mercoledì 30 settembre 2009

Ciel pietoso in sì crudo momento: l'ultima registrazione di Straniera

Per il catalogo di Opera Rara da qualche mese è uscita "La straniera", registrata, ufficialmente, prima di una esecuzione concertistica tenutasi a Londra nel novembre 2007.
Il cast assemblato dalla casa anglosassone prevede: Patrizia Ciofi quale Alaide, Mark Stone Valdeburgo, Enkelejda Shkosa Isoletta, Darío Schmunck Arturo.

In apertura dissento circa l'opportunità di proporre un titolo come Straniera, che raro proprio non può definirsi. Persino in periodo di imperante verismo venne proposta alla Scala, anno 1935, con Gina Cigna (Alaide) Gianna Pederzini (Isoletta) Mario Basiola (Valdeburgo) e Francesco Merli (Arturo), sotto la guida del sicilianissimo e efficientissimo (e per certo molto di più) Gino Marinuzzi.
Spiace che non vi sia una traccia di quell'edizione verso la quale i puristi storcerebbero il naso, definendo il cast del massimo teatro milanese da Forza del destino e non da Bellini. Non solo Straniera ha nel tempo attirato, con diversi ed alterni risultati, grandi prime donne. La palma se la contentendono Renata Scotto e Montserrat Caballé. Al loro seguito sono venuti altri soprani come la Shimada (Martina Franca 1983, una ciambella senza buco del Festival cellettiano), la Fleming, la Aliberti e la Pendatchanska, pure esse -per proseguire con la metafora dolciaria- della medesima sfornata della Shimada.
I poco felici risultati sono testimonianza, quanto meno, della difficoltà del ruolo protagonistico.
Ma una ripresa discografica (in teatro chissà dove e quando, anche se è più facile allestire Straniera che Norma e da un po' di tempo penso ad un'ipotetica ben definita protagonista) invita ad altre riflessioni che non hanno la presunzione (come taluni autiproclamatisi concorrenti fanno quotidianamente) di fare cultura, ma più semplicemente di essere strumentali a dire dell'esecuzione.
Straniera venne rappresentata il 4 febbraio 1829 alla Scala, secondo titolo commissionato dal massimo teatro milanese al giovane maestro catanese sulla scorta del trionfo del Pirata (1827).
Dalla Semiramide sono passati sei anni. Sembra un secolo.
Sotto il profilo della vocalità: spariscono le formule rossiniane se si escludono qualche passo vocalizzato del duetto Isoletta Valdeburgo, che principia l'opera o la sezione conclusiva dell'aria di Isoletta; codifica una vocalità per la protagonista (prima interprete Henriette Meric-Lalande, specialista sino ad allora di Semiramide, Donna del lago, Crociato in Egitto) assolutamente priva di melismi (escluso un languido vocalizzo fuori scena al primo atto e qualche passo del bellissimo quartetto con Isoletta, Valdeburgo ed Arturo, che precede la grande scena finale); si inventa, come era accaduto con il Pirata per la vocalità tenorile un nuovo modello vocale ed interpretativo ossia il baritono nobile, perchè di fatto Valdeburgo affidato ad Antonio Tamburini chiude la serie delle parti rossiniane alla Filippo Galli (di cui sia detto Tamburini fu un grande esecutore, anche se sarebbe interessante sapere che cosa eseguisse di Assur o di Maometto) ed inaugura un modello di cantante e di interprete, che resisterà vocalmente e drammaturgicamente sino al primo Verdi. Poi possiamo anche precisare che la vocalità orizzontale di Alaide non giovò certo alla Meric-Lalande, abituata sì a quella stessa tessitura, ma comodamente fiorita trattandosi per lo più di parti Colbran e che Tamburini proprio baritono nel senso attuale del termine non era.
Con Straniera, prima ancora e più di Norma e Bolena, si comprende il perchè delle lamentele circa la vocalità moderna come sterminatrice del "Belcanto".
La verità è che Straniera, ripeto più di Norma e di Bolena, segna il taglio netto con la grande tradizione precedente sotto il profilo drammaturgico, prima ancora che sotto quello vocale.
I personaggi soprattutto tenore e soprano si esprimono mediante ariosi (addirittura, contingente la poca fiducia di Bellini nei confronti di Domenico Reina, il tenore non ha aria solistica. Carenza cui Bellini supplirà per una ripresa del titolo con Rubini) , recitativi accompagnati e cantabili.
Ancora di più il primo atto, complice la previsione librettistica, che indica come morti (presunti) tenore e baritono di fatto è una grande scena della sola Alaide, accusta oltre che di stregoneria, pure di duplice omicidio. Poi la tradizione che vuole fischiato il finale primo di Norma perchè si trattava di un semplice terzetto e non del grande concertato alla Semiramide appunto dimentica che questa specie di grande scena affidata ad una grande primadonna con pertichini ebbe un grande successo alla prima.
Per capire non si deve fare riferimento a misteri, presunta ignoranza o disinformazione della critica, ma semplicemente ai generi. Norma era ed è la grande tragedia coturnata, come Semiramide, e come tale esigeva il rispetto delle regole caratteristiche di quel genere teatrale. Straniera ambientata non già nel mondo classico (ossia astratto ed atemporale, come è il belcanto), ma nel Medioevo, che sarà il terreno prediletto del romanticismo, non richiede, nella poetica del tempo un ferreo rispetto delle convenzioni.
E qui sta anche la differenza fra Rossini ed i suoi successori. Alle prese con argomenti romantici come la Donna del Lago Rossini tenne fermi, sotto il profilo drammaturgico, i paradigmi del dramma vigente, non arrivò sino in fondo al distacco, pur essendone (leggi Stendhal) il vero padre. Non per nulla è quanto mai pertinente l'osservazione che la scelta del silenzio post Tell nasca, oltre che dalla prostrazione psichica, proprio dall'estraneità di Rossini ai nuovi generi.

