotto il profilo interpretativo, Cenerentola con Tancredi. Accento scanditissimo e suoni di petto, però, ben immascherati da si bem centrale, quindi.
A differenza della Berganza tiene a lungo l’ “a piacere” iniziale, anche lei inserisce per dare maggior senso al salto di due ottave il fiato fra “fortuna e capricciosa” solo che le note basse della Horne, molto scure e di petto rendono espressivo il fiato. Alla fine della figura ornamentale prevista per “capricciosa” ci scappa un rubato non particolarmente ben riuscito. La Horne è molto espressiva realizzando, con un fiato solo (o con un rubato esemplare) e con una forcella non prevista le ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa” , nella volata di “rispetto” la Horne vocalizza su una “a” anziché sulla “i” prevista da Rossini, fiorisce l’ “amor” finale e anche lei esegue una messa di voce sul “bontà” conclusivo.
A Venezia 1978 Lucia Valentini sfoggia una voce di qualità, superiore in natura rispeto alle altre primedonne. Sono però, in nuce presenti quei limiti tecnici, che avrebbero condotto ad un precoce declino la cantante. Dove la Horne emette suono di petto immascherati e coperti la Terrani è tubata e la voce artificiosamente scurita. Alludo, a titolo di esempio, al sol centrale di “quei”, però, nel “fortuna capricciosa” la freschezza vocale e la dote naturale evitano la presa di fiato prima del salto. La presa di fiato viene effettuata prima del fa di “osa”. In tutto il resto del passo, marcatamente centrale la Valentini quello che colpisce è il timbro. L’interprete, però, latita. Non ci sono l’eleganza astratta e ricercata di dona Teresita o di Mademoiselle Martyne o lo slancio un poco androgino, ma rossiniano di Mrs. Horne.
A Marsiglia 1990 Martine Dupuy erige il monumento alla prima donna rossiniana. La voce suona molto proiettata e chiara (come deve essere quella di un mezzo soprano in zona centro-alta), rispetta alla lettera la prescrizione di non inserire prese di fiato nel lungo vocalizzo “fortuna capricciosa”, Inserisce, invece, un espressivo rallentando nel primo “vuol sposa”. Non è esasperata come la Horne nella scelta dinamica delle ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa”, in quanto si limita ad eseguire una forcella sull’ultima scala discendente, l’ “amor” finale, è arricchito da una delle specifiche del mezzosoprano marsigliese, il trillo.
Nell’esecuzione del rondò finale le prime donne danno fuoco alle polveri ognuna secondo le proprie caratteristiche.
Va precisato che in teatro sia Teresa Berganza che Lucia Valentini tagliavano nella parte conclusiva mentre sono integrali le esecuzioni le altre esecuzioni proposte a confronto.
Nell’incipit dell’aria Teresa Berganza ha un colore vocale dolente omette i due trilli di “soffri” e di “tacendo” inutile dire come esegua con una precisione assoluta le varie quartine di cui la prima sezione è disseminata. Secondo il gusto allora indiscusso non aggiunge nulla all’andante, neppure la cadenza al punto coronato di “cangiò”. Nelle batture di conducimento del rondò sfoggia un elegantissimo e languido portamento dal re centrale al fa diesis di “in me”. In sostanza languore e dolcezza sembrano essere la sigla della Cenerentola di Teresa Berganza, che arrivata al famosissimo “non più mesta” è precisissima nelle due sestine discendenti del primo “lungo palpitar” Sempre sulle stesse parole ripetute alla ripresa un rallentamento è strumentale a rendere il passato dolore e tormento della ragazza. Quando attaccano la serie di quartine vocalizzate la Berganza appare con la Dupuy la più precisa nell’esecuzione. Manca, però, (il tempo è piuttosto “comodo”) del mordente che le colleghe, o per dote naturale o per idea della coloratura rossiniana, sfoggiano. Arrivata al lungo vocalizzo sempre per quartine ne semplifica l’esecuzione sulla parola “lungo” e, poi, taglia l’ulteriore ripetizione per arrivare alla conclusione dove sfoggia un si nat facile e sonoro.Il taglio, per altro evita la salita in volata due si nat., che, però in altre occasioni (ad esempio nell’edizione scaligera) la cantante spagnola eseguì.
Anche la Valentini Terrani taglia, in misura ridotta limitandosi alla terzine vocalizzate conclusive, che sono una ripetizione e che, se eseguite, imporrebbero una variazione.
Quanto al’ornamentazione la Valentini non è precisissima; omette, come la Berganza i trilli. Alla volata di “core” rallenta fra il moto ascendente (previsto per gradi) e quello discendente. Questo era un vezzo della cantante padovana. Nell’esecuzione delle volate il rallentamento non sta affatto bene, perché viene meno l’effetto elettrizzante della figura. Come Teresa Berganza, sia pure meno marcatamente, il primo enunciato di “la sorte mia cangiò” e la frase seguente sono connotate da un timbro e da un accento marcatamente dolce. All’ultimo enunciato del “baleno rapido” (una serie di quartine) Lucia Valentini semplifica la figura e neppure le quartine di “volate” sono precisise. Come tutte le esecutrici la Terrani rallenta e sfoggia il suo bellissimo timbro nell’ultimo “trovate in me”. Nell’esecuzione della prima sezione del rondò vero e proprio il fa ed il mi accentati del “lungo palpitare” sono spinti e gridati. Quando arrivano le quartine vocalizzate l’esecuzione è mordente e vibrante. Il dubbio, però, come sempre accade nelle esecuzioni della Valentini è che la brillantezza dell’esecuzione sia più naturale che non frutto di una reale cognizione tecnica, dubbio fondato sul fatto che le note basse suonino spinte ed ingolate e le acute spinte e un poco forzate. Non per nulla la Terrani omette la sezione conclusiva del rondo ed il si nat non è certamente una splendore.
