domenica 30 marzo 2008

Basta il nome !

E’ ormai consuetudine sentire dire nei nostri teatri d’opera che BASTA IL NOME, quasi come una volta, quando la pubblicità diceva BASTA LA PAROLA, dopo aver nominato un celebre….confetto lassativo. Potreste ben accusarci di riprendere l’analogia tra etichette farmaceutiche ed etichette operistiche, ma effettivamente pare che l’opera sia ormai, di fatto, omologata anche negli slogan al mondo del commercio, sostituita, in toto, la legge del “metallo portentoso” a quella dell’arte.
Numerose sono le dimostrazioni, ultima in ordine di tempo l’affaire della Borgia torinese, con la sparizione ( a dir poco prevedibile ) della protagonista, la sostituzione last minute con altra ancor più improbabile ed improponibile ( quando non indecente ) protagonista, e assurdo pertichino finale all’aggiornamento del cartellone online con due recite, fanalino di coda, della diva originariamente annunciata, a garantire il sold out. Sold out ....non certo l’effettiva presenza. Un dolce scivolìo fuor dal cartellone, quasi una filatura…..un morendo della primadonna.
Il Regio di Torino bissa la figuraccia fatta qualche mese fa con l’Ariane et Barbableu, missing diva Sonia Ganassi, e toglie ogni velo davanti ad abbonati e melomani itineranti sulle costumanze che reggono il moderno “andare in scena”. Si, perché soltanto una logica basata sul nome, avulsa da ogni benché minima seria considerazione sulle oggettive possibilità vocali degli artisti scritturati e, ancor peggio, pervicacemente indifferente alle condizioni in cui si trovano gran parte dei cosiddetti GRANDI, può causare queste continue offese al pubblico.
Ed anche, aggiungiamolo una volta per tutte, offese a quei cantanti che magari nome non hanno, ma che si trovano chiamati, per legge di mercato, a tappare i buchi e sostituire all’ultimo, a non volere o potere dire di no, in cerca della loro occasione, insomma a “farsi usare” da un sistema che, comunque, non darà loro spazio perché privi ……di nome! Fama costruita in molti luoghi, tutti differenti dal palcoscenico.
Già, perché mentre una faccia della medaglia investe da vicino il pubblico, turlupinato al momento in cui acquista i biglietti ( anche costosi ) per sentire il proprio beniamino, che orami troppo spesso rimane a casa, moribondo, con le corde vocali a brandelli, l’altra faccia, quella di cui noi ci dimentichiamo, è quella del mercato delle voci, dominato e schiacciato dalla medesima logica, che non dà spazio a chi, magari, vale altrettanto, ma non ha spalle larghe, o meglio, managers dalle spalle larghe. Già, perché una volta si percepiva in modo chiaro e palpabile la differenza tra chi si esibiva nei grandi teatri e chi, invece, cantava in provincia.
E, comunque, chi cantava, anche se rallentato dai giochi dei “mercanti”, riusciva ugualmente a ritagliarsi notorietà e pubblico. La storia della Rossini renaissance coincide spesso con questo fenomeno. Oggi le antiche differenze non si colgono, perchè…non ci sono!
Due le conseguenze: spesso il cosiddetto secondo cast offra prestazioni superiori a quelle dei primi, più celebri e blasonati; non esistono più i teatri di provincia, essenziali per farsi le ossa, lontani da pericolosi debutti e dove si esibiscono professionisti di grandi o buone capacità cui, poco è mancato per la grandissima carriera.
Un tempo non lontano allestire senza guai opere come Forza del destino o Ballo in maschera era la regola oggi questi ed altri titoli sono naufragi e guai certi e sicuri.
Del resto il meccanismo è chiaro e scoperto. E’ di questi giorni la notizia del “pompaggio” in atto nei più grandi teatri del mondo di una tra le tante, una ragazzina certo di bell’aspetto, ma di modestissime qualità vocali e parecchi inciampi tecnici, da non riuscire a convincere nel “Oh, mio babbino caro”. Ma il management pensa che BASTA IL NOME, crea il nome e il gioco è fatto! E così ecco i vuoti articoli pubblicitari sulle riviste, le interviste, i fori, i Loggioni, insomma ….tutto l’armamentario usato e liso dei venditori di….confetti lassativi! Perché l’importante è creare una famigliarità tra noi e questi aspiranti divi, il nostro riconoscimento dei loro volti e del loro NOME sulle locandine ed il gioco è fatto. E finchè il gioco regge, il nome è tale. Quando non regge più……se ne sforna un altro, come i papi e i cardinali dei proverbi!
E così assistiamo agli imbarazzanti cambi di rotta dei mass media, dei portatori di banner pubblicitari e di foto omaggio natalizie, cooptatori di giovani affascinanti dall’opera, ma inesperti ( e che tali devono rimanere, altrimenti chi li convince la volta dopo della qualità dei prodotti di agenzia??!!), che si rivoltano improvvisamente contro chi, di fatto, è ancora quello di qualche mese prima, ossia….un NOME!.....con tutto ciò che ne consegue per la credibilità della critica...
….Però…..però….in effetti adesso c’è un PERO’ con cui i moderni mercanti di giovani non fanno i conti, ossia che le ultime generazioni di cantori non sono solide come quelle che li hanno preceduti. Perché la mostruosa robustezza di lavoratori indefessi ed instancabili colonne dello stars system come le grandi Caballè prima, poi, i meno bravi Domingo o peggio, le Ricciarelli o le Studer, è perduta. Perché anche il loro canto generico e qualunquista, quando non addirittura malcanto, è inarrivabile per gli odierni tuttofare, che di quelli non hanno né la preparazione tecnica minimale, né le doti naturali eccellenti. Spesso nemmeno il saper stare in scena ad onta di fisici e pose da pubblicità di profumi ed intimo !!!!.
I NOMI del nostro presente hanno delle durate di carriera che in proiezione sono assai più brevi delle programmazioni in cui si avventurano grandi teatri,.. Barcellona…New York..etc., anzi a dire il vero, in taluni casi nemmeno garantiscono la stagione successiva. L’ultima Lucia del Metropolitan è riuscita a scioccarci, se ancora è possibile, per lo stato in cui versava il tenore, una delle più belle voci degli ultimi anni, che avrebbe meritato solo la protesta da parte del teatro.
Viene da domandarsi a che pensino i signori, che compilano i cartelloni e quali siano presupposti che li muovono. Immaginiamo che le risposte siano che i nomi hanno grande utilità, perché consentono loro di pensare poco a ciò che fanno, nascondendosi comodamente dietro di loro sia davanti ai consigli di amministrazione che davanti al pubblico, nel presupposto, oramai assai fondato, che alla gente …..BASTA IL NOME. La prova viene proprio dalle performances incredibili cui alcuni grandi teatri hanno abituato il loro pubblico, e l’ultima Lucia del Met continua ad essere l’esempio.
La logica del nome cristallizza l’incontro tra l’offerta mercantile ed il grande pubblico, che si riconosce nella diva formato top model, o il divo di stampo cinematografico, ossia nell’immagine, ma non certo nel suono. Ne sono la prova le considerazioni amare di cantanti come la Sutherland, “ Al giorno d’oggi non farei carriera! ” e ci si domanda se la grande Dame alluda al pubblico disabituato al canto professionale o a chi è delegato a scritturare i cantanti. Mi piacerebbe assistere a selezioni dove grandi e mediocri del passato o anche cantanti di oggi venissero audizionati da direttori artistici bendati, incapaci di riconoscerne i nomi e vedere cosa sceglierebbero in forza delle loro nude orecchie. Chissa a quali sconvolgenti graduatorie assisteremmo! Forse la benda non serve neppure, ripensandoci, perché dubito che molti di questi signori abbiamo minima dimestichezza e cognizione del recente passato.
Mi domando se gli addetti ai lavori riflettano sul sistema di cui sono consapevole e colpevole parte. Sistema che ha reso regola non solo arrivare tardivamente alle prove, ma arrivarci in male arnese; sparire all’ultimo minuto e lasciare il teatro nel panico; farsi venire in gola tutto quel che può venire sino a, restare afoni, senza riuscire ad ultimare la recita ( penso ai recenti protagonisti maschili di Tristano milanese e newyorkese o del Ballo parigino; alla Violetta milanese lo scorso anno; ai forfait del Liceu; agli “incidenti” occorsi alle due ultime edizioni del ROF e chi più ne ha più ne metta…!!).
Gli arrivi all’ultimo dei censurati Caballé, Domingo, Ricciarelli e Carreras poggiavano, sembra paradosso dirlo, su ben altri e solidi elementi.
E guai a chi si permette di affermare che l’incidente e la malattia, ora anche le gravidanze, siano diventati strumenti attivi di gestione delle stagioni; guai a chi si permette brevi sguardi di carattere generale, come questo, perché sarebbe certo un catastrofista e non una persona che mette insieme dati oggettivi e documentati, che facilmente si offrono all’analisi “statistica”ed alle sue desolanti conclusioni; guai a chi avesse il coraggio di impugnare la penna su una testata ufficiale di settore, perché lì …il silenzio, anzi l’assenso è doveroso. Tanto doveroso che la schierata critica riscrive le sue monumentali recensioni, illuminata dall’arte canora dell’ultimo divo o diva, propiziata dal sistema. E soprattutto guai ad interrogarsi sul PERCHE’ di questi declini tanto rapidi, quanto impressionanti e sofferti, di cantanti, che, sfasciati ed esausti, continuano ad essere scritturati per impegni impossibili nella sola idea, con i fenomeni, che hanno condotto a questi sia pure parziali pensieri. Si deve rispondere oggi cantano troppo. Se chi afferma tale banalità leggesse la cronologia di un qualsiasi divo sino agli anni ’60 o ’70 dovrebbe rimangiarsi le proprie disinformate opinioni.
Chiedersi il PERCHE’ è la sola cosa che la logica del nome non ammette, perché la spiegazione vera, quella che viene dalla competenza in materia di tecnica vocale per chi canta, e di competenza nelle scelte dei cantanti sui ruoli per chi sceglie e gestisce, metterebbe in crisi questo sistema. E’ più comodo sedersi, obbligare il pubblico ad ingoiare ogni cosa amministrando l’opinione pubblica a mezzo riviste e fori, autogiustificandosi con la nenia che al presente non ci sono più le voci di un tempo perchè estinte causa misteriosa glaciazione, anziché ammettere che , invece, le voci ci sono, ma che le male amministriamo, a tempo di USA E GETTA. E’ meglio continuare a navigare così, a suon di mezzucci, pubblicità e peana comprati secondo bisogno, immagino presto anche una programmazione dei forfait e dei tappabuchi che rimpiazzeranno il latitante NOME di turno…
Quanto a noi, il pubblico, siamo in grado di fare a meno dei NOMI? Siamo certi di ascoltare e valutare con la medesima attenzione e considerazione i NOMI e gli sconosciuti?

