mercoledì 28 maggio 2008

La fantasia al potere in Scala (2) - La stagione 2008/2009


Finalmente, dopo la tradizione ridda dei “si dice”, “è sicuro che faranno” la stagione 2008-’09 del Teatro alla Scala è stata annunciata.
Le previsioni ossia i “si dice” sono stati rispettati, compresi quelli derivati da repentini cambi figli di poco esaltanti prestazioni della stagione in via di conclusione.
E siccome le voci sono state rispettate è stata anche rispettata l’impressione di limitata ispirazione, di scarsa fantasia sia nella scelta dei titoli che degli interpreti.
Sono più le assenze che le presenze. E le assenze sono particolarmente gravi, in una stagione che propone una decina di titoli, la cui misura vieterebbe di proporre tre opere di Verdi, con la duplice aggravante che Aida e don Carlos sono assai simili nella produzione Verdiana e con l’aggravante che, mai, nella storia dell’esecuzione verdiana tanto grande è stata la carenza di interpreti verdiani. Sia sul palcoscenico che in buca.

Ancora dei nostri striminziti dieci titoli ben tre se li aggiudica il novecento post Puccini e Strauss, naturalmente di limitata modernità (cioè niente Nono, Berio etc). Benemerita l’operazione nelle intenzioni, ma Rake’s progress, Midsummer night dream ed Assassinio nella Cattedrale, che sembra avere rimpiazzato la annunciatissima Norma, sparita, a sentire la sua mancata protagonista, a causa dei soliti vedovi Callas, sono troppe e sproporzionate. Se, poi, scorriamo le recenti e finitime stagioni degli altri teatri italiani vediamo che la scelta brilla per scarsa fantasia.
Come nella parsimonia di titoli proporre tutti gli anni un titolo di Janacek trasforma la Scala nella succursale del Teatro di Brno o di Praga e dimostra, ulteriormente, la povertà di idee dei soggetti statutariamente deputati alle scelte artistiche (e culturali). La scelta di elevare culturalmente il pubblico scaligero propinandogli l’integrale di Janacek mi ricorda certe integrali del periodo abbadiano come quello delle sinfonie di Mahler nelle stagioni 1971 e 1972 (dove non comparve, se la memoria non mi fa difetto, una sinfonia di Beethoven od una di Mozart) o la trasformazione della Scala nella succursale del Bolschoi con l’integrale di Moussorsky, incentivo serio e concludente alla sparizione della parte più vitale del teatro milanese: il loggione.
Per altro la diffusione dell'opera russa è tale per cui la tourneé del teatro ospiti è quella del Bolshoi e l'opera Eugenio Onegin, che credo superi Boheme o Butterfly nel numero di rappresentazioni in tempi recenti.

La poca fantasia e mancata lettura, persino della mitica Garzantina, trova il suo trionfo nella decisione di proporre l’opera barocca. Anzi il “baroccò” come lo ha chiamato il soprintendente, che ha pure spacciato per una novità assoluta l’idea di rappresentare la trilogia monteverdiana (francamente di trilogie dalla popolare verdiana, alla Tudor donizettiana siano esauriti) con identico direttore, impianto scenico e responsabili della parte visiva. Idea, che venne partorita intorno al 1975 dal teatro di Zurigo, i cui prodotti vennero, pure, offerti al pubblico scaligero nella famosa stagione del bicentenario. La scelta di Orfeo, poi, lascia molto perplessi perché trattandosi di festa barocca prevista per un salone della residenza dei Gonzaga e con l’aggravante, che si vorrà oggi offrire una esecuzione rispettosa delle voci e degli orchestrali di quella prima edizione lo spazio scaligero mal si adatta all’impresa.
E poi i tre titoli, di cui si promette la unitaria ed annuale realizzazione, sono quanto di più scontato e riproposto oltre misura, a maggior ragione se si considera che la dirigenza del massimo teatro italiano ignora musicisti come Cavalli, la tradizione veneziana dei Legrenzi, Pollarolo e Steffani, che fra l’altro ben si accorderebbe con gli spazi scaligeri.

Anche la scelta di Alcina di Handel sa di affrettata scelta come fu, qualche anno or sono, la proposizione agli Arcimboldi del Rinaldo, allestimento nato nel 1984 al Valli di Reggio Emilia, anche perché Alcina è stata l’unica opera proposta in Scala nella stagione 1985. Senza evocare fantasmi di altri autori come Hasse e Porpora, ossia i diretti concorrenti di Handel a Londra il nome di Vivaldi, assente da sempre, credo, nei titoli proposti in Scala non può non venire in mente. Siamo sempre alle voci più rilevanti della Garzantina. Non abbiamo, per scelta nominato Vinci, Leo o Boschi, che già hanno un certo che di sconosciuto o addirittura di ignoto.
Tacciamo, poi, dell’idea di proporre autori come Sacchini, Anfossi e Cimarosa, che sarebbero illuminanti per capire l’operismo successivo. Basta ascoltare un titolo come “Orazi e Curiazi” di Cimarosa. Anzi ai preposti alle scelte dovrebbe bastare la lettura del canto e pianoforte.
Diciamo che ignorare i musicisti sopra citati è la peggior voragine la autentica voragine, che dimostra la programmazione, omettendo un qualunque lavoro francese vuoi del barocco, vuoi operà-comiqué (da quanti anni in Scala non si offre un titolo consueto sino agli anni ’50 come Mignon?), per tacere di Gounod (autore non solo del Faust) o di Massenet, anche lui autore di molti titoli oltre Manon e Werther (peraltro assente da oltre cinque lustri) sino al grand’operà. Riguardo il quale non si dica a giustificazione l’assenza quasi cinquatennale che sono titoli difficili da rappresentare, perché don Carlos ha uno schieramento vocale, oltre che un’origine, che è da Grand-Opéra.

Ma il vero profondo buco in un teatro che rimane italiano e che pertanto dovrebbe conservare il patrimonio musicale italiano e riproporlo è l’assenza di un lavoro del periodo che va dal 1870 al 1930 e che non sia Verdi o Puccini. Non si tratta di disquisire di valori musicali, ma semplicemente di proporre testimonianze. Sarà, poi, il pubblico a valutare, ma il compito dei teatri è proporre. Ed anche qui non si tirino in ballo scusanti come l’interesse del pubblico, il teatro pieno, perché né Janacek, né Monteverdi sono e possono essere Traviata o Rigoletto. E quindi la scusa non regge.
L’assenza di opere come Wally, Isabeau, Iris, Francesca di Rimini è inspiegabile e grave, a prescindere dall’intrinseco valore musicale dei titoli, ma per la privazione della rappresentazioni di lavori connotanti e caratteristica di una lunga stagione dell’operismo italiano.
In questo senso erano assai più oneste le scelte di cinquant’anni or sono che offrivano gli Ugonotti di fatto in selezione, Giulio Cesare con uno schieramento vocale sontuoso, ma più atto a Cavalleria e Fedora, ma almeno li offrivano.

Taccio, figlio della Rossini renaissance, della proposta viaggio a Reims.
Il Viaggio fu nel settembre 1985, in Scala un evento unico ed assoluto, schierando una compagnia di cantanti famossimi, dove, per amor di verità, spiccavano tre cantanti di scuola americana di levatura storica.Opinione più volte espressa, ma....
Inoltre la riproposizione dell'allestimento di Ronconi potrebbe fare brutti scherzi a chi vide la prima edizione.
E sino a qui siamo a interpretazioni nostalgico-vedovili, che servono a nulla e non hanno pertinenza con la scelta del teatro.
Però…una piccola riflessione è d’obbligo: il Viaggio nacque per mettere in scena le stelle del teatro degli Italiani di Parigi, quindi con parti di limitata lunghezza, ma di difficoltà assoluta come si conveniva ad un Parnaso canoro, i cantanti del des Italiens erano, di fatto, una compagnia stabile o quasi, il Viaggio fu l’occasione per esibirli tutti insieme.
Oggi in epoca di miseria o quasi di difficoltà assoluta ad allestire un Tancredi piuttosto che una Semiramide (lavori che vent’anni or sono potevano avere tre interpreti per ciascuna prima parte) la riproposizione del Viaggio è quanto meno fuori luogo.
Le due riprese di Tristano e Idomeneo dimostrano, invece, la ovvietà delle scelte visive. Fanno entrambe parte degli allestimenti minimalisti e post moderni tutti grigiori e pesanti cappottoni da Berlino (est, naturalmente anni cinquanta) e ci domandiamo se sia possibile che due melodrammi assolutamente antitetici evochino, nei soggetti preposti alla loro visualizzazione le stesse identiche tetre minimaliste e scontate idee figurative. Per la cronaca il primo allestimento in abiti moderni di un’opera di Wagner avvenne a Berlino nel 1931!!!!
In buona sostanza si può affermare che la scelta dei titoli più che dettata da istanze ed esigenze culturali, da obblighi, morali, di proporre titoli e repertori nasca dalla disponibilità di taluni big essenzialmente della bacchetta e della regia a ripercorre nel teatro milanese percorsi nati e pensati e realizzati altrove.
E questo ci sembra in disprezzo di tradizioni, che sarebbe onere ed onore preservare.

L'impressione della scarsa considerazione del pubblico diviene certezza allorquando si scorrono sia pure ad una prima disamina i nomi dei cantanti.
Un esame attento delle difficoltà od impossibilità che gli stessi potrebbero incontrare potrebbe essere tacciato di prevenzione. Che tale non è perchè note le caratteristiche dell'artista scritturato e le peculiarità dello spartito il conto è presto fatto. Solo che è un "conto" che spetta preventivamente ad altri e a posteriori al pubblico.
Pubblico, però, sia lecito dirlo la cui opinione poco o nulla conta.
Tetragona la direzione dimostra di essere poco o nulla informata sulle condizioni attuali di alcuni cantanti ripetutamente scritturati e magari in opere che costituiscono un debutto o quasi e che hanno riscosso pesanti e reiterati critiche, tetragona nonostante questo e nonostante gli esiti poco felici all'interno del teatro stesso, che hanno indotto a provvidenziali sostituzioni di titoli continua a proporre quei nomi.
Il dubbio è che dell'opinione del pubblico la dirigenza non tenga punto conto e questo fa parte dell'atteggiamento di sufficienza, dimostrato già con la scelta dei titoli oppure che nei palchi di proscenio si sentano cose assolutamente differenti da quelle riservate alle orecchie di platea palchi e galleria.

Per essere stata ideata da un estimatore dell'avanguardia come Stéphane Lissner, la stagione appare alquanto smunta anche dal punto di vista degli allestimenti. Su quattordici titoli solo tre sono nuove produzioni: il Don Carlo affidato al Regisseur Braunschweig, l'Assassinio nella cattedrale curato da Kokkos e le Convenienze e inconvenienze teatrali dirette dal comico Albanese. Per gli altri titoli si pesca da un serbatoio assai eterogeneo che mescola riproposte scaligere di medio, quando non lungo, corso (Due Foscari, Tristano, Aida, Idomeneo, Viaggio a Reims, quest'ultimo ormai alle sue nozze d'argento con la sala del Piermarini), e allestimenti importati - senza fretta - da altri teatri: l'Affare Makropoulos ronconiano risale alla metà degli anni Novanta, di poco successivi sono gli allestimenti carseniani dell'Alcina e del Sogno di una notte di mezza estate, quest'ultimo già visto in Italia a Ravenna e immortalato su dvd nella ripresa al Liceu di Barcellona, mentre relativamente recente è la Carriera di un libertino di Lepage, vista a Bruxelles. E si taccia dell'Onegin importato da Mosca con il "pacchetto Bolshoi". Insomma, siamo tutti d'accordo che "valorizzare il patrimonio di casa è un dovere e una necessità", come asserisce la pagina web del Teatro, e sarebbe bene che si affermasse anche in Italia l'idea di un teatro di repertorio, ma in questo caso abbiamo una proposta di repertorio timida e zoppicante anche a livello scenico, alternata a "novità" di assai dubbia consistenza.