E tutto questo che c'entra con la nuova edizione di Straniera?
Serve a dire dell'assoluta inadeguatezza della prescelta protagonista, Patrizia Ciofi, soprano leggero per peso e coolore, oggi ben accorciata in alto (re naturale interpolato alla fine dell'opera gridato e calante, re bem prescritto urlato ed acido) afona al centro, vuota in basso. Quindi le trenodie di Alaide (cavatina di sortita, sezione centrale del seguente duetto con Arturo , il "Ciel pietoso"), la tensione tragica del terzetto all'atto primo con Arturo e Valdeburgo, per giunta congiunta allo slancio nel finale primo e dall'allegro moderato "Or sei pago" mettono in mostra non il fiato, ma l'aria che esce in luogo dei suoni nonostante il mezzuccio di una registrazione lontana ed ovattata della voce. Con un'organizzazione vocale da Giulietta Capuleti in menopausa, che talune idee interpretative possano anche essere buone (nulla davanti alla meditata eloquenza di Renata Scotto) è irrilevante.
Quanto a Darío Schmunck, che con pervicace ostinazione viene propinato nei titoli di Bellini e Donizetti, l'assenza di numeri solistici, la sede discografica e la scrittura centrale lo agevolano, ossia gli evitano le performace teatrali, come la recente Stuarda scaligera. Ciò nonostante l'ampiezza di fraseggio, la nobiltà d'accento, il sentore romantico, che sono la sigla di Arturo richiederebbero un controllo del fiato, un sostegno della voce estranei al cantante prescelto, che se sapesse cantare sarebbe certo un tenore contraltino e non già un tenore baritonale.
Mark Stone, vero protagonista maschile, ha i medesimi vizi e difetti del tenore e più in generale di tutti i cantanti oggi in carriera, salvo pochissime eccezioni. La tessitura ancora centralizzante lo esime da suonacci e fatica nel canto, ma per capire come vadano cantate queste parti (intendo Puritani, il conte Rodolfo, piuttosto che Belisario, Torquato Tasso, Chalais, Camoens, Antonio di Linda) dobbiamo rivolgerci a registrazione a 78 giri. E se non vogliamo scomodare il commendatore Battistini, che studiò, fra l'altro con Antonio Cotogni, che a sua volta -guarda caso- aveva preparato alcune parti proprio con Antonio Tamburini possiamo sempre ricorrere a qualche alunno di Cotogni come de Luca o Mario Basiola.
L'Isoletta della Shkosa urlacchia in alto e non è certo, nei pochi passi di canto fiorito, la perfezione, ma al confronto dei compagni di ventura...
Rimane, poi, la direzione di David Parry, un punto fisso dell'Opera Rara. Per venti o trent'anni abbiamo visto la sistematica condanna dei direttori come Gavazzani, Sanzogno, Votto sino a Serafin o Gui alle prese con Bellini, Donizetti ed il primo Verdi ritenuti pesanti, antifilologi e per tagli e per il rapporto con le aggiunte previste dagli esecutori. Persi questi nemici del romanticismo, siamo rimasti con David Parry e molti altri, attivi nei nostri teatri ed all'estero, ed i suoni secchi, acidi e comunque bandistici, gli ensemble pesanti e poco chiari nelle singole sezioni, la concertazione inesistente, la mancanza di magia ed evocazione degli andanti, maestosi ed allegri che non hanno le deprecate ampiezza e vigore dei deprecati direttori paraveristi.
Per parte mia continuo a sentire Renata Scotto e Montserrat Caballé, che evocano i fasti di Bellini e delle sue prime donne.


Gli ascolti

Rossini - Il Barbiere di Siviglia

Atto I

Largo al factotum - Mario Basiola (1935)

Bellini - La straniera

Atto II

Ciel pietoso, in sì crudo momento...Or sei pago, o ciel tremendo - Renata Scotto (1968), Montserrat Caballé (1969)

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lunedì 28 settembre 2009

Olga Borodina in concerto alla Scala

La Scala ha intensamente applaudito il concerto tenuto ieri da Olga Borodina.
Con un programma liederistico di musica russa, Tchaikovsky e Rachmaninov, magnificamente accompagnato dal piano di Dmitri Yefimov, il grande mezzo di San Pietroburgo ha saputo convincere il pubblico milanese per l’eccellente qualità del suo mezzo vocale e per la prestazione musicale.