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venerdì 28 marzo 2008

Il mito della primadonna: Lady Macbeth

Il luciferino personaggio di Lady Macbeth non fu propriamente una riscoperta di Maria Callas, protagonista del melodramma verdiano il 7 dicembre 1952, anche se quella ripresa segnò un nuovo ed ininterrotto corso per questo titolo, propiziato in primo luogo da grandi direttori d’orchestra, a partire da de Sabata e Kleiber padre, Gui sino ai recenti Abbado e Muti.
Sia pure con l’indispensabile concorso di una grande prima donna. Perché senza una protagonista di elevato livello tecnico ed interpretativo la riproposta di Macbeth è perdente in partenza.
Senza proporre classifiche Maria Callas, Leyla Gencer, Shirley Verrett e Ghena Dimitrova sono state per pubblico e critica le Lady Macbeth di riferimento. Le prime tre ampliamemte documentate in registrazioni di facile reperimento. Quindi le omettiamo negli ascolti.
Non sono state, però, le sole. La discussione è aperta e costante circa le grandi protagoniste. Alla discussione contribuisce in larga misura la storia compositiva dell’opera e sopratutto una malintesa interpretazione degli scritti verdiani circa le qualità vocali richieste alla protagonista femminile nell’ottica dell’autore.
Quanto alla vicenda compositiva. La versione che tutte le protagoniste proposte eseguono è quella del 1865 e non quella del 1847 scritta per Marianna Barbieri Nini. Nella riscrittura dal 1847 al 1865 la protagonista è meno impegnata sul versante acrobatico e la caratteristica di una scrittura in certi punti da mezzo soprano è ulteriormente accentuata. In questo senso di veda la sostituzione al secondo atto dell’ario Trionfai con la “luce langue”. Non per nulla la prima esecutrice italiana della versione 1865 fu la Fricci, prima Eboli, famosa come Selika ed anche come Borgia. Il title role di Borgia, non si dimentichi, era una delle opere della Barbieri Nini.
Non per nulla nelle riprese attuali molti soprani centrali o mezzi acutissimi sono state acclamate nel ruolo.
Al di sopra di tutte Grace Bumbry. Il primo incontro documentato con il personaggio (salisburgo 1964 con la direzione di Sawallisch) non è dei migliori sia sotto il profilo vocale che interpretativo. La grande Bumbry c’è tutta sia come vocalista che come interprete in una edizione newyorkese, anche se con un direttore di solido mestiere.
E’ strano che una cantante dalla carriera fenomenale non abbia mai avuto l’occasione di essere protagonista con il supporto di una grande direzione.
Eppure va detto che vocalmente solo la giovane Callas o la Gencer del 1960 superano la veemenza, la penetrazione vocale e il fraseggio accurato, insinuante di questa autentica fuoriclasse. La cui grandezza, forse, durante la carriera è un po’ sfuggita.
Il malinteso circa la vocalità della Lady nasca da una lettera di Verdi, che censura Eugenia Tadolini, proposta dal Teatro di San Carlo, come pure nel 1857 Verdi stesso minaccerà il ritiro dell’opera dal Teatro degli Italiani nell’ipotesi di Giulia Grisi, declinante, ma pur sempre indiscussa regina del des Italiens.
Interpretata alla lettera l’opinione di Verdi porterebbe a concludere che la titolare di Lady Macbeth debba cantare come un personaggio di Kurt Weill.
Forse Verdi lamentava l’inadeguatezza vocale ed interpretativa di Eugenia Tadolini e Giulia Grisi, cantanti di formazione e gusto donizettiani (per non dire rossiniani) e nessuna delle due all’epoca all’apice della forma vocale.
Sta di fatto che se da un lato la scrittura vocale ambigua ha portato anche a risultati di levatura storica dall’altro l’interpretazione degli scritti verdiani ha giustificato protagoniste provenienti dalle file delle più esagitate urlatrici wagneriane tipo Borkh, Varnay, Jones.
Se pensiamo ai ruoli sia della Barbieri-Nini (l’unica che attentò all’impero rossiniano parigino di Giulia Grisi con una strepitosa Semiramide nel 1848) che della Fricci la Lady wagneriana o straussiana in salsa declamata è un macroscopico errore. Storico e musicale. E’ dovere ed onestà documentare, e copiosamente, come applicata ad una parte che richieda, come tutte quelle del primo Verdi, dimestichezza con i passi di agilità, capacità di smorzare, rinforzare il suono in ogni zona della voce, di essere elegante ed insinuante (è pur sempre una demoniaca regina!!) la cantante di gusto e scuola wagneriana parlata annaspi miseramente e sia paradossalmente l’interprete meno rilevante.
La riprova è che una Renata Scotto non giovanissima, alle prese con il solito “passo più lungo della gamba” (ne ha fatti tantissimi nella propria carriera) riesca ad essere un’interprete credibile ed attentissima ed a reggere l’impervia scrittura. Re be, del sonnambulismo compreso, in grazia della tecnica all’italiana.
Certo che se la cantante wagneriana di turno risponde alla voce e soprattutto al gusto ed alla tecnica di Birgit Nilsson si potrà eccepire, magari sulla base del corrente pregiudizio che non sulla reale resa teatrale, circa la sensibilità dell’interprete, ma nessuna protagonista sfoggia la facilità di vanto del soprano svedese. Ed il risultato non cambia neppure quando i panni della protagonista sono affidati alla saldezza del registro acuto di Olivia Stapp. All’epoca delle sue performance (e parlo di venti anni or sono) si storceva il naso sulle qualità della interprete di questa cantante. Oggi impazziremmo per le bordate in alto e l’imperiosità dell’ottava superiore di Olivia Stapp.
Gli stessi difetti venivano imputati a Ghena Dimitrova. Chi abbia sentito la sua chiusa al finale del sonnabulismo in Arena può smentire ogni accusa di canto senza finezze. Ma l’attenzione al fraseggio ed ad una esecuzione elegante, pur con una voce tutt’altro che duttile e sottoposta a repertorio massacrante, erano una costante della cantante bulgara.
L’esecuzione del sonnambulismo, dell’aria del secondo atto e del duetto con Macbeth al terzo atto sono rilevanti ed indimenticabili sia sotto il profilo vocale che interpretivo. Anche se una cantante come Ghena Dimitrova perde molto del suo fascino nelle registrazioni. La Lady Macbeth di Ghena Dimitrova (seconda come ampiezza e volume solo alla Nilsson nei miei ricordi di ascoltatore) smentisce coi fatti e la costanza di esecuzioni che la protagonista debba essere solo un peso massimo, dimentica di legato, dinamica e precisione di esecuzione.

Verdi - Macbeth

Atto I
- Ambizioso spirto...Vieni t'affretta - Inge Borkh, Martina Arroyo, Grace Bumbry, Olivia Stapp, Christine Deutekom
- Fatal mia donna - Inge Borkh & Cornell MacNeil, Renata Scotto & Sherrill Milnes
- Schiudi inferno - Birgit Nilsson, Gwyneth Jones, Grace Bumbry, Olivia Stapp

Atto II
- La luce langue - Christa Ludwig, Grace Bumbry, Ghena Dimitrova, Dolora Zajick
- Trionfai, securi alfine (versione originale 1847) - Olivia Stapp
- Si colmi il calice - Astrid Varnay, Martina Arroyo, Grace Bumbry, Christine Deutekom
- Sangue a me quell'ombra chiede - Martina Arroyo & Sherrill Milnes, Grace Bumbry & Sherrill Milnes, Ghena Dimitrova & Piero Cappuccilli

Atto III
- Ove son io? - Birgit Nilsson & Cornell MacNeil, Grace Bumbry & Sherrill Milnes, Ghena Dimitrova & Piero Cappuccilli, Gwyneth Jones & James Morris

Atto IV
- Una macchia è qui tuttora - Birgit Nilsson, Renata Scotto, Christine Deutekom, Ghena Dimitrova

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giovedì 27 marzo 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte IV: Anselmi, Garulli, Giraud.

Le categorie di appartenenza dei due più famosi tenori italiani prima dell’avvento di Caruso, Francesco Tamagno e Fernando de Lucia sono indiscutibili e fra loro incomunicabili. Le cose non cambierebbero se considerassimo due miti francesi del tenorismo come Leon Escalais ed Edmond Clement.

La vera differenza fra tenore di grazia e drammatico (che non ha più a vedere con il tenore contraltino, amoroso del melodramma sino a Donizetti), in considerazione degli ascolti e con tutti i limiti degli stessi, non è rappresentata dal colore della voce, perché Tamagno o Escalais suonano, spesso, assai più chiari di de Lucia. Risiede, invece, nella capacità di reggere tessitura acute, emettere acuti estremi penetranti e squillanti e, peculiarità più difficile da cogliere, la capacità di sfoggiare accenti nobili, aulici ed altisonanti alternati a toni amorosi e dinamica sfumata. Insomma di essere gli eroi del romanzo “di cappa e spada”, quanto i tenori di grazia si trovavano ad essere, invece, gli eroi del dramma borghese, che opera francese e verismo, poi, portavano in scena.
Tutti eroi, ma con etica e poetica differente ab origine.
La facilità di reggere le tessitura centrali e di disporre di un accento molto più colloquiale è il motivo per cui i primi interpreti dell’opera verista provenissero dalle file dei tenori cosiddetti di grazia. Categoria a cui apparteneva anche Caruso, che solo dopo il 1910 si ammesse il repertorio del tenore drammatico, e continuando a praticare il repertorio verista ne stravolse, per conseguenza canoni e gusto.
Tenore di grazia per eccellenza (atteso anche i poco felici risultati quando tentò, credo per la facilità del registro acuto, qualche approccio al repertorio del grand-operà) fu Alfonso Garulli.
Garulli arrivò a lasciare qualche documentazione fonografica a carriera pressoché conclusa. E per altro la stessa non era stata lunga anche per una serie di interventi alla gola. Caruso lo stimò ed ammirò sempre, facendone un proprio modello. Non escludo per la grande facilità in alto, cui un tenore privo del si bem, nella prima fase della carriera, doveva essere molto sensibile.
Per quel poco che si percepisce dalle registrazioni la voce di Garulli è quella dolce, timbrata , dalla dinamica sfumata e dall’espressione elegante, comune a tutti i tenori di quel tipo.
Nonostante le cronache del tempo parlino, cono riferimento alle serate infelici di Garulli della difficoltà ad emettere gli acuti ne sfoggia di facilissimi e timbrati nell’esecuzione della serenata “Ovunque tu” di van Waterbout e nell’ “Ideale” di Tosti. Il canto legato, raccolto esente da forzature sia vocali che interpretative segnano, nell’esecuzione dell’aria di Canio la differenza con gli esecutori della generazione successivo di cui paradigma divenne l’esecuzione storica carusiana
Il personaggio di Canio porta a Fiorello Giraud, che ne fu il primo interprete. Tenore parmigiano ad onta del cognome francese. Fu anche e soprattutto un cantante wagneriano, spesso con Toscanini ed, a giudizio di Gino Monaldi, il maggior esecutore di Wagner con Borgatti. Con la differenza, però, che Borgatti praticò solo quel repertorio, Giraud affrontò spesso anche il repertorio italiano e non solo verista.
Oggi non è pensabile che un tenore wagneriano esegua con una voce veramente bella, maschile congiunta ad eleganza e morbidezza e, per giunta, praticando preziosi rallentamenti l’arioso di Walter dai Maestri cantori e al tempo stesso e con le stesse caratteristiche affronti l’aria di Rodolfo di Luisa Miller. Anzi l’esecuzione, senza essere di quelle che fanno la storia, è varia, sfumata e per certi versi più acconcia al nostro gusto per l’assenza o quasi di qualsivoglia arbitrio. Arbitrio che negli ascolti di un altro tread è largamente documentato. Spesso, va detto, l’arbitrio è anche di grane fascino.
Chi, invece, emulo e vero erede di Fernando de Lucia praticò arbitri e libertà di esecuzione fu Giuseppe Anselmi. Di poco più giovane di Caruso fu, nonostante l’anagrafe, l’ultimo compiuto e affascinante rappresentante del tenorismo di grazia ante Caruso.
Famoso in Italia ed idolatrato nei paesi di lingua spagnola, che da sempre folleggiano per i tenori dagli acuti smaglianti e dalle interminabili filature, frequentava d’abitudine il repertorio francese (prima di Schipa fu, con il francese Edmond Clement, il prototipo del Werther di grazia) Puccini, alcune opere veriste (che, forse, non erano del tutto idonee ai suoi mezzi se si pensa sopratutto ai Pagliacci) alcuni titoli verdiani (Traviata e Rigoletto, soprattutto) ed alcuni donizettiani (Lucia, don Pasquale, Elisir).
Talune registrazioni di Anselmi come Manon di Massenet, l’arioso di Gennaro della Borgia o quello di Rodolfo della Miller sono celebri, pubblicate più volte, esaminate con dettagli dalla critica.
Inutile dire che ritraggono, con la peculiarità di una dizione eccezionalmente nitida e scandita e di un timbro, che si intuisce di qualità, il modello di tenore di grazia, maestro di dinamica, ben propenso ad arbitri, nel duplice nome della espressione e dell’esaltazione dei propri mezzi e, comunque, nel confronto con de Lucia, contenuto e sobrio. Non solo, ma Anselmi è molto più contenuto in Puccini e nel Verismo che non in Donizetti o Verdi, anche se “la speranza” del racconto di Rodolfo è all’insegna del piegare il testo musicale alla comodità di emissione.
Nell’arioso di Loris, dove de Lucia è tanto splendido vocalmente quanto autocelebrativo, Anselmi inserisce anche lui, vero cantante attore, rallentamenti e note tenute, il tutto con un controllo del fiato in una romanza scomodamente centrale (atteso il suo originale destinatario) .
L’interesse per chi ascolti una registrazione coeva alle prime esecuzioni delle opere è rappresentata da Anselmi, esecutore di Puccini.
Nella “gelida manina” la voce di Anselmi, tecnicamente esemplare appena affronta le prime note acute, acquista un turgore, una piena morbidezza ed uno squillo esemplari. Il “chi sono” penetrante ed intenso hanno un sapore oggi sconosciuto, abituati, purtroppo, ad esecuzioni dove la fatica vocale sembra essere la peculiarità, come tristemente esemplificano anche le ultime leve del canto tenorile, applicate anche a Puccini. Sul presupposto da ignoranti che per Puccini bastino voce , cuore e generosità.
Nella Manon Lescaut, opera che, anche nel ruolo della protagonista subì pochi anni dopo la prima rappresentazione una cospicua spinta drammatica nelle braccia del verismo più trito, Anselmi prima di tutto canta e lega ogni suono (per chi esaminasse precipuamente il solo profilo della corretta tecnica di canto tutte le volte in cui si canta sul passaggio, Anselmi è perfetto), ma soprattutto è innamorato e dolente, per quel che testimoniano le singole romanze. I Des Grieux, assatanati vuoi di sesso al secondo atto, vuoi di smania di vendetta ed autodistruzione al terzo e che, naturalmente, al quarto accompagnano l’agonia di Manon con singulti ed imprecazioni, che sono la degenerazione di Caruso, distano mille miglia dell’esecuzione del tenore siciliano.