Lasciamo l'ultima parola sull'annunciata stagione scaligera a una cantante che avrebbe ancora oggi titolo per esibire la propria magia nell'ambito, l'anno prossimo ahinoi così mesto, dei Concerti di canto:



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Maria Callas: basta con la strumentalizzazione!

La RAI ha trasmesso iersera l’ennesimo, inutile evento consumatosi in nome di Maria Callas e del suo, per nulla fondamentale, debutto a Genova nel 1948. In questo anno di noiose, ripetitive e banali celebrazioni di un’artista che mai fu noiosa, ripetitiva e banale nella sua carriera, nemmeno nel declino, non poteva mancare anche l’immancabile concertino di una cantante che ha, soltanto una grecità di passaporto, in comune con la Callas.

Già, perché a ben confrontarle da vicino viene proprio da pensare che nemmeno la professione abbiano alcunchè in comune, o meglio l’idea della professione. Se poi scendiamo a parlar di canto o al modo di costruire i personaggi, di cui la stessa Theodossiou ha indicato come oggetto della sua personale ammirazione per la Callas, allora…apriti o cielo!
Maria Callas non sarebbe MAI andata in scena per un solo istante come la signora Theodossiou.
Per altro il conecertino Theodossiou è una delle facce delle commemorazioni dedicate alla Callas popolate di celebratori, scrittori di biografie, sedicenti amici di una diva morta, ricordiamolo, in solitudine, latori di pettegolezzi, raccoglitori di cimeli e confidenze di una donna la cui finale solitudine è la prova inconfutabile della poca dimestichezza con le confessionie e le confidenze.
La strumentalizzazione è completa, totale e asfissiante. Sopratutto inutile attesoc he non insegna nulla perchè gli insegnamenti della Callas vengono esclusivamente dalle registrazioni, pirata sopratutto.
E tutti costoro, che assai poco di canto sanno parlare, a ben leggerli o ascoltarli, e che continuano ad innalzare un vessillo liso e consumato a monte dai luoghi comuni, non solo ci ridanno un’immagine deformata, esageratamente amplificata della diva, ma la volgarizzano in modo insopportabile, con la chincaglieria d’accatto ed i pettegolezzi trasformati in verità storica, offendendo in realtà la memoria di chi amò certo essere una diva, che costava un milione, ma che nelle sue manifestazioni artistiche dozzinale e comune non fu mai. Delle umane non ci interessa.
E sentire parlare della sua lezione di canto da cantanti, che cantare assai poco sanno ed interpretare meno ancora davvero è desolante.
Non c’è soprano famoso o che tale voglia essere che non si metta in bocca la Callas, che non appaia nei documentarietti autocelebrativi con le biografie sulla Callas in mano! Però oggi non ce n’é una che ne rispetti la lezione di fedeltà assoluta allo spartito, al rigore della preparazione tecnica e musicale, che abbracci la dura via del non barare mai, del non prendere in giro il pubblico, di non scontarsi mai nulla, di cantare solo ciò che è nelle reali possibilità della loro voce. E regolarmente poi, quando l’insuccesso le coglie, la colpa è del vedovile loggione callasiano, ormai centenario, viste l'epoca delle ultime apparizioni della Callas !!!….non di loro stesse, della loro imperizia e presunzione.
Sono certa, anzi voglio così pensare, che la loro fortuna è che sia morta, perché se fosse ancora viva tuonerebbe, come qualche altra diva del passato recentemente scomparsa, e scaccerebbe da sè ogni spacciatore di carabattole callasiane come i mercanti dal tempio ed userebbe parole dure se non durissime e dirette, perché tale era la donna.
Esistono tanti altri cantanti straordinari che han fatto la storia del canto, e sarebbe bene parlarne e farli conoscere al pubblico….giusto per onestà storica e culturale, e anche per non sembrare, oltre che noiosi, ignoranti e privi di fantasia, tanto da ricadere sempre nell’equivalenza arte del canto = Maria Callas. O le major dell’editoria discografica e libraria non conoscono altro dell’opera che Maria Callas?? Alla faccia della noia e della povertà culturale!!
Povera Callas, da artista eccellente ad etichetta posticcia di un vuoto presente, anche lei divorata post mortem …dalla logica del nome!

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martedì 27 maggio 2008

Grandi Sansoni, grandissime Dalile


Eros ha poche volte trovato veste musicale paragonabile a quella creata da Camille Saint-Saëns con il suo Sansone e Dalila. L'autore penò non poco perché l'opera fosse rappresentata e quindi perché giungesse a Parigi, ma lo sforzo fu ripagato da una presenza che doveva essere costante nel repertorio dei maggiori teatri. Soprattutto Sansone e Dalila attesta che la forza sovrumana e il potere della seduzione non hanno, all'opera, nulla che spartire con il naturalismo che simili temi parrebbero automaticamente richiedere.
A volere una Dalila ammaliante prima e sopra tutto sotto il profilo vocale è lo stesso autore che, narrano le cronache, avrebbe in un primo momento pensato nientemeno che a Pauline Viardot. In casa dell'insigne belcantista doveva del resto tenersi, nel corso di una soirée, la prima francese del secondo atto dell'opera, al pianoforte l'autore. E Dalila è certo il perno dell'intera composizione, con ben tre assoli che ne mettono in luce rispettivamente la natura d'incantatrice, la determinazione e la simulata dolcezza. Senza contare i due duetti del secondo atto e l'inno a Dagone, apoteosi della sacerdotessa altera che ha scelto di essere strumento della volontà del suo Dio.
Analogamente, nella parte di Sansone si cercheranno invano pretesti per exploit vocali di tipo eminentemente muscolare: fin dall'entrata il campione di Israele si distingue per un canto sì appassionato e fiero ma anche dolce e sfumato, le parole con cui accende gli animi degli oppressi fratelli sanno più di estasi mistica che di esortazione tribunizia, e ovviamente davanti a Dalila l'eroe vacilla e dapprima trova accenti tronchi e turbati da foschi presagi e poi si abbandona senza remore alla consunzione amorosa. Nella scena della macina risuonano accenti di nuovo scabri e cupi; solo il finale nel tempio legittima - fino a un certo punto - il ricorso a una vocalità più decisa, in nessun caso tuttavia stentorea o declamata nel senso più deteriore del termine. Del resto non è casuale che fino agli anni Trenta i grandi Sansoni, non solo di area francese, fossero spesso grandi Otelli (emblematico il caso di Tamagno, primo Sansone al Met) e Lohengrin e, altrettanto spesso, grandi Werther, Wilhelm Meister, Des Grieux (di Massenet) e Faust. Il primo Sansone all'Opéra di Parigi, Edmond-Alphonse Vergnet, aveva in repertorio Ugonotti e Profeta ma anche il Raimbaut di Roberto il Diavolo e il Leopoldo dell'Ebrea.
Insomma, lo strumento di Dio, per utilizzare un'immagine musicale, è una tromba d'argento, non certo una grancassa o analoga fonte di altri, più rauchi suoni. E la sua antagonista, indipendentemente dal calibro vocale sfoggiato, deve possedere quel pieno dominio tecnico che solo è in grado di assicurare suoni timbrati e omogenei, legato scultoreo e sovrano controllo delle dinamiche. Particolari invero trascurabili, per chi non consideri il Sansone altro che un documentario sulle gesta di una "cattiva femmina".

C. Saint-Säens - Samson et Dalila

Atto I

Arrêtez, ô mes frères - Francesco Tamagno, César Vezzani, René Maison
Printemps qui commence - Marie Delna, Rosa Ponselle, Conchita Supervía, Grace Bumbry

Atto II

Amour, viens aider ma faiblesse - Ebe Stignani, Oralia Domínguez, Ewa Podles
J'ai gravi la montagne - Ezio Pinza & Gertrud Wettergren
C'est toi! C'est toi, mon bien aimé! - Hélène Bouvier & José Luccioni, Grace Bumbry & Richard Tucker, Risë Stevens & Mario Del Monaco
Mon coeur s'ouvre à ta voix - Sigrid Onégin, Ernestine Schumann-Heink, Margarete Klose, Marilyn Horne, Christa Ludwig

Atto III

Vois ma misère, hélas! vois ma détresse! - César Vezzani, Mario Del Monaco
Baccanale - Georges Prêtre
Gloire à Dagon vainqueur! - Ebe Stignani, Antonio Manca-Serra & Ramón Vinay

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domenica 25 maggio 2008

Aureliano in Palmira


Aureliano in Palmira rappresenta una sorta di mito nel catalogo rossiniano.
Mito perché fu l’unica opera che Rossini scrisse per un castrato.
Mito perché è l’unica, salvo invenzioni pesaresi, la cui partitura non sia stata trovata e non si sappia dove si trovi.
Mito perché si racconta che Rossini, stanco delle libertà di Velluti nell’esecuzione avrebbe cominciato a scrivere in extenso le fioriture.