L’esecuzione di Marilyn Horne (Rai 1971) e Martine Dupuy (Marsiglia 1990) sono invece integrali. Sono anche le cantanti, che aderiscono all’idea di coloratura espressiva così squisitamente rossiniano.
Ovvio che entrambe eseguano tutti gli ornamenti previsti da Rossini e molto spesso intervengano sul testo.
La Dupuy, poi, acuisce il contrasto fra le due parti del rondò scegliendo un tempo lentissimo nell’andante ed uno velocissimo nella sezione conclusiva. L’uno e l’altro esaltano le qualità dell’esecutrice e dell’interprete.
Nella salita al si bem del “core” Martine Dupuy accenta moltissimo le note della salita e stringe il tempo sulle successive quartine di “incanto”. E’ la stessa scelta di Marilyn Horne, che emette, per inciso, in tutto il rondò le più marcate note di petto.
La Dupuy esegue con abbandono e dolcezza “la sorte mia cangiò”.E’ un tipico caso in cui il sostegno tecnico fa sembrare bella una voce, che tale in natura non era. Specie se paragonata a quella di Lucia Valentini.
Quando ricompare il mi di “come un baleno” la vera filologia esplode. La Horne piazza una magistrale messa di voce, cui la Dupuy replica con un trillo ad inflessione.
Il confronto con il trillo assai simile ad una scaracchiata di rablesiana memoria che la signora Bartoli emette è eloquente e non sono necessita di altro commento per esemplificare la differenza fra una cantante ed un’impostura.
Alla volata discente dell’ultimo “baleno rapido” la Dupuy per esibire (tipica ostentazione della vera cantante rossiniana) il registro basso progressivamente rallenta e sulla “sorte mia” inserisce una cadenza al punto coronato. Strano, invece, che la Horne ometta l’inserimento di una cadenza.
Arrivate al “non più mesta” la Dupuy è lentissima nelle prime battute. Sia la Horne che la Dupuy rallentano alla quartina di “fuoco” che, nell’ultima ripresa, entrambe variano. Ferrea applicazione del principio che se non vi abbia provveduto l’autore debba farlo l’esecutore, atteso che la poetica belcantista non ammetteva ripetizioni identiche.
A differenza della Terrani il fa ed il mi del “lungo palpitare” della Horne sono saldissimi.
Quando arrivano le quartine vocalizzate la Horne esegue in ottavi anziché in sedicesimi, ossia semplifica la figura per rispettare lo spartito alla ripresa, mentre la Dupuy parte con un tempo vorticoso, che esalta le figure ornamentali. Quanto, poi, nella sezione conclusiva allorchè ricompaiono i salti di “ ah fu un giuoco” la Dupuy esegue una variazione, ispirata a Barbara Marchisio.
Entrambe eseguono in chiusa la puntatura all’ottava per emettere il si nat conclusivo, ma nell’esecuzione marsigliese la Dupuy si prende il lusso (o lo sfizio?) di toccare la nota e poi trillarla. Se non alla storia quanto meno alla cronaca passarono alcuni soprani di coloratura che trillavano sul do diesis o sul re naturale i mezzo soprani dovrebbero passarci per i trilli sul si nat.
Ripeto l’impressione dell’apertura di questo ricordo.
E’ difficilissimo fare classifiche la Terrani supera tutte le altre per la intrinseca dote naturale con riferimento alla scrittura rossiniana, ma la Berganza ha una precisione ed una misura oggi insuperata, mentre può dar luogo a qualche dubbio il gusto. Gusto e splendore belcantistico che sono espressi al massimo grado dalla Horne e dalla Dupuy.
Sono osservazioni forse minuzioso, forse un divertimento un po’ fine a se stesso. Se non fosse che questo divertimento ci mette dinnanzi al mediocre e squallido presente dove assistiamo e si vorrebbe che applaudissimo alle scomposte grida di Daniela Barcellona per la quale, nonostante le insistenti frequentazioni, i ruoli di mezzo acuto sono impossibili, alle agilità accennate e farfugliate dalla voce non impostata, e quindi piccola ed aperta di Cecilia Bartoli.
Questo, scusate, è fisicamente impossibile.
E le ultime due protagoniste, che andremo ad esaminare fra breve, ossia Joyce di Donato e Madgalena Kozena sono, come è logico nella scia della soprannominate Bartoli e Barcellona.

La Cenerentola

Entrata di Cenerentola alla festa

1967 - Teresa Berganza
1978 - Lucia Valentini-Terrani
1982 - Marilyn Horne
1990 - Martine Dupuy
2007 - Cecilia Bartoli

Rondò finale - Nacqui all'affanno e al pianto

1967 - Teresa Berganza
1971 - Marilyn Horne
1978 - Lucia Valentini-Terrani
1990 - Martine Dupuy
2005 - Daniela Barcellona
2007 - Cecilia Bartoli

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