GLI ASCOLTI

Fiorello Giraud
Wagner: I maestri cantori - Nel verno al pie’ del focolare
Verdi: Luisa Miller - Quando le sere al placido
Tosti: Ancora
Tosti: Oblio

Adolfo Garulli
van Westerhout: Ovunque tu
Tosti: Ideale
Leoncavallo: Pagliacci- Vesti la giubba

Giuseppe Anselmi
Puccini: Bohème - Che gelida manina
Puccini: Manon Lescaut - Ah Manon
Puccini: Manon Lescaut - Donna non vidi mai
Giordano: Fedora - Amor ti vieta

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lunedì 24 marzo 2008

Così fan tutte a Parma: siamo in braghe di tela!


La vera novità e motivo di interesse di questo Così fan tutte pasquale è il forfait del direttore Attilio Cremonesi, discepolo di René Jacobs, filologo di fama e specialista di musica antica. Forfait, a quanto pare, fortemente desiderato dalla direzione del teatro e invocato dall'intero cast. Lo ha rimpiazzato all'ultimo Marco Zambelli, la cui prova appare ingiudicabile, non essendo possibile stabilire quanto di Cremonesi sia rimasto nella sua direzione. Abbastanza, a giudicare da fioriture interpolazioni e cadenze "baroccare" udite in orchestra e sul palco, ora piacevoli ora meno (vuoi per quello che sono, vuoi per come vengono eseguite). L'orchestra non ha suonato bene: attacchi sporchi, vere e proprie stecche segnatamente degli ottoni, una generale piattezza nelle dinamiche e nei colori, sfasamenti con i cantanti inaccettabili persino in prima prova d'assieme. E' preoccupante che l'orchestra di uno dei più importanti teatri italiani, dopo un mese di prove, annaspi in un'opera di Mozart. Che cosa combinerebbe alle prese con una qualsiasi partitura di Richard Strauss?
Quanto ai cantanti, abbiamo avuto una volta di più la prova che anche Mozart, ormai, rientra nel novero degli autori considerati "ineseguibili". In effetti è dura eseguire Mozart quando mancano i requisiti minimi dell'arte del canto, a cominciare dalla voglia di cantare.
Poiché, come ripetiamo ogni volta a rischio di risultare noiosi, il canto non si può e non si deve limitare alla dote di natura allo stato brado, la prova di Francesco Meli appare indicativa dello stato in cui versa la professione lirica. Il tenore genovese ha una voce naturalmente bella e anche ampia, ma dalla sua bocca escono solo berci e bastano due agilità due (nemmeno lontamente paragonabili a quelle che l'attendono al varco nell'Erisso pesarese) a metterlo in crisi e a farlo agitare scompostamente, come morso dalla tarantola di berganziana memoria. La quale Berganza, sia detto per inciso, eseguiva e tuttora esegue il canto di agilità senza perdere la perfetta compostezza della postura, nonché dell'emissione. Se il tenore stenta ovunque e s'impicca in acuto, segnatamente sul secondo passaggio, è l'ottava bassa la croce di Irina Lungu, che sfoggia voce ridotta e alleggerita rispetto alla Stuarda milanese (eseguita in un teatro ben più grande e dall'acustica ben più ingrata rispetto al Regio di Parma) e suona fioca in basso (regalo di un irrisolto primo passaggio di registro) e propensa al grido in acuto. La salvano l'innata musicalità e i generosi trasporti all'acuto particolarmente nel secondo atto, ma la chiusa del duetto con il tenore la vede a dir poco spossata. Più sonora risulta la Dorabella di Serena Gamberoni in Meli, se non fosse che il maggiore volume di suono ne sottolinea la tendenza a strillare come un aquilotto caduto dal nido, e si taccia dei fiati sistematicamente corti e delle agilità assai periclitanti. Forse la signora dovrebbe riflettere che una pagina come Smanie implacabili è parodia dell'opera seria per la situazione drammatica, non certo sotto il profilo vocale. E arriviamo al vero mistero od equivoco stravagante che dir si voglia di questa produzione, Stefanie Irányi, una vocina agra, mal emessa, che pasticcia e grida con poco o punto garbo e arriva a dimenticarsi metà della sua prima aria (e canta Despina, non una grande parte e nemmeno una parte lunga), al punto da doverla concludere ancheggiando e accennando come una comica dell'arte. La raffinata eleganza delle soubrette di tradizione appare anni luce di distanza da questa signora o signorina che, se avesse maggiore volume vocale, potremmo definire un'urlatrice (sarà forse una... declamatrice???) e che, allo stato attuale, dovrebbe meditare a lungo prima di affrontare uno qualsiasi dei mirabolanti impegni riportati nel suo curriculum nuovo fiammante. Per andare in scena bisognerebbe almeno memorizzare la parte.
Alex Esposito canta più compostamente del solito, almeno finché non s'imbatte in un punto coronato, che onora di contorcimenti del tutto analoghi a quelli di Meli. Ma almeno lui canta, o si sforza di farlo. Non possiamo dire altrettanto di un Andrea Concetti ormai pienamente a proprio agio nei panni del dicitore. Peraltro decisamente poco fine.
Irrilevante lo spettacolo di Adrian Noble, ambientato in riva al mare e in epoca contemporanea (i costumi sembrano acquistati al mercatino rionale, e se quelli delle signore ne valorizzano, ove possibile, l'avvenenza, le T-shirt e i pantaloni di pelle rendono goffi i signori e ne sottolineano la silhouette non sempre impeccabile). Peter Sellars e i coniugi Herrmann, nel frattempo, sono già al traguardo.
Insomma l'elemento forte di questa produzione, e quello che speriamo possa costituire un precedente in vista di future produzioni a rischio "baroccari" o comunque afflitte da direttori inadeguati al repertorio e alla professione in genere, resta il mancato approdo al podio del direttore inizialmente previsto. Ma un Così fan tutte, giova ribadire, non è opera che abbia bisogno di un'insigne bacchetta per funzionare... O almeno, così ricordavamo. Vi proponiamo a questo proposito alcuni ascolti, semplici esempi di modi profondamenti diversi fra loro di omaggiare l'estremo dramma giocoso di Mozart, un'opera che mantiene, a dispetto di tutto, una capacità di attrazione che trova pochi termini di paragone.



COSI' FAN TUTTE

Ouverture
- Vittorio Gui

Atto I

Ah guarda, sorella - Leontyne Price & Marilyn Horne
Vorrei dir e cor non ho - Sesto Bruscantini
Ah, scòstati! ... Smanie implacabili - Teresa Berganza
In uomini, in soldati - Graziella Sciutti
Temerari! ... Come scoglio - Eleanor Steber, Lella Cuberli, Sena Jurinac
Un'aura amorosa - Anton Dermota, Cesare Valletti, Richard Tucker, Alfredo Kraus

Atto II

Una donna a quindici anni - Lucia Popp
Il core vi dono - Wladimiro Ganzarolli & Teresa Berganza
Ei parte ... Per pietà, ben mio, perdona - Margarete Teschemacher, Leontyne Price, Sena Jurinac
Donne mie, la fate a tanti - Karl Kronenberg
In qual fiero contrasto ... Tradito, schernito - Luigi Alva, Richard Lewis

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domenica 23 marzo 2008

Inneggiamo!!!



Tante uova ! Tante sorprese ! Tanti auguriiiii !!!

Che c'è di meglio per festeggiare insieme della Pasqua di Mascagni con una grande grande Grace d'annata???!
Vi auguriamo tanta felicità e tanta buona musica.

GG & friends

P. Mascagni - Cavalleria Rusticana
Inneggiamo, il Signor non è morto - Grace Bumbry

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sabato 22 marzo 2008

La buona Pasqua: Teresa Berganza alla Scala (1975)


Quando entrava in sala per tenere un concerto T.B. appariva una signora di misurata statura sorridente ed elegante. Il sorriso era misurato come pure l’eleganza del vestire. Misura ed eleganza, d’altra parte, erano le autentiche sigle di T.B. Non solo quale concertista. I programmi avevano temi fissi: le arie antiche del Parisotti, la musica da camera in ogni lingua, fosse russa, tedesca, francese o italiana, e, naturalmente, il folklore spagnolo ove la zarzuela spesso aveva parte preponderante. Misura ed eleganza: perché T.B. non si è mai fatta prendere da foje filologiche da baroccari e baracconi, quali oggi praticati da molte sue colleghe, che malamente la imitano nell’emissione, tanto meno da manie pseudoculturaloidi, che, postulando la superiorità della produzione liederistica, ne infliggono una ventina di brani ad un pubblico poco avvezzo ad idioma e cultura di Goethe. Misura ed eleganza: perché i brani del folklore non avevano alcunché di rumoroso per un malinteso esser popolare, ma erano, com’è giusto, la Spagna proposta da un’elegante señora madrilena.
Forse la misura veniva meno quando T.B. iniziava la terza, e ufficialmente non prevista, parte del proprio recital, dedicata ai bis. L’eleganza invece rimaneva intatta. Il pubblico, ben avvezzo a questa sovrabbondanza di bis, sapeva che la fine sarebbe stata il più delle volte decretata con la famosissima Tarántula. Spesso settimo od ottavo bis. E questo accadeva anche negli anni Novanta quando T.B. si scusava con il pubblico dicendo: “Sono una nonna” e poi cantava il rondò di Cenerentola. L’arte di T.B. era quella di essere al tempo stesso raffinata cantante da camera e diva sul palcoscenico, ben conscia del suo status e dell’autentica venerazione di cui il pubblico la rendeva oggetto. Credo, anche, che T.B. per tutta la sua carriera sia sempre stata assolutamente conscia dei propri limiti vocali e di temperamento e con questa chiara cognizione abbia costruito una carriera che, proprio nel concerto di canto, ha sempre trovato la sua più alta espressione. Pur nella consapevolezza dell’ammirazione incondizionata di cui godeva presso il pubblico, T.B. non ha mai osato ruoli, o anche brani, che pur minimamente esulassero dalle sue possibilità e di cui non avesse pieno dominio. Con quello che oggi, velleitario ed impunito, circola, una lezione ulteriore e più alta ancora rispetto a tante raffinate Violette o a sofferte Nebbie di Respighi. Grazie, veramente, a Domenico T., melomane ben oltre le nozze d’oro con il loggione scaligero, alla cui gentilezza dobbiamo la registrazione di questo concerto.