Allora:
E’ vero che fu l’unico titolo con un ruolo per castrato, ma non il solo rossiniano cantato da Velluti, che vestì a Londra i panni dell’altro Arsace, quello di Semiramide. Circostanza questa che smentisce i deliri baroccari circa l’applicazione ai lavori belcantistici dei controtenori, interessatamente dimentichi che i cosiddetti “musici” potevano essere donne o evirati e che gli uni erano a perfetta vicenda degli altri.
E’ vero che lo spartito originale non si è mai trovato, mi domando però, se sia stato cercato, magari tenendo conto che Velluti era un tale mito che Rossini potesse e addirittura avergli donato lo spartito dell’opera. Opera che circolò in Italia sino agli anni trenta dell’800 soprattutto per Velluti e per Carolina Bassi Manna. Anch’essa destinataria di doni dei compositori. Meyerbeer nel suo caso.
E’ vero che la coloratura scritta di Aureliano è un poco più abbondante di quella del Ciro e forse del Tancredi, ma è falso che dopo Aureliano si sarebbe eseguito Rossini così come è scritto. A parte l’annoso problema delle variazioni nei da capo, superato dallo stesso Rossini, autore delle variazioni per il da capo della cabaletta di Romeo Monteccchi, smentiscono l’assunto le cospicue variazioni che Rossini approntò per i propri spartiti (si badi variazioni e non aggiusti, che sono altro) e soprattutto gli inserimenti, pari ad una riscrittura, di cui, ad esempio, fu destinatario il conte Almaviva ad opera del suo stesso creatore Manuel García.
Ciò non di meno Aureliano rimane del catalogo rossiniano un’opera poco rappresentata.
Aureliano, meglio Arsace, non ha trovato, come Tancredi, un’interprete paradigmatica come è stata fu per il guerriero siciliano ai nostri giorni Marilyn Horne. Inutile nascondersi se una cantante della levatura e della popolarità della Horne avesse eseguito la parte di Velluti, l’opera sarebbe stabilmente nei repertori ad onta del problema (pseudo problemi poi, se ragionassimo con l’ottica del tempo di Rossini) dell’edizione critica.
L’opera, rappresentata alla Scala nel dicembre 1813, presenta il solito consueto schieramento delle opere italiane fuori di Napoli ossia un soprano cosiddetto assoluto (che nel caso della Regina Zenobia è molto assoluto, anche questo fa parte dei miti della storia della vocalità per un mi bem toccato all’aria del primo atto, uno dei pochissimi sovracuti espressamente scritti da Rossini) un tenore baritonale e, appunto, il musico.
L’opera al pari delle precedenti e come le future presenta arie, duetti ed il tradizionale grande concertato che chiude il primo atto, mentre il secondo atto chiude con un ridotto pezzo d’assieme, mancando sia l’inventiva del finale ferrarese di Tancredi sia la grande aria acrobatica riservata ad uno dei protagonisti. Non sono in grado, però, di documentare qualche auto od eteroimpresto attuato o da Velluti a da altri interpreti del ruolo di Arsace, la già citata Carolina Bassi Manna ed anche Marietta Marcolini, altro Arsace in più occasioni.
La prova che il prodotto sia di qualità e in nulla inferiore ad altri rossiniiani proviene dall’autore stesso. Rossini era il più conscio giudice di sé stesso e dei propri lavori, espungeva o rifaceva ciò che non riteneva di livello e conservava quello che rispondeva al proprio gusto musicale vocale e drammaturgico. In quest’ottica il passaggio dal Maometto all’Assedio, anche considerata la fase intermedia della versione veneziana è paradigmatico.
Ascoltando l’opera si possono riscontrare una cospicua serie di spunti melodici o numeri(e non abbiamo la pretesa di essere esaustivi nella elencazione) che poi transiteranno in altri lavori rossiniani.
L’opera apre con il coro “sposa del grande Osiride” che diventerà lo spunto musicale per la cavatina “ Ecco ridente in cielo” del Barbiere
Nel successivo duettino “ Se tu m’ami o mia Regina” compaioni evidentessimi preannunci del duetto Ottone Adelaide e Rossini , poi si diletta a richiamare le ornamentazioni della seconda aria di Astrifiammante di cui Lorenza Correa, prima Zenobia, era stata esecutrice sempre nel 1813 alla Scala .
La sezione centrale del duetto fra gli antagonisti Aureliano ed Arsace diventerà, per il debutto napoletano di Rossini la sezione centrale del duetto fra le due rivali Elisabetta e Matilde, il famoso “Non bastan quelle lagrime”.
Quando poi Zenobia si reca al campo di Aureliano è preceduta da coro che aprirà di li a pochi mesi il finale primo di Elisabetta ed i prigionieri vengono introdotti dal coro che aveva introdotto Tancredi moribondo nel finale alternativo di Ferrara.
E nel finale primo i personaggi attaccano nelal ezioen centrale un tema che Rossini aveva utilizzato a Milano per il finale primo della Pietra allorchè i personaggi del capolavoro comico intonano “Di paragon la pietra”.
Il duetto del secondo atto fra Zenobia ed il prigioniero Arsace è introdotto dalla turbinosa e molto beethoveniana melodia che accompagna Norfolk nel secondo atto di Elisabetta, mentre la successiva stretta quando il duetto diviene terzetto per l’arrivo di Aureliano, passerà nel Turco in Italia.
Oltre al tradizionale schieramento vocale che nasceva dalla normale disponibilità nei teatri, oltre ag cospicue anticipazioni dei lavori successivi nell’Aureliano ci sono tutti i topos del melodramma tradizionale italiano a partire dai duetti d’amore fra soprano e contralto i cui timbri assolutamente astratti (ed asessuati e non si facciano ironie sulle operazioni chirurgiche subite dal Velluti) dove gli amanti, infelici come ancredi ed Amenaide piuttosto che Bianca e Falliero, esprimono i loro melanconici ed infelici amori , soprattutto negli andanti.

Anzi la presenza di Velluti e la sua conclamata capacità nel canto elegaco indussero Rossini ed il librettista a ben tre duetti fra gli innamorati.
Anche le due arie di Arsace “Chi sa dirmi” e “ Perché mai le luci aprimmo” rispondono alla capacità del musico di eseguire le melodie malinconiche e sognanti che, a giudizio di Stendhal, grande fautore del primo Rossini, erano la vera grandezza del maestro, prima che, complice Isabella Colbran, prediligesse il canto fiorito.
Anche questa opinione deve essere presa con le debite proporzioni perché è certo che la scrittura del maestro rappresentava per Velluti il canovaccio su cui lavorare per manifestare la propria arte.
Un dato, però, va segnalato il Rondò di Arsace “ No non posso” che altri non è che la sezione conclusiva dell’allegro di Elisabetta, ovvero di Rosina, non sarebbe coevo alla prima rappresentazione, opera di Pietro Romani. Pare strano che una scena complessa come quella di Arsace fuggitivo ( assolutamente identica come topos a quelal di Tancredi ramingo sui monti al finale secondo dell’omonima opera) non prevedesse una sezione in tempo veloce e fiorito sin dalla prima rappresentazione. Un altro mistero o un altro piccolo enigma per un’opera che ne porta con sé parecchi.
Dicevamo pochissime le rappresentazioni di Aureliano nei tempi moderni.
Quella del 1980 al Politeama Genovese, auspice l’opera Giocosa, presentava in primo cast Luciana Serra, allora da un paio d’anni soprano leggero in assoluta auge e restauratrice di quella tipologia vocale. Tipologia vocale che possiamo dirlo oggi dopo quasi trent’anni si è presa rivincite e soddisfazioni alcune delle quali poco giustificate sotto il profilo storico. La vocalità brillante della Serra fece faville. Si potrà censurare il timbro , la propensione ad inserire ornamenti che non sono tipicamente rossiniani, anche qui con il dubbio di che cosa sia tipicamente rossiniano nei prii lavori di Rossini, ma l’esecuzione dei passi elegiaci, segnatamente dei duetti con Arsace (Helga Müller dalla voce non certo “ a fuoco”) era cospicua e stupisce che nessun teatro abbia pensato alla Serra per altri ruoli di soprano assoluto rossiniano, limitandola alle prime donne buffe. Una sola attenuante, la concorrenza di altri soprani . Il secondo cast schierava invece nel ruolo di Arsace Martine Dupuy, giovanissima e reduce da uno dei più importanti successi il Romeo Montecchi a Martina Franca. La Dupuy non ripetè più in scena Arsace, eseguì invece in concerto le arie, che già nel 1980 mettevano in risalto eleganza, morbidezza di emissione e negli abbellimenti trilli di ogni genere ed estensione notevolissima, in buona sostanza la più attendibile ricostruzione e riproposizione della vocalità sempre aulica e sempre morbida delle prime donne rossiniane. Isabella Colbran, Marietta Alboni e Giulia Grisi, in primis.
Per contro l’ascoltatore percepirà anche la media, molto inferiore all’attuale delle orchestre di allora e soprattutto che la svolta americana della grande vocalità maschile applicata a Rossini era ancora di là da venire.

Gli ascolti

Atto I

Se tu m'ami, o mia Regina - Helga Müller-Molinari & Luciana Serra
Torna oh Prence - Paolo Barbacini & Martine Dupuy
Là pugnai: la sorte arrise - Luciana Serra
Chi sa dirmi, o mia speranza - Martine Dupuy
Va', m'abbandona, e serba - Martine Dupuy & Maria Luisa Cioni-Leoni

Atto II

Perché mai le luci aprimmo - Martine Dupuy
Mille sospiri e lagrime - Maria Luisa Cioni-Leoni, Martine Dupuy & Paolo Barbacini

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sabato 24 maggio 2008

I Lombardi fanno tappa (e capolinea) a Napoli

La locandina (recita del 20 maggio):

Orchestra e coro del Teatro di San Carlo
Direttore - Piergiorgio Morandi
Regia - Giancarlo Cobelli

Arvino - Tito Beltran
Pagano - Ruggero Raimondi
Viclinda - Maria Cioppi
Giselda - Dimitra Theodossiou
Oronte - Fabio Sartori
Sofia - Adelina Scarabelli

Una nube di mestizia avvolge la produzione di Lombardi in scena in questi giorni al San Carlo di Napoli. Curioso che uno dei titoli più vibranti del primo Verdi sortisca effetto tanto narcotico. Da più parti sentiamo additare quale responsabile della diffusa letargia il direttore d'orchestra Morandi, che in effetti ha palesi difficoltà non solo e non tanto a trovare il "colore" del melodramma ottocentesco di sapore patriottardo, ma, più banalmente, a tenere il tempo e a far procedere insieme orchestra e cantanti. Ma di non minore importanza appare il contributo di solisti di canto che poca o punta idea sembrano possedere delle richieste avanzate dalla scrittura verdiana, per tacere dell'accento e dell'interpretazione.

Andiamo con ordine. Fin dal suo ingresso il coro, che tanta parte ha in questo lavoro, dà una prova di livello poco professionale: a parte le frequenti stonature, domina la scena un senso generale di confusione e scarsa precisione, che sfocia in pesanti fuori tempo già nella stretta dell'introduzione. E tacciamo del gusto rocaille con cui vengono affrontati gli spumeggianti ritmi verdiani, tanto che spesso si ha l'impressione di assistere ai Lombardi a Marechiare, opera minore di Piccinni o Cimarosa. E l'orchestra riesce ad essere "fracassona" pur con striminzite sonorità. Un autentico virtuosismo!

Ruggero Raimondi, subentrato nel ruolo di Pagano all'annunciato e "forfettato" Erwin Schrott, non è, in fondo, peggiorato rispetto all'edizione romana con la Scotto e Pavarotti di quasi quarant'anni fa: il cantare ingolato e il personalissimo concetto di intonazione sono gli stessi. C'è da dire che la voce, sempre importante, si è fatta, però, rauca, soffocata. La solennità dell'Eremita guida spirituale e militare dei lombardi e prerogativa del basso in Verdi latitano. Forse latiterebbe anche il rispetto delle prescrizioni dinamiche ed agogiche di Falstaff.

Stella dello show, manco a dirlo, è la Giselda di Dimitra Theodossiou. Fattasi annunciare indisposta prima dello spettacolo, la signora esibisce una vocina stenta, tanto intubata da apparire quasi mezzosopranile nel timbro. E' il risultato di una lunga pratica del Verdi " da battaglia", del Donizetti più tragico senza il supporto tecnico, con un mezzo da lirico e con velleità e gusto interpretativi da soprano anni trenta. Attualmente per arrivare in fondo la linea di canto, più sorvegliata rispetto ai recenti cimenti donizettiani, è applicata a un filo di suono, che non di rado si spezza e sale con udibile sforzo ad acuti che assomigliano molto a strilletti. Si ha insomma l'impressione di una cantante che accenna, e dopo le afonie e i suoni calanti delle due preghiere si lancia nella grande invettiva che chiude il secondo atto senza la generosità e la follia che avevamo imparato a riconoscere come sua cifra caratteristica. O meglio: la signora urla come sempre, solo che questa volta lo fa senza voce. Ma la serata è ancora lunga e Dimitra ha tutto il tempo di perdere quel che resta dello slavato registro grave, prima di regalarci una cabaletta della visione (senza da capo) che rende il personaggio una parente stretta di Adina. O forse Giselda è una parte da soprano leggero e nessuno se n'è mai accorto?