Teresa Berganza - Teatro alla Scala 5 Febbraio 1975

pianoforte : Ricardo Requejo

Carissimi - No, no, non si speri
Scarlatti - Le violette
Pergolesi - Confusa, smarrita (da Catone in Utica)
Rossini - Anzoleta avanti la regata (da La regata veneziana)
Donizetti - Ne ornerà la bruna chioma
Wolf - Sagt, seid Ihr es, feiner Herr (da Das Spanische Liederbuch)
Fauré - L'absente (Hugo)
- Mandoline (Verlaine)
- Après un rêve ( da Poesie toscane)
Granados - La Maja dolorosa n°3 (Periquet)
- El majo tímido
- La Maja dolorosa n°1
- El tra la la y el punteado
Montsalvatge - Cinco canciones negras :
- A. Cuba dentro de un piano (Alberti)
- B. Punto de habanera
- C. Chévere
- D. Canción de cuna para dormir a un negrito
- E. Canto negro

Bis :

Mozart - Voi che sapete (da Le nozze di Figaro)
Rossini - Nacqui all'affanno (da La Cenerentola)
Giménez - La tarántula (da La tempranica)
Bizet - L'amour est un oiseau rebelle (da Carmen)
Thomas - Connais-tu le pays (da Mignon)
Bizet - Près des remparts de Séville (da Carmen)
Pergolesi - Se tu m'ami

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giovedì 20 marzo 2008

Ciro in Babilonia, ma di Rossini.


La proposta di Ciro in Babilonia a Parigi è spunto per articolate riflessioni.
Quella circa l’esecuzione la lascio all’amico Duprez, come lascio a lui ogni riflessione e dovuto improperio sul fatto che gli impuniti baroccari abbiamo deciso di impadronirsi anche di Rossini, non contenti dello scempio che hanno fatto del repertorio barocco.
Abbiamo avuto lo scorso anno ad opera di Reneé Jacobs un bel Tancredi con strumenti originali e cantanti da comprimariato bavarese, adesso il Ciro, già qualche contro tenore ha cantato (si fa per dire) Aureliano, l’unica opera scritta da Rossini per un castrato e credo sia imminente l’ufficiale acquisizione delle altre opere serie non napoletane ossia Sigismondo ed il centone Eduardo e Cristina. Quanto ad Adelaide, pur senza intervento di baroccari l’infelice esecuzione pesarese era sulla medesima lunghezza d’onda del malcanto rossiniano, oggi assai praticato a Pesaro, in primis.
Non solo, ma stando ad una raccapricciante esecuzione delle arie di Arsace ad opera del signor Cencic, presto l’impostura si estenderà anche ai lavori napoletani di Rossini. Così presto avremo in scena un Malcolm dall’aspetto virile, che con grazia indossa il kilt e che canta con voce per timbro e volume di una ospite delle amiche mura di casa Verdi.
E poi che avremo?
Il fatto è che le prime opere di Rossini sono state trascurate. Devo dire che lo furono anche all’epoca di Rossini. Circolarono soprattutto nei teatri italiani, l’autore non le ritenne degne del Teatro des Italiens. Non conobbero fama internazionale Salvo il Tancredi che per altro circolava talmente rifatto e rimaneggiato, che della stesura rossiniana poco rimaneva. Anche se cantava Giuditta Pasta e il fatto bastava per giustificare ritocchi, aggiusti e tagli, impresti ed autoimpresti, se del caso.
Spesso l’autore le considerò fonti per autoimpresti e parodie. Con riferimento al Ciro il più famoso è riferito alla aria di Amira, assegnata nel 1819 ad Amaltea in una ripresa, sempre napoletana, del Mosè in Egitto.
Eppure risentite, non certo nell’esecuzione di Malgoire sono ben altro che semplici appunti per il futuro.
Il giudizio attuale tiene conto, ovvio, della conoscenza che abbiamo acquisito del Rossini tragico negli ultimi venti anni. Ossia del dopo. Poco, però del prima. La conoscenza dei melodrammi, eseguiti in scena negli anni del giovane Rossini potrebbe facilmente ridimensionare o, quanto meno, aiutare una più conscia lettura. Basta sentire di Cimarosa, gli Orazi e Curiazi, che precedono di tre lustri la produzione rossiniana o leggere lo spartito di Artemisia. E poi meriterebbero, credo, un approfondimento Zingarelli, Morlacchi, Mayr ed anche Mosca e Generali per trarre conclusioni definitive.
Però nel primo lavoro tragico abbiamo già tutti gli elementi, che andranno a fare di Rossini, Rossini.
Con riferimento al Ciro basta ascoltare le pagine di piglio eroico e di evidente sapore neoclassico riservate a Ciro ed all’antagonista Baldassare (parte di tenore baritonale tutt’altro che facile). Piglio eroico che con riferimento al protagonista trova il proprio contraltare nell’elemento elegiaco dell’aria del secondo atto “v’abbraccio vi stringo”. In questo i successivi travesti rossiniani da Tancredi ad Arsace non saranno altro che un ampliamento di uno modello già definito nel Ciro. Fra l’altro all’ascoltare, aduso a Rossini non sfuggirà come il protagonista maschile nella sortita canta dapprima quello che diverrà l’incipit del rondò di Cenerentola, poi la stretta della scena di Tancredi “non sa comprendere il mio dolore”, mentre nella scena di carcere finale l’andante diventerà a distanza di un anno, la sezione centrale dell’aria alternativa di Tancredi.

Ma sono sia pure in formato ridotto presenti tutti gli elementi dell’operismo serio rossiniano. Basta pensare gli elaborati accompagnamenti orchestrali alle arie solistiche, come il violino in quella di Amira al secondo atto. Mentre il corno accompagna ed introduce quella del primo atto sempre della protagonista femminile. Si percepisce come Rossini negli anni del conservatorio bolognese (troppo pochi come ebbe a dire Rossini medesimo) avesse letto, studiato, memorizzato la produzione strumentale del tempo. Di area tedesca in primis. Gli appellativi, al di là di una stereotipa biografia, hanno sempre un fondamento.
E ancora posseggono già la sigla rossiniana l’accento elegiaco riservato ai duetti degli innamorati coniugi ed alle arie di Amira (fra l’altro parte che richiede un registro acuto esteso e facile) è già quello che troverà ampliamento nel personaggio di Amenaide (pensato per la stessa interprete, Elisabetta Manfredini Guarmani) e completamento in Desdemona ed Elena, scritta per un’altra tipologia di soprano quello Cobran, ma che con gli opportuni trasporti, entrarono anche nel repertorio dei cosiddetti soprani assoluti. Categoria di cui, con riferimento a Rossini la Manfredini fu il prototipo.
E siccome Rossini fu sempre un ottimo giudice di sé stesso nel scegliere quel che da un lavoro all’altro meritava il trasferimento, le conseguenze sul valore del reietto Ciro sono dell’autore stesso.
Ciro è anche un modello di categorie vocali ed un grosso problema per gli esecutori vocali, attuali.
Modello perché lo schieramento vocale con un protagonista eroe amoroso affidato al contralto en travesti (quando non si disponeva del sopravvissuto Velluti, come accadde per Aureliano), una innamorata soprano assoluto ed un antagonista tenore baritonale si ripresenterà puntuale in ogni opera seria non scritta per Napoli. Spesso con gli stessi cantanti come Elisabetta Manfredini ed anche Marietta Marcolini.
Questo schieramento vocale ripetuto, quindi, sino al Falliero scaligero (1819) chiarisce quali fossero le tipologie vocali più diffuse e disponibili nei teatri italiani e con le quali gli autori dovevano misurarsi. E, per completezza, come i cast napoletani rappresentino un’eccezione e non una regola, con la conseguente difficoltà di esecuzione altrove dei lavori napoletani. Anche i cast di autori coevi a Rossini presentano lo stesso schieramento e gli stessi caratteri nei uoli protagonistici.
Va anche precisato e così veniamo al punto della difficoltà di esecuzione del primo Rossini che le scritture riservate alla Manfredini (ed in generale ai soprani assoluti) sono più acrobatiche e fiorite di quelle centrali e quasi prive di melisme dei contralti. Ciò con riferimento alle parti scritte per la Marcolini e Malanotte. Diversa la scrittura per Carolina Bassi primo Falliero, fioritissima e la più ardua riservata ad un musico.
Siamo ancora nella fase della cosiddetta coloratura lata e non minuta, nata quest’ultima secondo una tradizione prossima alla favola dagli eccessi di Giovan Battista Velluti, Arsace in Aurelianoin Palmira.
Cosa eseguisse e come intervenisse Vellutino lo sappiamo, purtroppo.
Che però, le parti dei prima amorosi siano sia nei recitativi che nelle arie prossimi al canovaccio è evidente ascoltando la musica, anche se Stendhal critica le fioriture del tardo operismo rossiniamo.
Oggi cosa significa eseguire Arsace piuttosto che Ciro o Tancredi intervenire sul testo, ampliare e diminuire, quindi, quello che l’autore ha scritto, ossia non limitarsi ad interpolazioni nei da capi e nelle riprese delle cabalette.
Che questa sia la corretta esecuzione, molto più interventista e radicale di quanto normalmente capita sulle scene lo comprovano gli interventi che per Giuditta Pasta, Tancredi vennero approntati, credo addirittura da Pacini oltre che da Rossini sul primo enunciato del testo musicale o gli interventi di Manuel Garcia, il tenore di Rossini sul personaggio di Almaviva per lo stesso Garcia pensato e composto in un’epoca, ufficialmente di coloratura minuta e non lata.
Oggi i cantanti non sono Manuel Garcia, oggi la tradizione, che nasceva dallo studio (i dieci anni di formazione anche musicale dei castrati, che proprio per questa attività ulteriore rispetto al canto venivano preparati) musicale è persa e se anche un cantante sapesse intervenire sul testo incapperebbe in un direttore d’orchestra il quale per certo non concorderebbe con l’idea di intervenire sul testo, non concorderebbe sugli interventi e, comunque non sarebbe in grado di “tenere” orchestra e palcoscenico nell’ipotesi di un paio di accellerando e di stentando non previsti, anche perché i primi spartiti rossiniani quanto ad agogica tacciono nella maniera più assoluta.
Non credo, ma vorrei essere smentito che coloro i quali affrontano o affronteranno nel futuro prossimo un lavoro tragico del primo Rossini, abbiano sapienza e cultura per intervenire diminuire le parti e tanto meno l’umiltà per farlo in ragione delle caratteristiche e capacità del designato esecutore.

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martedì 18 marzo 2008

Il Requiem verdiano a Bologna

Misteriosi permangono i motivi che hanno spinto la sovrintendenza bolognese a realizzare in forma semiscenica il Requiem verdiano, che mai fu pensato dal suo autore per la scena. Ugualmente oscure le ragioni che hanno portato all'ingaggio di Pier'Alli, autore di un "progetto visivo" che consiste essenzialmente nell'inserzione di un velo semitrasparente fra orchestra e coro, su cui vengono proiettate immagini digitali che mescolano forme geometriche e icone più o meno sacre: un Cristo-Tetris di scarsa originalità e dubbio gusto. L'interesse della serata, come è chiaro, risiede altrove. In primis nella possibilità di ascoltare dal vivo Daniela Dessì, a poco più di un mese dal debutto in Norma e in una parte che, pur diversissima da quella della sacerdotessa druida, richiede come quella notevole ampiezza strumentale, accento tragico e sovrano controllo delle dinamiche.
Quello che abbiamo sentito non lascia ben sperare per la Norma, tutt'altro. La Dessì è apparsa molto soprano leggero, e per giunta un leggero sfiorito e affaticato, segnatamente in alto, dove la voce, già esile, si fa addirittura larvale e non di rado anche stonata. La cantante gioca al risparmio per tutta la sera onde sfoggiare un minimo di ampiezza al Libera me Domine, ma l'illusione dura lo spazio di poche battute, presto sepolte dall'orchestra. La voce ha perso molto anche al centro, mentre per i gravi si ricorre, rimedio consueto quanto poco efficace, a un declamato assai prossimo alla prosa. Non mancano certo le intenzioni, la ricerca di colori e dinamiche sfumate, ma il tutto rimane nell'ambito di una vocalità malferma che rischia di arrivare vieppiù provata, dopo i cimenti romani nella Fanciulla del West, all'appuntamento con la ministra d'Irminsul.
Nemmeno Luciana d'Intino appare un fulmine di guerra: la voce si è notevolmente assottigliata (pur risultando più sonora di quella della Dessì) e i centri sono talvolta aperti nello stile dei contraltazzi d'antan (che erano però tutt'altra cosa in termini d'ampiezza pura). Ciò detto, la linea di canto appare sempre sorvegliatissima, il fraseggio è dinamico e c'è una costante ricerca di sfumature (specie nei momenti in cui l'orchestra si fa più discreta). Insomma il mezzosoprano friulano, sia pure non (più?) al top, dà rinnovata prova del proprio saldo professionismo.
Chi non ha problemi di materia prima, e pare volercelo ricordare senza soluzione di continuità, è Roberto Aronica, deciso a buttare in faccia all'ascoltatore tutta la sua voce, brutta ma tanta. Peccato che con il peso (anzi il macigno) vocale puro non si vada molto in là, nel Requiem (e nel Verdi maturo in generale), essendo l'emissione di strozza, e conseguente assenza di dinamica e potenzialità espressive, il metodo perfetto per svilire la nobiltà di questa musica (e su questo punto rimando volentieri all'intervento in merito dell'amico Duprez). Al muggente Ingemisco, di per sé ampiamente censurabile, ha fatto seguito un Hostias et preces in cui ogni tentativo di cantare piano comportava un deciso sbiancamento della voce, con quale rispetto del dettato verdiano è facile immaginare.
Giacomo Prestia, fattosi annunciare indisposto prima della recita, ha cantato come fa di solito, con una voce che poco o punto ha dell'ampiezza del basso verdiano (ma anche belcantista), un tremolio precoce piuttosto pronunciato cui si è aggiunta, nell'occasione specifica, un'evidente emulazione del Ghiaurov più becero, la ricerca di un accento torvo in grado di conferire autorevolezza a un canto che ne è privo non tanto per la scarsità del materiale vocale di partenza, ma per l'incapacità di proiettare al meglio il suddetto.
A reggere il tutto (discretamente, salvo qualche scollatura rapidamente rientrata) e a far risuonare finalmente al meglio delle loro possibilità orchestra e coro del Comunale, il vecchio leone Georges Prêtre, compassato come al solito, ma anche il più solido direttore schierato finora dalla corrente stagione lirica (diciamo che non si trattava di una missione impossibile, visti i precedenti). Un Requiem esteriore e fracassone, il suo, che guadagna in energia quello che perde in nobiltà. Vorremmo poter dire lo stesso degli altri intervenuti.

G. Verdi - Requiem

Recordare, Jesu Pie - Marilyn Horne & Daniela Dessì (1990)
Ingemisco - Jussi Björling (1958)
Confutatis maledictis - Tancredi Pasero (1940)

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lunedì 17 marzo 2008

Stabat Mater di Rossini alla Scala

Avvezzo da lunga data a dirigere il capolavoro rossiniano e per certo memore delle eccellenti prestazioni vocali di alcuni suoi colleghi di un tempo, Riccardo Chailly ha trovato il coraggio (...o forse anche l'orecchio....) mancatogli durante le prove del Trittico, dimettando metà del cast dopo la prima prova di sala. Così sono approdati a queste recite il soprano Svetla Vassileva al posto di Eva Mei ed il basso Mirco Palazzi al posto di Simone Alberghini. Licenziamento che peraltro non ha migliorato sensibilmente la qualità generale delle parti soliste dello Stabat, composizione sacra ma dal carattere sempre fortemente belcantista, more Rossinano solito.

I compromessi cui il maestro si è dovuto comunque piegare per sorreggere il cast sono stati evidenti. Una direzione su due binari nettamente separati: quello del’introduzione ( Stabat mater ) e del finale ( Amen. In sempiterna saecula ) diretti il primo con grandiosa solennità, tempo largo e quasi monumentale, il secondo con un vigore ed una foga drammatica quasi verdiane, di grande effetto, con orchestra vigorosa e grande coro.
Sul secondo binario stavano, invece, i numeri dei solisti, condizionati continuamente dalla piccolezza delle voci e dall’assenza del necessario peso drammatico: l’orchestra ha dovuto farsi piccola, se non addirittura sparire in alcuni momenti, mentre in altri ha dovuto coprire soccorrevole acuti sguaiati di qualche solista ( si vedano i do dell’Inflammatus della Vassileva ), ed altre simili accorgimenti. Sebbene collocati, come al solito, oltre la zona della buca, i solisti non sono mai riusciti a fare arrivare con facilità le loro voci assieme all’orchestra, afflitti, in generale, da mancanza di ampiezza e proiezione. E ciò ha, di fatto, tolto smalto all’esecuzione degli 8 numeri centrali dello Stabat.
In dettaglio, secondo apparizione solista:
Il tenore, Dmitri Korchak ha cantato con un certo garbo, sforzandosi di avere una linea musicale elegante, ma la voce è piccola e poco proiettata. L’esecuzione del Cuius animam meriterebbe un canto facile, con perfetto “giro” della voce, e capacità di smorzare: invece, secondo la moderna estetica ( frutto dell’imperizia tecnica, lo abbiamo già detto ) oggi và di moda far cantare la prima sezione tutta forte, e la seconda tutta in pianissimo, ossia in falsetto ( perché tali sono questi suoni collocati in bocca ), col risultato innaturale di spaccare vistosamente in due sezioni separate il brano, annientare il suono dell’orchestra, che diversamente coprirebbe il solista, e far sporgere noi dal loggione per udire….quel che in effetti non si sente. Il do diesis in chiusa, poi, una nota di petto tenuta il minimo perché nemmeno sicurissima. Insomma, una prova correttamente in linea con i modi del presente tenorile, ma ben lontana dalla regola dell’arte.
Il basso, Mirco Palazzi, è stato il migliore del quartetto dei solisti. Canta correttamente, chiaramente se non vistosamente ispirato a Samuel Ramey nel timbro. Gli mancano, però la proiezione, la sonorità e l’autorità vocale del grande basso americano, figli di altre e superiori capacità tecniche. Un Pro peccatis buono, ma privo di vigore e di slancio, e, invece, poca risonanza delle note basse nel successivo Eja, Mater, fons amoris con il coro.
Quanto alle donne, la sezione vocale più debole, sin dal duettino iniziale Quis est homo hanno da subito ben chiarito il loro stato vocale, la Vassileva vistosamente stonacchiata in zona alta, la Ganassi priva della necessaria sonorità in zona bassa. Singolarmente agitata sulla seggiola, costantemente compresa a bere e sorvegliare Chailly e colleghi ( ??!! ), la Ganassi ha affrontato l’elementare Fac ut portem con l’atteggiamento di chi si accinge a cantare la scena delle catene di Falliero o la scena del tempio di Arsace. Come già evidente al duetto ed al quartetto, Sancta Mater, istud agas, la voce è ormai molto provata e di ridotto volume. Il canto in zona centro alta è solo forte, con le contrazioni di gola di sempre, mentre apprezzabile è la musicista, che cerca di eseguire smorzature e messe di voce di grande effetto….sebbene di qualità esecutiva incerta. Troppa e preoccupante è la fatica del canto di questa Eboli, aspirante Ermione…ruoli davvero al di là di ogni limite della Ganassi!
Quanto a Svetla Vassileva, devo dire, in primo luogo, che non so quale oggettivo miglioramento alla prestazione sopranile abbia potuto offrire al maestro Chailly rispetto ad Eva Mei, perché sempre di soprano leggero si tratta…..( chissà quali saranno le effettive condizioni vocali della futura quanto improbabile Elisabetta del Devereux triestino…!!!!) Resta il fatto che la Vassileva ha canticchiato, quasi accennnando, tutta la parte sino all’Inflammatus, ove ha esibito la sua inadatta e tremula vocina da soubrette nel tragico finale. Prima ottava davvero inesistente, un canto di scarso peso drammatico, agilità inesistenti ( i trilli delle scale bellamente spazzati via senza nemmeno provarci...), due vere e proprie urla i do…..insomma, davvero pochetto.
Il pubblico è stato molto entusiasta dell’esecuzione, e persino la Grisi e Donzelli si sono emozionati nuovamente per la travolgente ed indistruttibile bellezza di questo Stabat Mater di Rossini, davvero il più genio tra i genii.


Cujus animam - Jacques Urlus
Pro peccatis - Pol Plançon
Fac ut portem - Martine Dupuy
Inflammatus - Leyla Gencer, Lella Cuberli

UPDATE - All'ultima recita del 22 marzo, Sonia Ganassi, ufficialmente indisposta, è stata rimpiazzata da Veronica Simeoni. Il forfait della signora Ganassi nell'elementare parte di secondo soprano dello Stabat (affidata alla prima bolognese a una cantatrice dilettante) fa assai mal presagire in vista del cimento pesarese con la più ardua parte sopranile di Rossini, erroneamente spacciata per parte declamata: Ermione.