Non va meglio con i tenori. Sartori, che pure è l'elemento più professionale e musicale in campo, è assai grezzo: "ingrossa" artificialmente la voce, nell'aria del secondo atto singhiozza copiosamente e non trova in alcun punto l'accento e i colori del principe orientale. Peggio Tito Beltran, costantemente impiccato in acuto: il do annunciato nell'intervista radiofonica come "passionale" è il rantolo di un infante maligno. Fra i comprimari fa tenerezza ritrovare Adelina Scarabelli che, pur assai malconcia, ha una linea di canto più ortodossa di quella della protagonista femminile. Non possiamo dire lo stesso della Viclinda, degna madre di tanta figlia.

E a commento di una serata a dir poco incredibile, riascoltiamo una Giselda che fu, a suo tempo, generosamente e giustamente censurata e che oggi, crediamo, non si limiterebbe a passare indenne, ma otterrebbe un buon successo, se non un trionfo... non fosse che per la voce, più salda e a fuoco di quella della Theodossiou.

G. Verdi - I Lombardi alla Prima Crociata

Atto II - No!... Giusta causa - Elizabeth Connell

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lunedì 19 maggio 2008

I Lombardi alla prima crociata

I Lombardi alla prima crociata dovevano essere l’opera della conferma, quando andarono in scena l’11 febbraio 1843 alla Scala, conferma che Verdi non fosse una meteora, ma un solido musicista, l’erede della tradizione italiana.
E’ compito della critica togata definire il valore dell’opera, degli esecutori di ogni epoca rendere il miglior e più completo servizio all’autore, eseguendo l’opera con il rispetto della non facile scrittura vocale.

Soprattutto con riferimento a Giselda, il ruolo protagonistico che Verdi predispose per una delle dive più famose dell’epoca: Erminia Frezzolini, prima esecutrice di Lombardi e Giovanna d’Arco. A sentire Gino Monaldi nel suo “Cantanti celebri” il merito del successo della prima rappresentazione dei Lombardi fu più del maestro, quello di Giovanna d’Arco dell’avvenente prima donna.
Leggere le parole che Monaldi dedica alla prima donna ricorda quel che antecedentemente Stendhal dedicò a Giuditta Pasta. Soprattutto la descrizione di Erminia Frezzolini protagonista di Beatrice di Tenda nel 1841, ossia alla vigilia della sua interpretazione dei Lombardi, rende comprensibile perché Verdi nel ruolo di Giselda toccò tante corde espressive e vocali per la protagonista. Elegiaca nelle due arie, vibrante nella grande scena che chiude il secondo atto (a nessuna primadonna Verdi riserverà una scena di così elevato tasso virtuosistico, tanto è che il rondò “No giusta causa” venne anche riciclato nell’Ernani), insurrezionale e patriottarda nella sezione conclusiva della polacca “Non fu sogno”.
Insomma un personaggio poliedrico e sfaccettato, come tutti quelli riservati alle primedonne più famose e più complete dell’epoca, celebri sia come esecutrici che come interpreti.
Certo conta anche il mutamento del gusto, l’avvento della vocalità del tardo Verdi e del Verismo ebbero la loro rilevanza nella sparizione, o quasi, dei Lombardi dai palcoscenici dopo il 1870, ma non può definirsi estranea, anzi, rilevante la difficoltà di reperire soprattutto la protagonista femminile in una parte dove non bastavano il vigore, “il fuoco” e tutte le preclare qualità delle primedonne fra il 1900 ed il 1950, a differenza di quello che accadeva con titoli di identica scrittura vocale come Norma, Abigaille.
Chi sente le registrazioni di Bianca Scacciati, Giselda nel 1930 anche in Scala e che registrò il terzetto finale capisce bene i motivi che sconsigliavano, al di là di gusto ed estetica correnti, una ripresa dei Lombardi.
Anche le esecuzioni discografiche esemplari per qualità vocale, rispetto delle indicazioni dinamiche dell’autore di Giannina Arangi Lombardi e di Elisabeth Rethberg non riportano i grandi passi di agilità, che connotano il ruolo. Certo che è falso quanto sostenuto, anni or sono, da Sergio Segalini, che parlò di mancanza di accento verdiano con riferimento all’esecuzione della Rethberg, la quale, invece, è elegante, precisa nell’esecuzione, pur con il vigore e lo slancio che connotano la cantante verdiana.
Eppure proprio in quegli anni vi era disponibilità di esecutori, che nel dopo guerra, con poche eccezioni (Bergonzi e Pavarotti) non sarebbero stati disponibili, che avrebbero potuto affrontare Oronte o Pagano. La registrazione del terzetto, l’unico brano ripetutamente registrato anche ai primordi della registrazione comprova le qualità di esecutori del primo Verdi di de Angelis o di Pinza, per non dire di Léon Escalais e Lauri Volpi (pure non più giovanissimo), che esemplificano l’accento aulico del più autentico tenore verdiano anche in un personaggio, Oronte, più elegiaco che eroico, ma pur sempre verdiano e di ascendenza donizettiana.

Atto I

Sciagurata! Hai tu creduto - Samuel Ramey, Ruggero Raimondi
Salve, Maria - Giannina Arangi Lombardi, Renata Scotto

Atto II

La mia letizia infondere - Carlo Bergonzi, Luciano Pavarotti, Léon Escalais, Franco Corelli, Giacomo Lauri Volpi
Oh madre, dal cielo - Giannina Arangi Lombardi, Sylvia Sass
No!... Giusta causa - Aprile Millo, Christine Deutekom, Ghena Dimitrova

Atto III

Dove sola m'inoltro? - Aprile Millo & Carlo Bergonzi
Qual voluttà trascorrere - Elisabeth Rethberg, Beniamino Gigli & Ezio Pinza, Renata Scotto, Luciano Pavarotti & Ruggero Raimondi, June Anderson, Carlo Bergonzi & Ferruccio Furlanetto, Frances Alda, Enrico Caruso & Marcel Journet, Vivian Della Chiesa, Jan Peerce & Nicola Moscona

Atto IV

Non fu sogno! - Christine Deutekom

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sabato 17 maggio 2008

50.000!!!!!!.....un concertone per festeggiare.



Prendendo a modello i grandi galà onorifici del Met, eccovi qui un CONCERTONE per festeggiare questo blog ed i suoi utenti affezionati.

Musica "deteriore" o poco impegnata o per nulla "culturale".......ecco il tema controcorrente su cui verte il programma scelto, a ri-provare che i grandi artisti, con il loro tocco magico sanno sollevare alle vette più alte dell'arte ogni pagina di musica. Perchè, a dirla con il vecchio Boito

Dal labbro il canto estasïato vola
Pe' silenzi notturni e va lontano
E alfin ritrova un altro labbro umano
Che gli risponde colla sua parola:
Allor la nota che non è più sola
Vibra di gioia in un accordo arcano
E innamorando l'aer antelucano
Con altra voce al suo fonte rivola.
Quivi ripiglia suon, ma la sua cura
Tende sempre ad unir chi lo disuna.
Così baciai la disïata bocca!
Bocca baciata non perde ventura,
Anzi rinnova come fa la luna.
Ma il canto muor nel bacio che lo tocca.


Grazie ancora e buon divertimento !


Maria Callas – Variazioni di Proch
Enrico Caruso – Santa Lucia; La campana di San Giusto
Beniamino Gigli – Mamma
Aureliano Pertile – Lolita
Tito Schipa – La cumparsita; Amapola
Gianna Pederzini – Lili Marlene
Ebe Stignani – La serenata
Magda Olivero – Il segreto; Il sogno; Mattinata
Amelita Galli-Curci – Parla; Les filles de Cadix
Luisa Tetrazzini – Las hijas del Zebedeo
Renata Scotto – Ne ornerà la bruna chioma
Claudia Muzio – O del mio amato ben
Adelina Patti – Pur dicesti o bocca bella
Ezio Pinza – L'ultima canzone; Deep River
Mattia Battistini - Integrale tostiana: Amour, amour; Ancora; Ideale; Malia; Non m'ama più; La serenata
Giuseppe Danise – Torna a Surriento; L'ultima canzone
Giacomo Lauri-Volpi – Andalusia
Renata Tebaldi - Non ti scordar di me
Leyla Gencer - La Sultana; La gita in gondola
Riccardo Stracciari - Ideale

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venerdì 16 maggio 2008

Oh vera delizia dei mortali! La Clemenza di Tito

Il giudizio di Maria Luisa di Borbone, sposa di Leopoldo II, sulla Clemenza di Tito eseguita per l'incoronazione del marito a Re di Boemia è tanto celebre che non avrebbe neppure bisogno di essere menzionato. Eppure quella sprezzante definizione di "porcheria tedesca in lingua italiana" esprime bene il carattere ibrido e di assoluta novità dell'ultima opera seria di Mozart.

La Clemenza, libretto metastasiano per eccellenza (prima di Mozart fu musicato, fra i molti altri, da Hasse e Gluck), viene "sventrata" dal poeta di corte dell'Elettore sassone, Caterino Mazzolà, il quale, annota lo stesso Mozart sul catalogo delle sue opere, la trasforma in "vera opera" eliminando in sostanza tutto il secondo atto (con la peripezia dello scambio di manti fra Sesto e Annio, ritenuto per questo responsabile della congiura fino alla confessione di Lentulo) e trasformando molte arie solistiche in pezzi d'assieme (la revisione forse più celebre è quella che riguarda l'aria di Sesto "Se mai senti spirarti sul volto", mutata nel terzetto "Se al volto mai ti senti" in cui si affiancano allo sventurato quasi-regicida le voci di Vitellia e Publio). Alcune arie vengono cassate, altre ampliate (ad esempio l'ultima aria di Sesto). Ed è su questo testo insieme antico e nuovo che s'innesta una musica in eguale misura vecchia e innovativa.

Non è strano che all'Imperatrice, figlia di Carlo III, nata e cresciuta a Napoli, la musica di Mozart apparisse un curioso ibrido fra la "cantilena" di scuola italiana (quella che Stendhal avrebbe rintracciato nelle opere del giovane Rossini, riconoscendola come eredità del "soave melodiare" di Paisiello e Cimarosa), la maestosità haendeliana degli intermezzi e dei cori, il virtuosismo "strumentale" di pagine come il rondò finale di Vitellia e la brevità ardita e violenta del finale primo, chiuso in pianissimo come il finale primo del Fidelio.

Più tradizionale appare la distribuzione delle parti vocali e il loro rispettivo peso nella composizione: quella dell'Imperatore, che pure è "doppio" in scena del committente in sala, è una parte drammaticamente e musicalmente marginale rispetto ai "villain" Vitellia (primadonna soprano) e Sesto (primo uomo, e oggi eventualmente altra primadonna soprano).
E non c'è da stupirsi, visto che il primo Tito, Antonio Baglioni, fu anche il primo Don Ottavio, mentre gli antagonisti del clementissimo prence furono Maria Marchetti-Fantozzi e il castrato Domenico Bedini. Baglioni non doveva essere un grande virtuoso (le sue arie nel Don Giovanni, per quanto ispirate, non presentano un quarto delle difficoltà tecniche richieste a un cantante per giunta anziano come Anton Raaff, primo Idomeneo), tanto che nello stesso 1791, in occasione di una ripresa del Così fan tutte, ebbe serie difficoltà con le arie di Ferrando, guadagnandosi da parte del biografo mozartiano Franz Niemetschek l'appellativo di "mezzo basso".

La Marchetti-Fantozzi, di contro, si mise in discreta luce anche alla Scala tra la fine degli anni '80 e i primi '90, affrontando opere come l'Ifigenia in Aulide di Cherubini e l'Olimpiade di Cimarosa. Basterebbero questi titoli a darci l'idea di una voce estesa in acuto ma anche in grado di scendere con disinvoltura e di non soccombere di fronte al canto tanto fiorito quanto declamato. E se non bastassero i titoli, abbiamo la partitura mozartiana a testimoniare la valentia della signora.

Quanto a Domenico Bedini, cantore della Cappella lauretana, era rinomato per i fiati lunghi, e Mozart, riscrivendo per lui la parte di Sesto inizialmente concepita per tenore, trovò il modo di sfruttare questa caratteristica particolarmente nei due grandi rondò e nel terzetto "Se al volto mai ti senti". Ovvio che al castrato Mozart non richiedesse tanto il virtuosismo (che pure non manca) quanto l'accentuazione della corda patetica, che si ritrova in tutti i personaggi concepiti dal Salisburgese per cantanti evirati, dal Sifare del Mitridate al Cecilio del Lucio Silla, al vertice di Idamante.

Ma sarebbe ingiusto non citare anche il quarto grande interprete coinvolto nella prima, il clarinettista Anton Stadler, amico di Mozart e destinatario del Quintetto eponimo KV 581, nonché del Concerto KV 622. A Stadler, che nell'orchestra di Praga suonava il clarinetto e il corno di bassetto, Mozart pensa al momento di stendere i due grandi rondò con strumento obbligato, collocati poco prima dei finali d'atto: "Parto, ma tu ben mio" (in cui la voce di Sesto dialoga con il clarinetto) e "Non più di fiori" (in cui al canto di Vitellia si affianca quello del corno di bassetto). Tito non solo non ha arie concertanti, ma canta assoli "col da capo", che seguono lo schema canonico dell'aria da opera seria, mentre le arie di Vitellia e Sesto sono in due sezioni (Adagio - Allegro) e prefigurano la successione ottocentesca cantabile-cabaletta. C'è insomma nelle parti di Vitellia e Sesto un trattamento da un lato più virtuosistico e dall'altro maggiormente aperto al futuro. E' vero che a Tito spettano anche il breve e delizioso arioso con coro "Ah no, sventurato" e ben due recitativi accompagnati (al momento in cui ha prova definitiva della colpevolezza di Sesto e subito prima del finale II), ma su Sesto grava l'intero finale primo, aperto da una Scena a piena orchestra di alto impatto drammatico, mentre Vitellia conclude di fatto l'opera con un Rondò preceduto dal recitativo obbligato e unito senza soluzione di continuità al coro che apre l'ultima scena.

Può essere interessante ricordare che, quando l'opera fu presentata alla Scala nel 1818, la parte di Vitellia era sostenuta da Francesca Festa Maffei, "specialista" delle eroine di Mozart (sempre a Milano aveva cantato Fiordiligi e Donna Anna) ma anche prima Fiorilla nel Turco in Italia rossiniano. E il Rondò finale di Fiorilla, "Squallida veste e bruna", presenta più di un'analogia, formale, contenutistica e di collocazione nel corpo dell'opera, con la grande scena di Vitellia. Accanto alla Festa Maffei si esibirono Violante Camporesi (che l'anno dopo sarebbe stata la prima Bianca nel Bianca e Falliero: facile immaginare generosi trasporti) e il baritenore Gaetano Crivelli.

Se il ruolo tenorile risulta molto meno oneroso di quelli che spettano alle voci femminili, tutte le parti (anche quelle che si elevano poco al di sopra del comprimariato) esigono perfetta rotondità di emissione, canto sul fiato, estrema mobidezza, espressione nobile e composta onde poter adeguatamente figurare in questo dramma di carne e sangue ma anche di concetti e "ragionamenti", apogeo ed epitaffio di un'epoca irripetibile.

Atto I

Deh, se piacer mi vuoi - Christine Deutekom, Carol Vaness
Del più sublime soglio - Dano Raffanti
Parto, ma tu ben mio - Ernestine Schumann-Heink, Teresa Berganza, Christa Ludwig
Vengo... Aspettate... Sesto! - Carol Vaness, Susan Graham & Mark S. Doss
Finale I - Martine Dupuy, Susanna Anselmi, Adelina Scarabelli, Natale de Carolis & Mariana Nicolesco

Atto II

Se al volto mai ti senti - Tatiana Troyanos, Carol Vaness & Mark S. Doss
Deh per questo istante solo - Martine Dupuy, Teresa Berganza, Christa Ludwig
Se all'Impero, amici Dèi - Rockwell Blake
S'altro che lagrime - Giulietta Simionato
Non più di fiori - Joan Sutherland, Christine Deutekom, Renata Scotto, Carol Vaness

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mercoledì 14 maggio 2008

Le interviste: Shalva Mukeria

Fedeli all'impegno preso ed alle finalità che ci siamo dati con questa nostra infrequente rubrica, siamo riusciti finalmente ad incontrare Shalva Mukeria a Genova. Il tenore georgiano è fra i pochi giovani artisti che ci abbiano favorevolmente impressionato. Come potrete rendervi conto da voi, le sue parole sono state poche, prive di vanità e misuratissime, ma assai significative. Ci è parso un grande professionista che dà il giusto peso a ciò che più che conta nel suo mestiere, ossia la qualità del canto, inteso e praticato secondo le vecchie regole, quelle della grande tradizione tenorile romantica.


DD Lo studio del canto, come mai?
SM Ho studiato il canto per 12 anni. Oggi non si studia più così tanto. Lo studio del canto richiede pazienza. Ho cominciato a studiare ad Odessa, poi in Spagna, ma con un maestro georgiano che vive lì da 20 anni.

DD Poi lei era uno strumentista, se non sbaglio?
SM si un clarinettista. Lo strumento a fiato aiuta moltissimo per il sostegno della voce. (Nel parlare SM fa il gesto significativo del sostegno). Per collegare pancia e gola.

DD Ci sono stati dei modelli di cantanti?
SM Prima di tutto Pavarotti e Kraus. Però è impossibile prendere da uno solo. Impari da tutti. Da Kraus che fu per tutta la carriera molto “stabile” tecnicamente. Poi dai grandi come Schipa, Gigli, Lauri-Volpi, che affrontarono il repertorio più pesante dopo i trentacinque anni.

DD Fra gli ascolti ci sono anche i grandi tenori russi?
SM Si, ma non tanto, Lemeshev e certo Kozlowsky, sotto il profilo tecnico un grandissimo.

DD Smirnov, Sobinoff?
SM Sì, Smirnov.

GG Talvolta il suo timbro richiama quello dolce e giovanile di questi tenori, soprattutto con Edgardo.
SM Edgardo è il mio personaggio; soprattutto nel finale ho pensato molto prima se fosse il caso di farlo a voce più piena, poi, ho pensato che stava morendo e quindi l’espressione doveva essere quella, dolce e cantare piano e pianissimo
AT Infatti tutti hanno trovato splendido il finale, devo, però dire che il momento più emozionante è stata la maledizione al finale secondo.

DD E il repertorio?
SM Altre opere di Donizetti sicuramente, ho preparato a Vienna il Fernando di Favorita nella versione francese. Spero di poterlo fare presto. Poi il repertorio francese, Werther e soprattutto Des Grieux di Manon. Un sogno. Come un sogno era debuttare Arturo dei Puritani. Per Manon devo lavorare ancora. Kraus diceva che ci voleva un anno per una parte. A proposito di Manon devo dire che Schipa è stato un grandissimo tenore, unico.

DD Fra l’altro la voce in teatro era amplissima e grande. Cantava con partners come la Ponselle.
SM Questo è proprio un fatto di tecnica, con la tecnica può bastare una voce piccola, ma se il suono è alto si sente sempre. Questo è poi il segreto della scuola italiana di canto: la proiezione della voce.

DD Anche Edita Gruberova canta con questa tecnica, come è stato cantare con la Gruberova?
SM Bellissimo fare i Puritani, una grande primadonna. Ha una energia, una grande resistenza.

DD Sempre parlando di repertorio e Rossini?
SM Rossini e soprattutto il canto di agilità. Quelle di Rossini cioè quelle di forza non mi vengono sempre bene. Forse dovevo studiarle di più gli anni passati. Adesso potrebbe essere tardi. Però faccio lo Stabat e, soprattutto fra due anni Arnoldo del Tell. Parte difficilissima.

DD Un cantante con le sue cognizioni tecniche quanto tempo dedica alla tecnica?
SM Ancora tanto. Comincio alla mattina presto, alle otto o alle nove, un’ora di tecnica. Poi nel pomeriggio studio l’opera e mi preparo. Questo tutti i giorni salvo la domenica. Domenica è festa. Se ho recita la mattina venti minuti mezz’ora sempre di studio, poi ancora nel pomeriggio.
Però il mattino è il mattino. Al mattino arrivano “informazioni dall’alto”.

DD E quando prepara un ruolo?
SM Non credo si debba esagerare con la tecnica, ossia fermarsi sul solo dato tecnico. La tecnica è, poi, lo strumento per fare musica. Quanto il ruolo è tecnicamente imparato ed a posto arriva la musica ad aiutarti a preparare il ruolo.

DD Il ruolo nel tempo cambia?
SM Non cambia del tutto, ma devi essere pronto a cambiare al momento sul palcoscenico, certo entro i limiti del personaggio non penso si possa essere assolutamente identici tutte le sere e tutte le volte che si riprende un personaggio.

DD L’anno scorso c’è stato il debutto in Scala con Figlia del reggimento. Che ci racconta di questa esperienza?
SM La storia è molto semplice. Mi avevano sentito a Vienna, mi hanno chiesto un’audizione in Scala e mi hanno preso.

DD Certo, ma era emozionato, spaventato all’ingresso in scena?
SM Emozionato, contento al tempo stesso, ma ero ottimista sull’esito, mi sentivo pronto e preparato. Sicuramente quello che provavo era una serie di sentimenti.

GG Ha mai provato ad emettere gli estremi acuti utilizzando il falsettone, tipo Merritt o Gigli?
SM no non ho mai provato. Devo dire che lo sforzo maggiore nello studio è avere sempre il giusto sostegno per poter cantare piano e pianissimo. La scuola italiana parla di gola libera e fa sempre l’esempio della tecnica dello sbadiglio per garantire il controllo tecnico costante e sicuro. La cosa difficile è imparare a sentire la tua voce ovvero non basta mettere la bocca in un certo modo, ma associare alla posizione il suono giusto, sentire che il suono che emetti va bene. E un problema di tempo, di provare e riprovare. Infatti come ho detto prima non si può studiare due o tre anni, ma dieci anni..