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venerdì 14 marzo 2008

Wozzeck, Berg e la Scala

Domenica 9 marzo, ho assistito all’ultima recita scaligera del Wozzeck di Alban Berg. Nel dare un breve resoconto della serata, ne approfitto per alcune considerazioni di carattere generale, in merito all’attuale stagione lirica del teatro milanese, giunta ormai a mezza via della sua parabola, e alle linee guida sottese alle scelte culturali e di repertorio della nuova sovrintendenza. Sull’opera non voglio dilungarmi: ritengo Wozzeck uno dei capolavori del teatro novecentesco, e come tale andrebbe trattato. Lavoro di grande ricchezza e suggestione che abbisogna di un’orchestra di veri virtuosi e di un direttore di grande sicurezza e di idealità interpretative, fatte di scelte anche drastiche e di approccio problematico al testo (straordinariamente aperto ad una molteplicità di interpretazioni: da quella tardoromantica di Mitropoulos a quella più lirica e straussiana di Bohm, da quella fortemente analitica dalle trasparenze quasi cameristiche di Boulez alla visione drammatica e asciutta di Abbado).
Naturalmente è più che mai necessario l’apporto di un cast vocale all’altezza, di solidissima tecnica e rigorosa preparazione e che non rinunci mai a cantare, pur sottolineando tutte le asprezze che la scrittura richiede, oltre, naturalmente, a padroneggiare la difficile tecnica dello sprechgesang, senza sfociare nel parlato (rischio che si presenta ad ogni angolo in una partitura come Wozzeck) scorrettissimo anche in Berg. Di tutto questo solo una pallida traccia è rimasta nella recita scaligera. Non un brutto spettacolo, ma una serata senza alcun brivido (o almeno poco emozionante, e questo in un’opera di così grande tensione drammatica è peccato non veniale). Gatti si conferma, infatti – dopo il deludente Lohengrin dell’anno scorso – direttore mediocre e inspiegabilmente sopravvalutato: la sua concertazione tende a smorzare ogni tensione, ogni dramma, ogni asprezza, in una pallida melassa che, per essere ad ogni costo rassicurante e “moderata”, priva Wozzeck di quella carica vitalistica che è suo tratto peculiare. Gatti non fa disastri – come faceva in Rossini, autore saggiamente accantonato – ma non si allontana dalla tranquillità del quieto vivere: e alla fine annoia. In ciò è coadiuvato da un’orchestra svogliata e quasi scocciata o, peggio, infastidita, da certi crescendo o da certe violenze sonore. Tuttavia la musica di Berg è di tale potenza da poter benissimo emergere e coinvolgere (seppur non trascinare come dovrebbe) nonostante il pallore imposto dal direttore. Il cast vocale segue, ovviamente, i motivi del concertatore, rinunciando anche qui sia a dare rilievo all’asprezza del dramma, sia ad abbandonarsi alla sofferta passionalità di certi squarci lirici, restando a sguazzare in un limbo tiepido, comodo, ma assolutamente anonimo. Il livello complessivo è, peraltro, mediamente buono (e per la Scala degli ultimi tempi è già un felice risultato) e forse avrebbe meritato una lettura più viva e definita. Mi è piaciuta abbastanza la Marie di Evelyn Herlitzius che, pur non facendomi - ovviamente - dimenticare le interpretazioni della Lear o della Behrens, ha sfoggiato una voce dal bel corpo, forza, controllo e sicurezza negli acuti. Discreto anche il protagonista di Thomas J. Mayer (certo il confronto con Fischer-Dieskau è schiacciante, ma la sua prova è stata più che dignitosa). Con il Dottore di Markus Marquardt, si scende un po’ di livello: la voce tendeva a farsi sovrastare nei momenti di maggior pienezza orchestrale, ma il fraseggio è accurato e il personaggio ben disegnato. La nota veramente dolente è stato il Capitano di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke: tutto quello che usciva dalla sua bocca era sgradevole, in particolare ogni volta che la voce saliva in zona acuta (e succede di frequente in quel ruolo) essa spariva nella gola e l’emissione diventava faticosissima, schiacciata e problematica. Mi sono stupito della mancanza di fischi e contestazioni nei suoi confronti: li avrebbe ampiamente meritati. Endrik Wottrich assumeva il ruolo del Tamburmaggiore, senza brillare particolarmente e risultando spesso approssimativo (davvero mi chiedo in virtù di quali meriti possa essere considerato un grande cantante wagneriano). Il breve ruolo del Pazzo è interpretato da Heinz Zednick, veterano del ruolo del Capitano. Il coro è stato molto bravo e così pure l’ensemble strumentale in scena. Regia con alcune buone idee, ma datata e bollita (le solite sedie, la solita gestualità brechtiana, la solita strizzata d'occhio al teatro dell'assurdo, la solita spruzzata di sesso, le solite luci di taglio, la solita scena fissa – in questo caso pure brutta). Semplicemente incomprensibile, sbagliata e stupida la scelta di eseguire l’opera senza intervallo alcuno. Pubblico rumoroso, impreparato (possibile che ancora si vada a vedere Wozzeck inconsapevoli dell’atonalità della musica e che si commenti tale circostanza con battute triviali?) e maleducato (commenti, risatine, parlottii). Una nota di colore: una mamma che accompagnava i due figlioli infradecenni alla Scala per la prima volta. Apprezzo l’idea di avvicinarsi all’opera fin dalla giovane età, ma forse Berg a 10 anni è sin controproducente (oltre che un fastidio per i malcapitati vicini che, immagino, avranno subito la legittima insofferenza e le lamentele dei pargoli per tutta la durata dello spettacolo). Fin qui Wozzeck. Una volta ancora, insomma, la Scala brilla per la scarsa originalità delle proposte. Quello che ho visto domenica sera, infatti, è il terzo Wozzeck nell’arco di una diecina d’anni: tre Wozzeck e nemmeno una Lulu (ma si pensi anche a Puccini, omaggiato nel 150' anno dalla nascita con la solita Bohème). Per non parlare, poi, della scarsissima fantasia nell'assemblare i cast e del latitante potere di attrazione di direttori e registi all'altezza delle opere da allestire e della tradizione del teatro. Doti, queste, che la Scala di oggi (come quella di ieri: nulla, o molto poco, è cambiato in tal senso) condivide con la stragrande maggioranza dei palcoscenici italiani. Certo un Wozzeck, una Lady Macbeth o uno Janacek a caso mascherano queste lacune meglio di un'opera del repertorio belcantistico, ma le lacune permangono, e le sovrintendenze nostrane non le risolveranno continuando a scimmiottare i teatri germanici.

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giovedì 13 marzo 2008

Il Trittico: qualche riflessione e un po' di ristoro per le nostre orecchie!

L’allestimento, non certo soddisfacente sotto il profilo vocale del Trittico, ci ha indotti a proporre ascolti tratti dalle tre opere pucciniane.
Va premesso che spesso sono state rappresentate separatamente e che l’unita pensata dagli autori non è, poi, così irrinunciabile.
Spesso, poi, taluni interpreti, soprattutto quelle femminili hanno o in fasi differenti o della loro carriera o contemporaneamente affrontatole tre figure femminili. Ed è forse questo il motivo più interessante degli ascolti.
E’, ad esempio, il caso di Madga Olivero e, prima ancora, di Claudia Muzio, Giorgetta alla esecuzione, poi Suor Angelica, ruolo riservato in prima istanza a Geraldine Farrar. Anche in un’aetas aurea del melodramma si commettevano errori e gravi, o si dovevano accontentare tutte le dive del momento disponibili su piazza.
Spesso, poi, giocavano motivi di economia, come l’affidare Rinuccio e Luigi allo stesso tenore. Accadde, ad esempio in Scala nel 1925 con Francesco Merli. Merli era un tenore da Tabarro. Sapeva cantare, e benissimo, quindi poteva anche funzionare come Rinuccio. Ripensando all’allestimento ancora in scena alla Scala ,che sarebbe accaduto se l’attuale dirigenza avesse effettuato analoga scelta? E che il prescelto per il doppio fosse Dvorsky o Grigolo, poco o nulla sarebbe cambiato nell’esito infelice.
E’, poi, strano che i primi interpreti, alcuni dei quali come la Farrar, la Muzio o de Luca, dalla discografia varia e vasta, non abbiamo consegnato al disco la loro creazione..
Credo che l’idea di sapere come eseguissero i primi interpreti sia un portato della filologia degli ultimi anni. E talvolta abbastanza assillante. Però è un oggettivo dato di fatto che di testimonianza dei primi esecutori delle opere di Puccini le testimonianze fonografiche siano scarse, tenuto anche conto che molti calcarono le scene in epoca in cui la regisrazione fonografica era diffusa ed in fondo popolare.
Per altro se vogliamo, e se interessa, l’immagine dei primi interpreti basta ascoltare il “Senza mamma” di Claudia Muzio e Lotte Lehmann, forse le più commplete cantanti attrici del loro tempo. Sono esecutrici ed interpreti molto simili, essenzialmente misurate, attente, che cantino in italiano o in tedesco, alla parola, alla dizione, senza, però esagerazione ed affettazione. Anzi nel caso della Muzio con un qualche sfumatura di meno rispetto a quelle che la divina Claudia eseguiva in Puccini, anche se la sezione conclusiva è sfumatissima ed il la nat della chiusa smorzato da manuale. Però il tempo indugiante della Lehmann, già da solo è toccante del dramma della rinnegata ragazza madre. Inoltre la Lehmann, che piaceva non solo a Strauss, ma anche a Puccini è più varia nel fraseggio e ricca di smorzature.
Per certo le dive delle generazioni successive hanno fatto del personaggio della Suora, autentica primadonna del Trittico, un luogo dove esibire la loro voce, la loro tecnica la loro intelligenza interpretativa.
E se la Scotto in Suora Angelica talvolta è un po’ leziosa (mentre non lo è affatto come Lauretta, contro ogni previsione) nella romanza, ma tragica nell’incontro con la zia sottilineando ogni parola, pensando persino i silenzi, la Gencer, assistita nel 1958 a Napoli da una notevole saldezza e penetrazione in alto, che nel finale è indispensabile dimostra come l’etichetta di grande donizettiana sia assolutamente limitativa delle sua personalità artistica. Il suono del Senza mamma è piuttosto infelice, ma chi potesse procurarsi la registrazione del 1954 dell’aria sentirebbe tutte le più significative doti di varietà di fraseggio, di scatto e di morbidezza al tempo stesso, che costituiscono la sigla della grande primadonna pucciniana e verista. D’altra parte l’interpretazione di Francesca da Rimini della Gencer è paradigmatica al pari di quella Olivero.
Con Puccini è ovvio appaia Madga Olivero in tempi differenti interprete delle tre figure del Trittico.
Manca, purtroppo, l’integrale della Suora, che consentirebbe un’immagine ben più completa di quella che la sola aria consenta. Parlare di filature, suoni emessi pianissimo e poi rinforzati, fiati interminabili, accento desolato e disperato, saldezza nelle zone più impervie della voce è ripetere commenti ben noti.
Ed il discorso si ripropone analogo negli stessi termini per Raina Kabaiwanska e Renata Scotto.
La Scotto, poi, è risaputo fu uno dei primi soprani che affrontò nella stessa serata i tre ruoli. Impresa disperata perché la Scotto non aveva più la freschezza per Lauretta, non disponeva della facilità in zona acuta necessaria per Giorgetta e per la sezione conclusiva della Suora. Eppue la Scotto non perde occasione per proporsi come interprete, basta sentire l’attacco di “e’ ben altro il mio sogno”. Qui la voce non freschissima, un po’ logorata, ma un senso della frase assecondato dal direttore è addirittura un aiuto a rendere i tratti saliente dell’agro personaggio della donna insoddisfatta (una sorte di Madame Bovary proletaria), e si può anche passare sopra all’autentico urlo emesso alla chiusa.
L’acuto in chiusa è l’occasione di fare la miglior mostra di sé per Beverly Sills, che prima di diventare la Sills aveva frequentato anche altri repertori ed altri autori. Fra gli appassionati è un cimelio la sua Aida. Che la Sills sia per voce Lauretta non si discute, che sia eloquentissima come Suora può anche starci e tanto per andare a cercare i topoi è scontato che la Sills canti con facilità assoluta il pesantissimo “la grazia discende” ed il finale, ma è un po’ più difficile immaginare che la sua “vocina” riesca a penetrare, almeno in zona acuta, il pesante tessuto orchestrale senza scomporsi. Poi – e qui siamo fuori delle previsioni- la Sills monta in cattedra nel ruolo più “out” per lei, Giorgietta. E non solo per la spettacolare smorzatura del do con tanto di rallentando, ma per essere, pure lei come una Scotto, fraseggiatrice accuratissima, anche fuori del proprio repertorio tipico. Il caso di Beverly Sills, a prescindere dal risultato nel caso specifico è un esempio. Non per ripetere che con un saldo possesso della tecnica di canto si possa cantare tutto o quasi, anche spartiti inidonei alla propria natura, ma per osservare che sono possibili interpretazioni “alternative” valide se non addirittura paradigmatica alla sola, irrinunciabile condizione di disporre di un assoluto dominio tecnico. Alla stessa conclusione, partendo da dati di fatto diametralmente opposti si potrebbe giungere ascoltando le ultime performance di Natalie Dessay.
E tanto per rinforzare la tesi la Gencer –Giorgetta porta alla stessa conclusione. Un’ altra sorpresa per chi conosca Leyla Gencer come la declinazione del soprano donizettiano.
Il fraseggio analitico, l’attenzione al testo, la varietà di sfumature non sono, però appannaggio delle sole voci poco dotate in natura, possono, anzi debbono, essere le condicio sine qua non per essere interpreti.
Negli ascolti dove per ovvi motivi musicali Suora Angelica è la protagonista l’esempio della cantante dotata ed al tempo stesso interpreta appartiene in parte a Maria Chiara (anche se nel 1987 non era la cantante del Trittico torinese del 1983 o addirittura diuna Suora Angelica veneziana degli anni 70), ma sopra tutti a Sena Jurinac.
Il timbro della Jurinac è bellissimo, non sembrano esistere difficoltà vocali in una parte che, invece ( e lo abbiamo sperimentato di recente) ne presenta e moltissime, cantata con facilità suprema in ogni zona della voce. Certo con una timbro ed un peso vocale come quelli della Jurinac (che ha cantato e registrato la parte in italiano) il rapporto Puccini- Strauss esce esaltato e restituito non solo sotto il profilo orchestrale, ma anche e soprattutto sotto quello vocale, per dirci che anche Strauss deve essere cantato, come Puccini. Sempre con riferimento ad una grandissima vocalista ed interprete come Sena Jurinac ascoltare per credere gli ultimi quattro lieder.