DD Il problema dell’insegnante: dove arriva l’insegnante e dove, invece, è l’allievo?
SM Nei primi due o tre anni l’insegnante è essenziale. Poi spesso devi cercare l’insegnante. L’insegnante valido per me può non essere valido per un’altra persona. In realtà l’allievo deve conoscere l’insegnante e sapere che cosa l’insegnante può dare e cosa, invece, non può dare.
Servono molto anche i trattati di canto. Non bastano per imparare a cantare, ma sono un controllo ed una conferma di quello che fai. Spesso leggendo hai la prova di certe impressioni di certe cose che fai, ma che non sapevi spiegarti. E poi, naturalmente, il lavoro quotidiano di studio.

DD L’esercizio, vero, in fondo il cantante è un po’ artista ed un po’ atleta.
SM Vero per il controllo del fiato lo sport è utilissimo. Il nuoto soprattutto, ma anche il tennis.

DD Ritornando ai ruoli, ha mai pensato al Pirata?
SM No, è una parte difficilissima acutissima. Più dei Puritani. Arturo dei Puritani, però richiede, una maggiore ampiezza ed energia del Pirata.
A parte Favorita e Des Grieux, sto guardando Boheme, voglio provare. E’ una prova, un po’ come nello sport che si aumenta giorno per giorno. Sono fatalista, i ruoli spesso arrivano al momento giusto.

DD Se pensa a Rodolfo di Boheme, perché non il Cavaradossi di Tosca, lo hanno fatto anche tenori come Kraus e Schipa.
SM Per il momento è presto, non mi sento pronto. Devo aspettare. E poi chi può pensare di superare Corelli nel “Vittoria Vittoria”?

DD Non mi sembra il caso di preoccuparsi oggi di tenori che squillano non ne esistono più !!! A parte gli scherzi, domanda rituale, che impegni la aspettano?
SM Ancora Sonnambula nei prossimi giorni a Salerno con Annick Massis, poi Rigoletto in Spagna, Puritani a Palermo ed in Francia. E poi, nel futuro Guglielmo Tell.

DD Per questo incrociamo le dita.

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lunedì 12 maggio 2008

Edita Gruberova in concerto alla Scala

L'ultima volta di Edita Gruberova alla Scala fu circa una decina d'anni fa, nella Linda di Chamounix. Una lunga assenza dal più grande teatro italiano, che ha accolto l'ingresso sul palco della grande diva di Bratislava con una lunghissima ovazione di affetto e stima per questa cantante straordinaria, un vero gigante del canto.
Questo post è di nuovo profondamente passatista, e la Scala di questa sera lo è stata tanto quanto il nostro Corriere nell'omaggiarla con un grande trionfo.

Ha cancellato subito ogni dubbio sulla danneggiata acustica della Scala post restauro, mettendo la voce al centro della sala già al primo lied di Schubert. Solo chi canta con modi e mezzi di alta scuola, quella di tradizione ottocentesca, può far correre la voce come Edita Gruberova questa sera, sonora anche e soprattutto nei pianissimi che hanno caratterizzato pezzi come Nacht und Traume o Im Abendrot, e fare arrivare fino lassù in alto, al lampadario, le mille sfumature, anche quelle minime, con cui ha gestito il salotto, francamente di per sé non molto vario, di Schubert. Dai pezzi di mezzo carattere come A Silvia, sino all’intensissima scena della Margherita di Goethe o al bellissimo lied con il clarinetto Der Hirt auf dem Felsen( bravissimo Meloni) la Gruberova ha percorso tutte le strade possibili, a lei, devo dire, molto congeniali, per dar senso alla musica: chiunque si sarebbe lentamente appannato nella tessitura centrale, perdendo lo smalto dei suoni in piano e pianissimo, che l’artista ha invece sorretto con una saldezza impressionante, con una freschezza timbrica che nessun soprano over sessanta ha mai esibito.
Tutto è arrivato facile, anche al secondo tempo, prima con Dvorak, molto più vario come testo, e poi con le suggestioni straussiane ( intensissimo e struggente Allerseelen ), perché il centro della voce è fermo, di suono cristallino e proiettatissimo, anche se in Strauss qualche nota è risultata stonata nella zona del passaggio, dove il grande soprano da sempre ricorre a portamenti e messe di voce. E questi, forse, sono gli elementi specifici e costanti del gusto della Gruberova, che da sempre, sin dalle sue prime apparizioni, ne ha fatto le sue modalità espressive. Su questo terreno la Gruberova appartiene alla tradizione del canto di gusto tedesco, non certo a quello italiano: si avvicina ai modelli delle Berger o delle Korjus e non a quello delle Kurz o delle Hempel, o, più recentemente, delle Sutherland. L’esecuzione dell’ultimo bis, il finale di Beatrice di Tenda, in particolare “Ah se un’urna è a me concessa”, è stata la prova della distanza, forse anche intellettuale, che corre tra questa artista e l’estetica del puro belcanto italiano. Potrebbe essere una battuta, ma le Alpi sono, per il gusto e l’estetica della grandissima Gruberova un ostacolo insormontabile. Del resto il belcantista di scuola italiana ha altre e diverse prerogative e modalità espressive, la grande coloratura di forza in primis ( ripenso, per confronto al finale di Pirata di June Anderson pochi giorni or sono) fatta soprattutto di terzine, quartine e volate piuttosto che di picchettati e staccati. Fantastici e italianissimi, invece, i trilli, che sono volati nitidissimi nella sala.
E’ stato un grande successo, anzi un trionfo, e non solo per stima di una carriera, ma proprio per il risultato artistico ottenuto. ….solo 3 bis, purtroppo.
Questo blog è stato felicissimo del concerto di questa altra “inossidabile sempreverde”, per il canto, l’intelligenza nella scelta del programma e.....la stupefacente freschezza vocale.



Franz Schubert
Geheimes D 719
Nacht und Träume D 827
Im Abendrot D 799
Der Jüngling an der Quelle D 300
Der Fluss D 693
Im Haine D 738

Franz Schubert
Suleika I D 720
Lied der Mignon D 877 n. 3
An Sylvia D 891
Gretchen am Spinnrade D 118

Franz Schubert
Der Hirt auf dem Felsen D 965
per soprano, clarinetto e pianoforte
Fabrizio Meloni, clarinetto

Antonín Dvořák
Písně milostné (Canti d’amore) op. 83

Richard Strauss
Die Nacht op. 10 n. 3
Allerseelen op. 10 n. 8
In goldner Fülle op. 49 n. 2
Zueignung op.10 n. 1


Pianista F.Haider

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sabato 10 maggio 2008

Leyla Gencer: divina e antidiva

Non è stata una notizia del tutto inattesa quella della scomparsa di Leyla Gencer, avvenuta questa notte a Milano.
Scontato ripercorrere una carriera durata trent’anni con grande, grandissimo amore del suo pubblico, trionfi in ogni teatro, anche quanto la relegavano al terzo cast, ancora di più scontato rammentare un repertorio amplissimo ed alla cui vastità, forse, la Gencer sacrificò la durata. Ed anche l’intensità interpretativa ebbe il suo peso.
Leyla Gencer è stata divina ed antidiva, al tempo stesso.
Ogni circostanza sembrava rendere difficile una carriera, quando la Gencer debuttò. Priva di un mezzo opulento ed all’italiana come quello di una Stella o di una Cerquetti o, addirittura della Tebaldi, schiacciata dalla novità della Callas di cui fu, superficialmente, considerata epigona (con ammenda pubblica niente meno che di Rodolfo Celletti, poi suo grandissimo estimatore), tallonata, poi, dalle Scotto, Sutherland, Caballè e Sills, nonostante tutto la Gencer è stata per il pubblico la LEYLA amata, applaudita, idolatrata.

Un amore fondato perché se i mezzi naturali non erano eccezionali (era Lei la prima a dirlo), la tecnica di canto il gusto e la fantasia, supportati da uno studio indefesso e da una intelligenza e curiosità culturale, assolutamente uniche, erano quelli di una cantante di levatura storica. E comunque una protagonista assoluta del canto degli ultimi cinquant’anni. E questa è la diva Gencer.
Un amore ed una venerazione (i fans della Gencer erano coloriti numerosi e molto critici nei confronti delle altre cantanti) che nascevano dalle performance che la LEYLA senza trucchi discografici, senza battage pubblicitari, ma solo con il passa parola l’esperienza diretta del teatro. Non per nulla veniva definita e si autodefiniva con molta ironia la “regina dei pirati”, ossia l’antidiva.
Superfluo ricordare la carriera abbiamo detto, però non si può dimenticare che grazie alla Gencer (le protagoniste di Verdi soprattutto e sopratutte donna Leonora di Trovatore) certi personaggi uscirono stilizzati ed eleganti, privati di certe esagitazioni, pur rimanendo ( a differenza del presente) integri nella loro tensione drammatica, che ad altri (le famose eroine donizettiane) venne restituita una dignità ed una rilevanza storica che il decorrere del tempo e del gusto aveva falcidiato. Anche non più vocalmente integra Leyla Gencer restava, protagonista della prima ripresa scenica di Martyrs, la ipostasi della matrona romana, illuminata da Corneille e dalla cultura ottocentesca, anche quanto respingeva un amato o affrontava la morte in nome dell’amore coniugale; come pure la cultura e la interpretazione della dama di rango del giovane Verdi era completa ed inoppugnabile. Nessuna Lucrezia Contarini è stata al pari di Lei rappresentazione della retorica di cui è intriso il personaggio, ”di Contarini e Foscari, figlia e sposa”, senza sacrificare il rispetto del dettato vocale.
Ma soprattutto Leyla Gencer è stata una autentica guerriera, sempre pronta alla lotta ed alla sfida. E dopo quelle del palcoscenico non perdeva l’occasione di essere ancora diva ed antidiva con assoluta, commentando con sincerità e nessuna metafora, ora le note di petto della Barbieri, ora la divulgazione di Donizetti “io lo canto, la Caballé lo porta in giro per il mondo, la Sills lo incide”, ora le nuove leve del canto, magari della stessa scuola della Scala.
Grande anche in questo. Adesso possiamo dire solo grazie signora Gencer per quello che ha dato all’opera e più in generale alla cultura. Fortunati quelli che l’hanno vista in teatro anche se adolescenti, altrettanto quelli che possono sentire le sue fortunose, ma fascinosissime registrazioni live.

Leyla Gencer - Gli ascolti

C. Monteverdi - L'Incoronazione di Poppea
Atto III - Addio Roma

W. A. Mozart - Le Nozze di Figaro
Atto II - Porgi, Amor

G. Rossini - Elisabetta, Regina d'Inghilterra
Atto II - Bell'alme generose

G. Donizetti - Lucia di Lammermoor
Atto III - Scena della pazzia

G. Donizetti - Poliuto
Atto II - Concertato e Finale (con A. Zambon & V. Sardinero)

G. Donizetti - Lucrezia Borgia
Atto II - M'odi ah m'odi; Era desso

G. Verdi - Attila
Atto I - Liberamente or piangi

G. Verdi - La Forza del Destino
Atto I - Me pellegrina ed orfana

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Airs d'Opéras Italiens, Natalie Dessay e il manierismo di una "primadonna"

Ho da poco concluso l’ascolto dell’ultima fatica discografica di Natalie Dessay: Airs d’Opéras Italiens. L’elegante cd, prodotto e distribuito dalla Virgin e già da qualche mese disponibile per il mercato europeo (almeno quello tedesco), verrà tra breve commercializzato anche in Italia: ben presto, quindi, ciascuno potrà verificare la bontà o meno di queste mie anticipazioni. L’ho ascoltato, dicevo, con “orecchie vergini”, senza pregiudizi, cioè, dovuti ad una certa antipatia personale o al fastidio per taluni atteggiamenti e vezzi interpretativi, in cui la diva ama indulgere assai frequentemente in questa che continuo a considerare una fase declinante della sua carriera.

Programma ambizioso, quello proposto dalla Dessay, solo a scorrere la track-list, infatti, “tremano le vene ai polsi”: si va da Violetta a Lucia, da Gilda a Elvira, da Maria Stuarda a Giulietta. Programma che tradisce da una parte un fine squisitamente promozionale, in quanto prodromico all’imminente debutto in Traviata, e quindi volto ad anticiparne la cifra interpretativa e a preparare l’ascoltatore futuro; dall’altra – ed è l’aspetto più interessante – vuole richiamare i grandi recitals delle primedonne assolute del recente passato (Sutherland, Caballè, Sills..), nel cui alveo la Dessay vuole (o spera o crede) essere annoverata. Aspirazione legittima, ma, a mio parere e per i motivi che di seguito esporrò, non giustificata.

Ho ascoltato con molta attenzione il cd e prima di dare un resoconto dettagliato dei brani proposti, voglio trarre due considerazioni preliminari. La prima è quella di una sensazione di generale gradevolezza del prodotto (che può essere una qualità e che non intendo negare). La seconda è che questa piacevolezza oltre che generale è alquanto generica: l’ascolto evidenzia, infatti, una certa piattezza interpretativa che dalla Dessay non mi sarei mai aspettato. Ogni personaggio è qui affrontato dal medesimo punto di vista, senza alcuna differenziazione psicologica (prima ancora che vocale): sembra che la diva utilizzi un’unica formula che riduce, nei fatti, Violetta ed Elvira, Lucia o Giulietta (personaggi tra loro diversissimi e che richiedono vocalità, temperamento e stili assai differenti) ad un solo prototipo che si può individuare in quello di una “desperate housewife” anzitempo. Una reductio alla quotidianità che non può avere alcuna efficacia se confrontato alla disperata sensualità di una Madamigella Valery, che vorrebbe addirittura "di voluttà nei vortici perire", o all’orgogliosa nobiltà di una Stuarda prossima a scagliarsi rabbiosa contro la "figlia impura di Bolena" (per far solo un paio d'esempi). Ora applicare il medesimo approccio, il medesimo atteggiamento ad ogni ruolo affrontato, tramuta la personalità interpretativa (anche la più singolare e rivoluzionaria, come pretendono i suoi più fedeli ammiratori) in manierismo che, nel perpetuarsi identico a sé stesso, risulta scontato e noioso. Ecco, al termine dell’ascolto di Airs d'Opéras Italiens, il sentimento che prevale è la monotonia. Una monotonia ben confezionata, ben ripulita (anche se deve scontare l’accompagnamento talvolta greve del solito Pidò, che si è ormai conquistato – senza molte giustificazioni, secondo me – lo scettro di direttore belcantista), ma pur sempre noiosa.

Ma veniamo ora ai singoli brani. Si apre con Traviata: la grande scena che chiude il primo atto, anticipazione di come sarà la Violetta della Dessay. Dico subito che mi ha deluso. La sua lettura mostra, infatti, come sia ben diversa la vocalità verdiana rispetto a quella belcantista e come la voce della diva si trovi a disagio, come in un vestito di qualche taglia più grande. Corpo e potenza (necessari a reggere le ampie arcate verdiane) latitano, e non possono essere riscattati dalla pur presente accuratezza di emissione e dall’innegabile cura nel fraseggio. L’aria – che è il luogo che soffre maggiormente di questa mancanza – risulta così, impoverita, secca, minimale, “da salotto” direi. La Dessay gioca con pianissimi e rallentando (forse un pensiero alla Caballè?), ma non riesce a mascherare l’inadeguatezza verso una scrittura evidentemente troppo impegnativa. Gli acuti, così scoperti e scomodi, sono stirati, faticosi (e rimpiango qui la stessa cantante che nel '95 interpretava un "Popoli di Tessaglia" superbo e di una sicurezza quasi insultante), ma è tutto il brano che denuncia una sensazione di affanno. L’abbandono lirico di “ah quell’amor..” è del tutto assente, sostituito da una freddezza intellettualistica, derivato da una lettura artificiosamente psichiatrica di Violetta, che fa a pugni con la musica di Verdi, che suggerirebbe l’insinuarsi della passione amorosa in una vita dedicata al vizio, piuttosto che un algido calcolo delle probabilità di un’affinità di coppia, fatto da una borghesotta di provincia che ha letto troppo Strindberg (come pare ascoltando la diva francese). La cabaletta invece, dove la Dessay può sfoggiare le sue innegabili doti tecniche e un approccio più belcantista, è decisamente migliore (anche se, purtroppo, inframezzata dalle urla di un Alagna che sbraca Alfredo come se fosse un compare Turiddu ancora più trucibaldo del solito), ma in più d’un’occasione si riscontra un certo effetto “coccodè” che ci riporta ad un nostalgico passato di leziosità salottiere che si credeva ormai estinto. Le stesse valutazioni possono essere riferite a Gilda e al suo “Gualtier Maldè…Caro Nome”. La Dessay riporta indietro nel tempo le lancette della storia interpretativa, segnando il ritorno a quelle Gilde evanescenti usignoli, prive di corpo e tutte protese ai ricami nell’acuto e ai picchettati, con poco o niente appena sotto. Nulla di male, ma certamente nulla di straordinario. Anche qui poi l’approccio al personaggio è esclusivamente psichiatrico: innocenza ed illusione vengono sostituiti, al solito, da una specie di delirio paranoide.

Se quindi, l’approdo a Verdi appare più un capriccio da diva e un azzardo, il rifugio nel repertorio più propriamente belcantista, seppur più sicuro, non risulta più convincente (ovviamente mi sto limitando a questo prodotto discografico, non sto giudicando la carriera della cantante). In particolare ne soffre Bellini: non c’è nulla, in realtà, di brutto o sbagliato o sgradevole, semplicemente non c’è proprio nulla. E’ un Bellini insipido ed innocuo, piacevole, ma per niente appagante. Elvira e Giulietta passano quasi inosservate, modeste, dimesse. Nella ricerca ossessiva di una lettura intellettualistica, di un “non detto” psicologico, che vorrebbe alludere a chissà quali problemi esistenziali (quasi fosse un copione di Bergman), si perde la centralità del canto e l'astrattezza della pura vocalità. Anche il virtuosismo, sempre misurato, è vittima di questo atteggiamento: variazioni minimaliste ed evocative di drammi e psicosi – dirà qualcuno – troppo comoda! – dico io: se il virtuosismo c’è, ha da essere “esibizionista”, ossia mostrare capacità tecniche spregiudicate e non comuni (come erano quelle della Dessay che più apprezzo). Poi potrà assumere caratteri differenti: da quello sfacciato e funambolico della Sills, a quello astratto e metafisico della Sutherland, diversi, ma pur sempre accomunati dall’elevato tasso acrobatico: la meraviglia del belcanto (e poi scusate: a che serve ripetere una cabaletta se non per mostrare tecnica trascendentale? Che valore psicologico volete che abbia un “da capo”?). Ancora una volta i personaggi scelti appaiono fuori misura e troppo gravosi (un conto è Sonnambula con la sua atmosfera agreste e la vena larmoyante, un altro conto Puritani, per cui si esige un ben diverso corpo, tonnellaggio e tempra) sia per gli aspetti vocali sia per l’interpretazione drammatica. Non si discute la capacità, teorica, di eseguire la parte integralmente (nessuno la può negare), piuttosto il problema è quello di renderla credibile. E qui l’ambizione della Dessay (legittima e comprensibile) deve pagare il conto alla realtà di uno strumento con dei limiti (umani, com'è ovvio) e all’incoscienza di voler cantare tutto. Ma tutto non si può o non si deve.

Donizetti è presente con Maria Stuarda e Lucia di Lammermoor (ruoli tra i più antitetici del catalogo del compositore bergamasco: stupisce l’accostamento). Stuarda è parte difficile e problematica, da maneggiare con estrema cautela (persino la Sutherland vi si avvicinò con riserbo), che richiede un centro pieno e corposo e dei bassi sicuri e consistenti. E’ parte, poi, che non può essere risolta con il solo virtuosismo (peraltro assai limitato), ma deve trovare la sua ragion d’essere nell'accento nobile, nella tenuta drammatica, nel temperamento. Qui la Dessay non appare affatto una regina orgogliosa e ferita, ma solo una donnetta pia e spaesata che si abbandona, salmodiando nenie e cantilene, ad una provvidenza quasi manzoniana. Un’esecuzione bonsai, quindi ridotta ai minimi termini: un pensiero debole del belcanto. Taccio poi dell'imperdonabile caduta di gusto nel piazzare quel paio di puntature nel bel mezzo della cabaletta, più prossime al fischio che al canto. Il cd si chiude, infine, con uno dei cavalli di battaglia della cantante francese: la pazzia di Lucia. Non c’è da soffermarsi molto su di una interpretazione già ampiamente conosciuta e discussa (e discutibile). Spiace constatare la presenza (incomprensibile qui, lontana dal palco e dalle consuete accette insanguinate e vasche per abluzioni) del solito urlo belluino prima della cabaletta. Sempre brutto, sempre inutile, sempre offensivo. Detto questo, devo dire che la diva si trova molto più a suo agio qui che in Verdi o Bellini. Soprattutto, senza certe degenerazioni sceniche, vengono evitati gli eccessi attoriali che generano quei suoni non proprio belli e poco ortodossi che spesso ci è dato ascoltare nelle sue esecuzioni live. Null’altro da aggiungere, direi, se non l’utilizzo della glass-harmonica e la presenza della cadenza di tradizione (ma stranamente non vi è alcun inserto strumentale: è la Dessay stessa a sostituirsi al flauto solista all’inizio della cadenza in un improbabile e un tantino grottesco “duetto a uno”).

Un cenno lo merita però l’orchestra. Pidò dirige i complessi “filologici” del Concerto Köln (già utilizzati dal baroccaro Jacobs) che dimostrano tutta l’assurdità dell’uso di strumenti finto originali per un repertorio di questo genere: ora, se già sono discutibili in Mozart, figuriamoci come possono “suonare” nel melodramma di metà ‘800. Rigoletto e Traviata sono datate rispettivamente 1851 e 1853, negli stessi anni Wagner rappresentava Lohengrin, Meyerbeer metteva in scena Le Prophéte e Dinorah, Berlioz scriveva Les Troyens. Che ragioni ci sono quindi per suoni secchi e stimbrati, privi di vibrato e dalla dinamica poverissima? Perchè quei violini fissi e stridenti come gesso sulla lavagna? Che c’entrano i fiati naturali e incontrollabili con Verdi? A nessuno, dotato di ragione, verrebbe in mente di usare strumenti barocchi per accompagnare “Nun sei bedankt, mein lieber Schwan” (oppure, tanto per rendere l'idea, eseguire gli Studi Trascendentali di Liszt su di un "bel" fortepiano), eppure Pidò dirige copie di violini della metà del ‘700 per “Sempre libera degg’io”. Il risultato è necessariamente grottesco e orribile allo stesso tempo. Ma qui mi fermo perchè di filologia e period instruments ho già parlato e diffusamente in altre sedi.