Puccini - Il Trittico


Il tabarro
Hai ben ragione - Frederick Jagel
E' ben altro il mio sogno - Leyla Gencer, Beverly Sills, Magda Olivero, Renata Scotto, Olivia Stapp, Daniela Dessì
O Luigi! Luigi! - Licia Albanese & Frederick Jagel, Beverly Sills & Placido Domingo, Magda Olivero & Aldo Bottion
Com'è difficile esser felici - Magda Olivero & Giulio Fioravanti, Renata Scotto & Cornell MacNeil
Nulla...silenzio - Lawrence Tibbett, Cornell MacNeil

Suor Angelica
Il principe Gualtiero, vostro padre - Sena Jurinac & Elizabeth Hongen, Beverly Sills & Frances Bible, Renata Scotto & Lili Chookasian
Senza mamma - Claudia Muzio, Lotte Lehmann, Magda Olivero, Renata Tebaldi, Leyla Gencer, Beverly Sills, Renata Scotto, Raina Kabaivanska, Maria Chiara, Daniela Dessì
La grazia è discesa dal Cielo - Sena Jurinac, Leyla Gencer, Beverly Sills, Maria Chiara

Gianni Schicchi
Firenze è come un albero fiorito - Giuseppe Di Stefano, Giuseppe Filianoti
O mio babbino caro - Claudia Muzio, Beverly Sills, Renata Scotto, Daniela Dessì
Datemi il testamento - Italo Tajo