In conclusione: un cd piacevole e ben confenzionato, ma sostanzialmente inutile e che non segna alcuna rivoluzione o svolta. Che avrebbe, forse, potuto avere un senso con la Dessay di 10 anni fa (e pure allora sarebbe comunque risultato una curiosità ed un fuori repertorio), ma che adesso non aggiunge proprio nulla alla sua carriera. Una scelta di brani troppo ambiziosa rispetto alle caratteristiche vocali, reali e attuali, della diva, e che pone più di un dubbio sull’imminente approdo verdiano.


G. Verdi - Rigoletto

Caro nome - Lina Pagliughi
Sì, vendetta, tremenda vendetta - Carlo Tagliabue & Lina Pagliughi

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giovedì 8 maggio 2008

June Anderson in concerto ad Aix en Provence

Ho deciso di spingermi sino ad Aix en Provence per pura curiosità, cioè sentire dopo tanti anni la più giovane delle tre “signore” dell’opera tuttora attive, June Anderson. Già, perché continuavo a domandarmi come mai si parli sempre delle altre due e dei loro impressionanti ruolini di marcia, dimenticando che anche la bella americana, ex vera superstella dello star system, si è rimessa in pista da qualche anno, sebbene con ritmi diversi e circondata da una specie di….aura solitaria. Mi incuriosiva sentirne lo stato vocale e soprattutto i modi di gestire il suo autunno professionale, che sono, poi, la vera meraviglia delle nostre amatissime e stimatissime signore “da corsa”. Vi dirò subito che il viaggio ha riservato sorprese inaspettate, cancellando anche il mio scetticismo di fondo verso una cantante che ho molto apprezzato agli esordi della sua carriera, ma meno nella fase matura. Il resoconto e le considerazioni sono passatiste, anzi….sfacciatamente passatiste.

Negli anni aurei, quando June Anderson era una star di prima assoluta grandezza, richiesta nei più grandi teatri del mondo, non mi pareva esente da difetti, tutt’altro. Straordinaria nelle parti di lirico di coloratura come nell'opera francese, nelle parti tragiche da lei amatissime, come quelle di Rossini scritte per la Colbran, la cantante risultava forzata nella zona centrale della voce ed inerte, per non dire assente nell’accento. Peculiarità, quest’ultima, anche di certi personaggi, come Lucia ed Amina, per certo più consoni ai mezzi della cantante americana, che spesso prediligeva tempi lenti anche negli allegri, col risultato di privarli spesso della loro più autentica carica. Certo la voce era eccezionale, per estensione e brillantezza della zona medio alta oltre che per penetrazione ed espansione in teatro, impressionante nella Lucia fiorentina dietro la Gruberova, o nella Fille du Regiment a Parma. In virtù di tanta grazia vocale, la Anderson si è sempre considerata un soprano drammatico, con risultati vocali, e soprattutto interpretativi, che facevano storcere il naso a chi del soprano drammatico aveva una concezione ortodossa. Del resto nessuna, ma davvero nessuna altra cantante sua coetanea poteva vantare le doti naturali ( unite ad una bellissima presenza scenica ). Insomma una superdotata cui si poteva sospettare facessero difetto ora una esatta cognizione tecnica, ora una completa e coerente definizione del personaggio. Eppure….regolarmente trionfatrice, col consenso anche della critica e dei discografici, fin tanto che non si spinse sul periglioso terreno del Verdi drammatico, da cui uscì sfiancata e con la voce rotta. La Norma di Parma e la Lucia di Milano furono la prova eclatante, tra Trovatori, Lombardi, Miller, del modo in cui da anni sforzava la sua voce sfidandone la resistenza. Questi i pensieri di chi, viaggiando verso Aix, rimuginava sul dove avrebbe arrivare la signora se solo avesse avuto di se stessa una concezione….semplicemente diversa, quale quella che guidò, temporibus illis, una Sutherland, anziché procurarsi da sola motivi di autodistruzione vocale.

Il programma scelto per questo concerto con orchestra all’auditorium di Aix è stato robustissimo, degno di un grande soprano d’agilità all’apice della forma: aria di Semiramide, cavatina di Norma; finale di Sonnambula compreso il rondò; grande scena finale della Desdemona di Verdi inclusa l’Ave Maria; finale di Pirata, recitativo e rondò inclusi. Un programma da anni verdi, di quelli monumentali, cui erano abituati i belcantisti della sua generazione, oltre che lei stessa, specie se potevano usufruire dell’orchestra. E per quanto mi sia sforzata di resistere a qualunque effetto tipo flash back non ho potuto fare a meno di essere catapultata indietro, in una dimensione del canto che mai come ieri l’altra sera ho percepito diversa da quella attuale, e in modo totale, dalla sostanza ai dettagli.
Over 55 June Anderson entra in scena ed è ancora una bellissima ed elegante signora, da non credere, nemmeno stando nelle prime file di platea, che abbia la sua età. Incede e si muove con semplicità aristocratica, sempre nella misura, sorridente come da ragazza.

Poi appena attacca la cavatina di Semiramide alquanto acrobatica nella scrittura persino della prima sezione si osserva che la voce è salda, non ha perso la brillantezza dell’ottava superiore e che la cantante, a differenza del passato, è attenta ad emettere suoni coperti ed oscurati nella zona bassa. La situazione si è ripresentata esattamente identica, sotto il profilo del controllo vocale, all’allegro “Dolce pensiero”, di scrittura piuttosto grave: la Anderson ha esibito le medesime variazioni di un tempo, nulla omesso ( compresi gli orribili staccati, assai poco rossiniani, da lei da sempre tanto amati ): il tutto con una grande (…ormai arcaica ) fluidità e suoni dolci e timbrati rispetto ad un tempo.
Nella cavatina di Norma, di cui la Anderson ha eseguito solo la sezione centrale del Casta diva, sono comparse un po’ delle sue note spinte del passato, ma la linea vocale era curatissima e precisa l’esecuzione delle difficoltà, in primis i la ribattuti, risolta in modo….elementare.
Il finale di Sonnambula poi, di tessitura centrale, è stato cantato con intenzioni interpretative che non ricordo proprie della giovane Anderson. Nell’Ah non credea mirarti le parole hanno preso altro e diverso significato da allora, il canto dolente e malinconico di una voce veramente corposa, mentre la coloratura del rondò, eseguito col da capo variato, è di nuovo arrivata facile e fluida, tanto diversa da quella delle moderne voci di soprano leggero, ossia imperiosa e monumentale. E la saldezza vocale era tale che, ad un certo punto, non avrei voluto sentire alcune fissità che qua e là si sentivano con evidenza, e questo perché, complice l’aspetto, non mi sentivo affatto di fronte ad una cantante di 56 anni, ma alla Anderson di allora.
Il vero stupore è, però, arrivato al secondo tempo, aperto della grande scena di Desdemona. Qui, a suo agio nella tessitura centrale e spianata, la Anderson ha saputo trovare accenti davvero inattesi, alternando, nella nenia della Canzone del salice, malinconia e tragici presagi di morte, mentre all’Ave Maria, cantato piano, il legato è parso di una freschezza davvero impressionante per un soprano cinquantaseienne.
Quindi il finale del Pirata, completo di recitativo e da capo variato della cabaletta. La voce esibita è suonata immascherata ed estesa in prima ottava ( e mai avevo udito questi suoni quando era nel pieno della sua carriera ), l’accento scandito, il fiato più lungo che non al primo tempo del concerto ed una colonna di suono veramente ampia, direi imponente per la media delle voci oggi correnti. Il brano ha ripreso così il senso drammaturgico che gli è proprio ( o meglio, si è molto avvicinata alla vocalità del drammatico d’agilità ), complice un finale dove la coloratura è stata eseguita con una facilità estrema, variazioni bellissime ( ….un remake di quanto scrisse Zedda tanto tempo fa, se non vado errata…), a ricondurre Imogene nella corretta prospettiva drammaturgica e stilistica .
Immaginerete da voi il trionfo che il pubblico le ha tributato, e non solo per affezione, ma per l’intensità emotiva creata. Dopo alcuni minuti di applausi ritmati, la bella June, di nuovo sorridente, ha spiazzato l’auditorium e, contro ogni previsione, ha bissato, alla maniera dei grandi soprani di coloratura con…….. Je veux vivre, seguito da Oh mio babbino caro!!! Le è bastato ridurre un poco il volume per volare sul grande valzer di Juliette con la leggerezza e la freschezza di una ragazza!

Così dopo tanti anni ho rivisto un soprano uguale e diverso al tempo stesso da quello che conobbi vent’anni fa. Uguale nei mezzi, certo ora meno smaglianti, nel modo di gestire la zona centro alta della voce, nella facilità della coloratura, con i suoi tipici suoni spessi, ora un po’ duri o anche fissi sul passaggio.
Diversa, invece, nel modo di cantare in prima ottava e, soprattutto, nel fraseggio, presente come non mai. Se certe fissità della voce sono il segno inequivocabile del tempo e dell’usura di una natura prodigiosa, certo resta veramente impressionante la colonna di suono che investe l’ascoltatore, la potenza e la facilità con cui il lato drammatico dei personaggi prende subito forma appena apre la bocca. Quello della sua voce è un altro e diverso ordine di grandezza rispetto a quelle che oggi si assumono gli oneri di questo repertorio, in particolare i ruoli Colbran e Pasta, ed appartiene ad una estetica vocale diversa da quella oggi corrente. Ed il pensiero ora và al debutto in Lucrezia Borgia l’anno prossimo, con quel rondò finale a tutte vietato in questo momento se lo si intende non come una sequenza di note ma come una vera scena di “coloratura drammatica”, ed ai ruoli mancanti che potrebbero ancora esservi in questo stato di freschezza, come la terribile Elisabetta Regina d’Inghilterra, qualora qualche direttore di teatro desiderasse, con un po' di fantasia, mettere in scena un 'opera scritta per un soprano drammatico, che non si intitoli Norma, con l'obbiettivo di restituirne la vocalità secondo prassi stilistiche proprie alla tradizione del belcanto.

Concerto tenuto al
Gran Théatre de Provence de Aix en Provence
martedì 6 maggio 2008

ORCHESTRE RÉGIONAL DE CANNES PROVENCE ALPES CÔTE D’AZUR
Philippe Bender, direction

G. ROSSINI
Semiramide : Sinfonia
Bel Raggio lusinghier

V. BELLINI
Norma: Sinfonia
Casta Diva

Pirata: Sinfonia

Sonnambula: Ah, non credea mirarti

G. VERDI
Giovanna d'Arco: Sinfonia

Otello: Canzone del Salice- Ave Maria

P. MASCAGNI
Cavalleria Rusticana:Intermezzo

V. BELLINI
Il Pirata: Col sorriso d'innocenza

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