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martedì 11 marzo 2008

Il Dissoluto Impunito, ossia Don Giovanni nelle revisione di Jacobs

Questo ultimo Don Giovanni, segna la conclusione del ciclo Mozart/Da Ponte nell’interpretazione di René Jacobs (e, almeno temporaneamente, chiude la serie delle sue incisioni mozartiane: pare, infatti, che i prossimi impegni dell’instancabile direttore belga, siano rivolti a Handel – si bisbiglia un nuovo Giulio Cesare – e Cavalli, salvo che le sue attenzioni si spostino bruscamente sul nostro Rossini, circostanza che, mi auguro, gli dei della musica scongiurino). Con questa incisione, si compie anche la completa barocchizzazione di Mozart.
Jacobs infatti, si pone come il più estremo e intransigente apostolo di questa “sacra” missione che riconduce la musica del salisburghese nell’alveo del teatro musicale barocco, interpretandola quindi come estrema propaggine dell’opera seria (portata al suo apogeo da Handel) e ricondotta ad una prassi esecutiva ispirata ai canoni (alquanto discutibili) della nuova filologia.
Ma mentre i vari Gardiner, Hogwood, Ostman, appaiono semplicemente noiosi nella pedissequa applicazione di tali dogmi (che sono i soliti noti: tempi spediti, assenza di qualsivoglia morbidezza e sfumature, esasperazione dei contrasti dinamici, rinuncia alla colorazione di suoni strumentali e vocali che risultano costantemente fissi, secchi e aspri, onnipresenza del continuo, sovrabbondanza di ornamentazioni spesso fuori stile, voci piccole, sbiancate, leggere), Jacobs si spinge oltre. Egli infatti non si accontenta più di ricondurre Mozart a Handel (come già nelle precedenti Così fan tutte e Nozze di Figaro), ma lo trasporta ancora più indietro, sino alla tragédie-lyrique (Lully e Rameau) e al recitar cantando monteverdiano.
Ora, se già appare una forzatura leggere Mozart pensando all’opera seria handeliana (ignorando quindi tutto quello che è successo nella seconda metà del XVIII secolo: riscoperta del classicismo, diffusione delle idee illuministe, influenze della riforma di Gluck), ricondurlo sino a Monteverdi risulta esercizio tanto arbitrario quanto ridicolo.
Ma come procede Jacobs in questa operazione? E’ lui stesso a dichiarare i suoi intenti nelle note che accompagnano l’incisione. Nel libretto infatti, c’è una lunga intervista al direttore, intitolata con un certo eccesso, burning question (domande scottanti: laddove, in realtà, appaiono considerazioni spesso decisamente banali, quando non assolutamente strampalate), in cui Jacobs dispensa le sue verità.
Innanzitutto egli ci informa che il Don Giovanni sarebbe una delle meno conosciute opere di Mozart (o almeno una delle più fraintese) e aggiunge che, fino ad oggi, noi abbiamo sempre ascoltato una versione adulterata, corrotta, falsificata dell’opera, come – uso parole sue – un quadro del passato su cui si sono sovrapposte altre mani in secoli successivi. Afferma quindi che solo con la sua versione si è ripulita la partitura da tutte le alterazioni successive, permettendo così ai colori originali di tornare alla luce (sempre modesto il nostro René).
Jacobs poi sostiene che questa falsificazione sia dovuta alla mala fede di E.T.A. Hoffmann e successori, che avrebbe fatto di Don Giovanni una sorta di eroe tragico, laddove in realtà non sarebbe altro che una figura comica e farsesca. Lui invece, riconduce l’opera ad una sorta di trilogia di cui farebbero parte Eliogabalo di Cavalli e Don Chisciotte di Conti, riportando, quindi, Mozart al recitar cantando secentesco. Dice, infatti, che ci si deve approcciare alla musica mozartiana pensando a Monteverdi (compiendo così un marchiano travisamento storico ed estetico, ignorando che mentre in Monteverdi l’armonia è serva dell’oratione, con la nascita dell’opera seria la musica si emancipa dal testo, per assumere una sua centralità ed autonomia). Per lui “Mi tradì quell’alma ingrata”, ad esempio, andrebbe rapportata al monteverdiano Lamento d’Arianna e ricondotta al topos barocco della donna abbandonata. Ma in genere tutto il Don Giovanni andrebbe considerato come un’opera barocca o pre barocca.
Continua, poi, denunciando come tutte le interpretazioni musicali dell’opera siano state falsate da questa cattiva interpretazione, che ha portato alla demonizzazione del personaggio, alla sottolineatura esclusiva degli aspetti tragici e drammatici, alla forzatura in tal senso del testo, e poi all’arrochimento della voce, allo scurirsi dell’accento, alle urla, alla sostituzione dei recitativi con dialoghi in tedesco etc... Non so quali esperienze di ascolto abbia avuto il buon Jacobs (che sostiene in tante interviste di non ascoltare mai incisioni di altri), ma spacciare i suoi incubi per realtà è quantomeno disonesto: non mi sembra, infatti, che nella lunghissima storia interpretativa dell’opera si possa riscontrare, prima del suo messianico avvento, la prevalenza di una sorta di wagnerizzazione di Mozart (che pure in certi ambienti di scuola teutonica – che pare oggi andare di gran moda – c’è effettivamente stata), non credo che Giulini, Walter, Karajan, Abbado, ma anche Muti o Barenboim, facciano ruggire Don Giovanni o appesantiscano l’accompagnamento come se fosse l’VIII Sinfonia di Mahler!
Altro aspetto che lui critica, nelle burning questions, è la pretesa ambiguità dell’opera. Per lui è una falsificazione: nessuna ambiguità, nessuna sfaccettatura. Don Giovanni è un personaggio esclusivamente comico, i cui appetiti sessuali si risolvono tutti in grotteschi fallimenti, è un volgare seduttore, un immorale e farsesco corruttore di fanciulle, per di più maldestro e sfortunato, privo di ogni dimensione tragica (e tragico non significa drammatico o funereo o infernale, come fraintende Jacobs). A lui si contrappone la perfezione della coppia Donn’Anna/Don Ottavio, in uno speculare gioco degli equivoci, visti come i veri eroi positivi, di incorruttibile nobiltà e fermezza (in questa visione Donn’Anna torna ad essere solo la vittima di Don Giovanni, senza più nessun dubbio sul suo interiore contrasto tra ragione e sentimento: dubbio che rendeva il personaggio estremamente combattuto tra repulsione e attrazione verso il seduttore, e, per questo, di straordinaria umanità e modernità - qui resta invece, solamente la maschera di una purezza ideale – ignorando ancora una volta la sott’intesa malizia della musica di Mozart). Jacobs quindi, elimina dall’interpretazione ogni sfumatura, ogni senso di inafferrabile ambiguità, il Dramma Giocoso diviene volgare Opera Buffa. E per sottolineare questo, lo riempie di caccole interpretative, sospiri, urletti, parlati, versi, balbettii che neppure la peggiore e tradizione teatrale anni ’50 ha mai prodotto (ecco dove va a finire il rigorismo presuntuoso di questi baroccari). Ovviamente la lettura di Don Giovanni come personaggio cinico, amorale (più che immorale), solo, malinconico, conscio della prematura fine della sua parabola eppure ancora attaccato al suo passato che ormai sbiadisce nel ricordo (mi piace qui riferirmi al Casanova di Schnitzler) è del tutto assente. Forse Jacobs confonde questa ambiguità (che è uno dei motivi più affascinanti dell’opera) con le idealizzazioni romantiche che ne hanno fatto una sorta di Faust o di Lucifero. Ma così facendo Jacobs travisa il personaggio: Don Giovanni è figlio di quel razionalismo cinico e ironico, malinconico e spietato di cui è esponente anche il Don Alfonso di Così Fan Tutte. In lui si incarna l'autunno dell'Illuminismo, arroccato sulle certezze della sua ragione, mentre il mondo attorno cambia e il tempo passa e la vita tramonta. Don Giovanni sta lì in mezzo, osserva, è superiore, al di là del bene e del male. Quest'ambiguità è totalmente assente in Jacobs (e in questo errore non è il solo a cadere, molti infatti non superano questa che è una delle più grandi difficoltà dell’opera).
Sulla scelta dei tempi Jacobs, ovviamente, segue la consueta tendenza baroccara alla velocizzazione e alla speditezza, e – nello spacciarla per quella giusta ed autentica (curioso che un altro, e più serio, direttore filologo, Nikolaus Harnoncourt, pervenga ad una opposta conclusione, dilatando, nelle sue esecuzioni, le dinamiche e ampliando il respiro) – arriva ad affermare che i tempi più lenti della tradizione pre filologica, sono dovuti ad un equivoco in cui i passati esecutori sono caduti: essi, infatti, rallentavano perché, essendo musica bellissima, avrebbero voluto che durasse il più a lungo possibile. Scrive proprio così! Talvolta poi (ad esempio nel caso del finale II), certe scelte fanno a pugni non solo con la vecchia tradizione esecutiva (e questo è proprio l’intento jacobsiano), ma anche con le fonti (ed è cosa più grave, giacchè le note scritte andrebbero rispettate, e non trattate alla stregua di un canovaccio da commedia dell’arte): se si prende la Neue Mozart-Ausgabe edita da Barenreiter (edizione critica recentissima, la terza, datata 2001), si noterà che l’ingresso del Commendatore è segnato con un andante (e non andante alla breve, come Jacobs ci assicura che Mozart avesse in realtà inteso: forse confondendo il tempo del brano, un 4/4 tagliato – cioè un 2/2 – detto anche a cappella o alla breve, ma intendendosi non già l’indicazione dinamica – che andante era e andante rimane, quindi con misurazione metronomica che va, secondo la convenzione di Maelzel, da 76 a 108 – bensì derivante dal nome dato alla nota del valore di 2/4 detta anche minima o, appunto, breve), stessa indicazione riportata nella prima parte della Sinfonia, di cui riprende il tema (sviluppato poi, per tutta la scena). Eppure Jacobs, che in apertura di Sinfonia utilizza un tempo sì veloce, ma non eccessivamente, in questo finale II accelera quasi a raddoppiare la velocità, con il risultato di renderlo sbrigativo e frettoloso, e annullando di fatto, ogni stacco dinamico con la conclusione dell’opera, che risulta essere solo di poco più movimentata, nonostante le indicazioni di più stretto (in corrispondenza a “Oimè, che gelo è questo mai”), allegro (in corrispondenza di “Da qual tremore insolito”) e allegro assai (in corrispondenza a “Ah dove è il perfido”), che suggerirebbero quindi un maggior contrasto ritmico con il precedente andante in modo da movimentare e variare la dinamica dell’intero finale che, dopo essere passato per un rasserenante larghetto, si conclude con un presto. Di questo evocativo ed efficacissimo gioco dinamico non v’è più traccia nella presente incisione.
Infine Jacobs ci parla della sua scelta editoriale, nell’optare per la versione di Vienna del 1788 (relegando in appendice l’aria di Leporello “Ah pietà signori miei” e quella di Don Ottavio “Il mio tesoro intanto”) ripetendo considerazioni arcinote, ma spacciate per innovative (e pensare che pure Gardiner optava per la medesima edizione, più di dieci anni fa, senza incensarsi tanto), sull'asserito squilibrio della versione mista (che però io personalmente prediligo, perché oltre ad includere entrambe le arie di Don Ottavio non comprende il duetto tra Leporello e Zerlina “Per quelle tue manine”, che effettivamente rallenta e intorbidisce l’azione, senza apportare migliorie musicali, data la modestia del brano).
Questi i punti-chiave della lettura jacobsiana del testo mozatiano. Certo le premesse non incoraggiano l’ascolto, tuttavia vale la pena soffermarsi sulle conseguenti realizzazioni di cotanti presupposti.
Appena inserito il cd nel lettore e dopo qualche minuto di ascolto della Sinfonia, colpisce la totale assenza di colore: i contrasti sono esasperati, tutto è o ffff o pppp, senza nessuna sfumatura e morbidezza. I suoni, fin da subito, sono stimbrati ed emessi con fastidioso stridore, gli archi sono ovviamente ridotti (e pensare che Mozart stesso scriveva al padre, in occasione della prima della sua Sinfonia in do maggiore, che per lui sarebbe stata una gioia immensa eseguirla con venti violini primi!, mentre questi sedicenti filologi odierni ne impongono al massimo sei o sette, scambiando una banale necessità pratica per chissà quale volontà estetica!), sgradevoli, aspri e gessosi, i fiati, dal suono molto secco e incolore, sono predominanti. Tutto l’accompagnamento orchestrale poi, è greve, pesante, impacciato, sovrabbondante, chiassoso (mentre le precedenti uscite discografiche mozartiane, pur con tutti i limiti dei presupposti estetici, erano almeno giocate sulla leggerezza e l’eleganza). Il canto segue, ovviamente, le medesime direttive, riproponendo i soliti vezzi baroccari, di cui ho già abbondantemente dato conto. Vale la pena però, soffermarsi su due aspetti: la realizzazione dei recitativi e le abbondanti variazioni di cui è infarcita la partitura.
I recitativi sono un vero punto dolente (e stupisce, poiché solitamente Jacobs li cura con maggior attenzione): risultano sempre chiassosi e grevi, il fortepiano è invasivo e le improvvisazioni sono decisamente brutte (e qui si sente il cambio di mano: nelle altre realizzazioni c'era il bravissimo Nicolau de Figueiredo, elegante nell'accompagnare, fantasioso, incalzante; qui c'è il greve e decisamente poco ispirato Giorgio Paronuzzi, davvero pessimo - mentre nella jacobsiana Clemenza di Tito era parso molto più convincente). Alla pesantezza inutile di questi recitativi (talmente sovrabbondanti di inserti strumentali di violoncello e basso, da non sembrar più neppure "secchi", ma accompagnati) si aggiunge la pronuncia sgradevole di taluni interpreti e il ricorso a quell'armamentario di versi, versettini, moine, caccole, berci che fan tornare alla mente certe incisioni anni '50 (stile Gobbi o Corena nei momenti peggiori per intenderci) e che, francamente, si sperava fosse un brutto ricordo del passato.
Sulle variazioni il discorso è più complesso. Premetto che nella musica mozartiana, non mi convince molto l’alterazione della linea vocale con abbellimenti e ornamentazioni eccessive (e questo perché la struttura musicale delle sue opere è definita da un equilibrio fragilissimo, e basta davvero poco a minarne la perfezione), nè la ritengo del tutto corretta (con l'eccezione delle appoggiature, che, però, è questione ben differente), vista la prassi d'epoca e l'ambiente (siamo sempre nella Vienna della riforma gluckiana, nell’Europa del classicismo illuminista, ed è questo l’ambito dove egli opera, che piaccia o meno). Senza contare che Mozart, laddove ha voluto cadenze, abbellimenti e variazioni le ha sempre scritte, tanto da approntare diverse redazioni dei propri brani a seconda delle capacità del cantante (si vedano le differenti versioni di “Fuor del mar” e di “Marten aller arten”), cosa che sarebbe risultata del tutto superflua in epoca di opera seria barocca, dove i cantanti, per semplificare o abbellire, non aspettavano certo che l’autore vi provvedesse. Si deve considerare poi, che solo pochi degli interpreti con cui ha lavorato, erano dei veri virtuosi: tra quelli che mi vengono in mente, citerei in particolare Maria Aloysia Weber (per lei Mozart scrisse diverse arie da concerto, tra cui “Ma che vi fece, o stelle” KV368, “Ah lo previdi” KV272, e la impervia e spettacolare “Popoli di Tessaglia” KV316), poi la sorella Maria Josepha Weber (prima Astrifiammante) e, naturalmente, Katharina Cavalieri (la prima Costanze e la Elvira di Vienna, per cui fu scritta “Mi tradì quell’alma ingrata”). Comunque, se pure si vuole variare, si dovrebbe procedere con grande cautela, con buon gusto, e in modo coerente e non invasivo allo stile musicale dell'opera o del pezzo, magari ispirandosi alle stesse ornamentazioni preparate da Mozart, per taluni brani suoi (“Ah se a morir mi chiama” dal Lucio Silla, o la già citata “Marten aller arten” o l’aria da concerto KV294 “Alcandro lo confesso”) o per quelli di altri autori (Adriano in Siria e La clemenza di Scipione di Johann Christian Bach ). Jacobs invece, agisce diversamente e azzarda – in modo assai differente dalle precedenti incisioni mozartiane - uno stile di abbellimenti più consono al recitar cantando monteverdiano, con trilli fissi e ribattuti, e messe di voce somiglianti a sirene, che poco o nulla c'entrano con lo stile mozartiano (in verità stonerebbero pure in Handel!) e che vanno a vanificare la purezza del canto. Ancora più azzardate appaiono poi le scelte relative al luogo in cui inserire dette variazioni: esse, infatti - se proprio si devono/vogliono fare - dovrebbero essere riservate ai da capo delle arie (e questo per una questione di logica: la linea musicale viene prima esposta come scritta e poi variata per mostrare la bravura dell'interprete, da Handel a Donizetti è sempre stato così) e invece Jacobs, inspiegabilmente non varia tutte le arie col da capo, in compenso mette delle oscene variazioni nell'aria del catalogo (dimenticandosi che Leporello è personaggio buffo e la prassi dell'epoca per tali ruoli non prevedeva virtuosismi o esibizioni) e nella seconda strofa della serenata del protagonista (ma una seconda strofa non è un da capo!). E poi che variazioni! Sono oggettivamente brutte, senza scampo, la serenata è semplicemente rovinata, la seconda strofa va ad alterare del tutto la linea vocale sino a renderla incomprensibile e irriconoscibile (facendo pure a pugni con l'armonia del pezzo). Insomma Jacobs procede in modo incoerente e grossolano: varia dove non dovrebbe, e dove si potrebbe non varia. E comunque – per limiti di gusto suoi o dell'interprete – varia sempre in modo osceno.
Gli interpreti impiegati poi, a prescindere dalle basi teoriche delle loro esecuzione, sono del tutto inadeguati (con parziale esclusione di Leporello). Johannes Weisser interpreta un Don Giovanni, dalla voce chiara e sbiancata, quasi tenorile, povera di colore e con gravi lacune tecniche, in cui non c’è traccia di calore e morbidezza (il tanto vituperato canto all’italiana, in odio ai baroccari), è un seduttore troppo giovanile e sopra le righe, volgare ed esagitato, e spesso sfocia nel parlato (ad esempio la frase “Leporello un’altra cena, fa che subito si porti”). La pronuncia italiana è carente (e i recitativi ne risentono terribilmente) e credo che, senza le comodità di uno studio di incisione, sarebbe difficilmente udibile in un teatro vero e con un’orchestra vera (caratteristica, questa, che accomuna tutti, o quasi, i nuovi cantanti filologici). Leporello è interpretato da Lorenzo Regazzo (il migliore in questo improbabile cast), con voce dal bel timbro, anche se non molto corposa, e dall’emissione ben controllata. Il canto è morbido e abbastanza elegante, ma risente del clima generale, fornendo un’interpretazione talvolta poco misurata, e piena di inutili eccessi “teatrali” spesso di cattivo gusto (si senta ad esempio l’aria del catalogo). Kenneth Tarver (che, per la cronaca, ha pure azzardato il difficilissimo ruolo di Giacomo V nella rossiniana Donna del lago per Opera Rara, soccombendo miseramente all'impervia e proibitiva scrittura), è tenorino sbiancato e sospiroso, e si inserisce perfettamente nella tradizione anglosassone dei Don Ottavio insipidi ed effemminati. I fiati sono corti (effetto apnea) e l’agilità non è impeccabile. E’ costretto a spingere appena sale nella tessitura e ricorre spessissimo al falsetto, rendendo ancora più evanescente, il già sbiadito personaggio. Oltretutto la voce tende a crescere. Nikolay Borchev è un Masetto modesto, molto gutturale e dall’emissione aspirata e traballante. Alessandro Guerzoni è un buon Commendatore, anche se messo in difficoltà (soprattutto in alto) dai tempi particolarmente rapidi del finale II, dove una voce poco agile come è naturalmente quella del basso, con tali velocità non può che trovarsi a disagio. Passando al reparto femminile, le cose peggiorano ancora. Donna Elvira è una Alexandrina Pendatchanska (novella star del canto baroccaro) dalla voce abbastanza debole, fissa e tendente a calare, che si sforza di trovare un certo corpo, con agilità costantemente aspirate e poco fluide. Gli acuti non sono facili e i bassi appaiono evanescenti e sforzati. In “Mi tradì quell’alma ingrata” naufraga in più punti, quando i fiati non reggono i tempi già veloci staccati da Jacobs. La peggiore di tutto il cast (e forse la peggiore Donn'Anna dell'intera discografia dell'opera) è però Olga Pasichnyk: voce estremamente gutturale, emissione impastata, enormi difetti di pronuncia, agilità difficoltosa e pasticciata, centro povero, bassi inesistenti e acuti strillati e fissi come sirene, monocorde, incapace di legare e di tenere il fiato. Semplicemente pessima. Infine la Zerlina di Sunhae Im, una zanzarina leziosa e dalla voce piccolissima, che si assottiglia sempre di più man mano che sale, e che sparisce quando scende.
Questo è il Don Giovanni nella revisione (assai libera) di René Jacobs, che verrà salutato dalla solita gragnula di premi e riconoscimenti che i nostri cugini d’oltralpe riservano ad ogni uscita dell’onnipotente direttore belga (tanto che sembrano creati apposta per lui e i suoi sodali), ma che non è altro che un ulteriore passo verso una preoccupante omologazione del teatro d’opera, in letture fondamentalmente antimusicali, poichè prescindono dal dato estetico dell’appagamento (belle voci e bel suono) che la penuria odierna di veri artisti impedisce. E allora - malcelato intento di questi filologi d'accatto - meglio modificare i canoni estetici con finzioni e costruzioni ideologiche, per garantire il magro esistente, piuttosto che porre rimedio a questa veloce decadenza. Ormai il mondo discografico è stato conquistato dal verbo baroccaro (dopo Mozart e Beethoven si estenderà a Rossini e chissà, pure al melodramma) e, dopo il mercato discografico, si appresta a monopolizzare anche i palcoscenici. Cosa resterà allora del piacere del belcanto? Chiudo con le parole di Daniel Barenboim, relative a questa trionfante pratica delle esecuzioni filologiche: “Ho due problemi con il cosiddetto pensiero dell’esecuzione filologia. Prima di tutto mi disturba il fatto che si tratta di un movimento, quindi di un’ideologia, di una visione del mondo, che più che porsi domande si dà l’aria di conoscere già le risposte. E quindi limita la creatività umana. Ciò non toglie che vi siano molti musicisti straordinari, dotati di incredibile talento, fra i colleghi che vi aderiscono. Però questo movimento ha in un certo senso isolato alcuni singoli elementi – il suono, il tempo – come se fossero indipendenti l’uno dall’altro. Penso che questa sia una sciocchezza colossale. In secondo luogo, e lo dico senza nessuna ironia, questa ideologia è riuscita a farsi passare per progressista. Ecco perchè ha così tanto successo, ecco il motivo del suo trionfo. Ma come può essere progressista qualcosa che invita a guardare indietro, per vedere com’erano le cose in passato?”

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