Dopo quasi vent’anni di grandissima carriera nei più grandi teatri del mondo, la voce della Borodina possiede ancora, senza alcun dubbio, un grande fascino timbrico ed una notevole ampiezza. Voce da vero mezzosoprano, assoluta rarità oggi per una corda occupata o da soprani non sfogati o da voci anfotere, esibisce una pienezza di suono ed un fascino timbrico nel registro centrale ed in quello grave che sanno ancora soggiogare non appena la cantante apre la bocca.
La scrittura centrale dei brani di Tchaikovsky le ha dato l’opportunità di dispiegare un canto lirico, ricco di sfumature ( magari non tutti sicurissimi i piani ) e colori, che ha fatto volar via i pezzi uno dopo l’altro senza un solo istante di noia, tanto grande è stato il piacere per le orecchie di ascoltatori condannati a voci brade o asfittiche o senza timbro. Non ci sono per nulla sfuggite le difficoltà in acuto nell’esecuzione di alcuni brani di Rachmaninov o nel sol del “Voce di donna” di Gioconda o una certa difficoltà a legare il sensuale canto della scena della seduzione di Dalila. L’usura del registro alto si può dimenticare di fronte all’opulenza del resto della voce, alla facilità che ancora mostra a darle volume, alla compostezza del registro grave, quasi un dono speciale che la signora Borodina ha riservato all’esigente pubblico milanese ( ricordo una principessa di Bouillon assai poco principesca alla radio, dal Met, l’inverno scorso.. …)
Bellissima e monumentale, la signora Borodina è stata applaudita praticamente ad ogni pezzo e non alla fine delle serie di brani. Chissà, forse ancora traumatizzati dall’impatto con la recente Amneris delle nuove generazioni russe ( ! ), non abbiamo potuto fare a meno di affidarci al caldo suond della sua voce, rassicurati dal suo incedere imperiale e dalla sua bellezza, immobile come un’icona. Qualunque cosa cantasse, eventualmente imperfetta per il danno dell’usura, ci è parsa ristoratrice delle nostre orecchie, perché finalmente ci sentivamo di fronte ad una vera voce.
Già, proprio voci monumentali quelle dei mezzosoprani spinti di casa al Metropolitan! Quest’anno abbiamo iniziato con il fenomeno Zajick e chiudiamo con Olga Borodina, domandandoci come faranno a trovarne le degne sostitute, che non si vede proprio dove possano essere….. un teatro profondamente legato al repertorio tradizionale e chiuso all’ondata baroccara….
Ultima chiosa ad onor di cronaca, un teatro pieno per poco più della metà, un po’ meno rispetto al concerto della Damrau: alto prezzo dei biglietti? disinteresse per i programmi cameristici? disinteresse per il canto? Alla dirigenza del teatro l’ardua risposta.



Gli ascolti


Tchaikovsky

Net, tol’ko tot, kto znal (Solo chi conosce la nostalgia), op. 6 n. 6 - Helen Traubel (1946)

To bylo ranneju vesnoj (Accadde all’inizio della primavera), op. 38 n. 2 - Irina Arkhipova (1975)

Serenada (Serenata), op. 65 n. 3 - Zara Dolukhanova (1954), Irina Arkhipova (1975)

Snova, kak prezde, odin (Solo, come una volta), op. 73 n. 6 - Shirley Verrett (1965)


Rachmaninov

Ditja! Kak cvetok ty prekrasna (Tu sei come un fiore), op. 8 n. 2 - Irina Arkhipova (1975)

Son (Sogno), op. 8 n. 5 - Irina Arkhipova (1975)

V molcan’i noci tajnoj (Nel silenzio della notte misteriosa), op. 4 n. 3 - Irina Arkhipova (1975)

Siren’ (Gigli), op. 21 n. 5 - Irina Arkhipova (1975)

Ja zdu tebja (Ti attendo), op. 14 n. 1 - Irina Arkhipova (1975)


Bis

Ponchielli - La Gioconda

Atto I - Voce di donna - Karin Branzell (1927)

Saint-Saëns - Samson et Dalila

Atto II - Mon coeur s'ouvre à ta voix - Ernestine Schumann-Heink (1903), Elena Cernei (1964)

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domenica 27 settembre 2009

Alcina di Handel - Alan Curtis

Ultimissimo frutto della collaborazione tra DGG-ARCHIV e Alan Curtis, è da pochi mesi disponibile, sugli scaffali di negozi di dischi e megastore, una nuova incisione dell’Alcina di Handel. Pubblicata quasi contemporaneamente all’Ezio dello stesso autore (e con le medesime compagini artistiche), questa edizione arricchisce di un nuovo titolo la già lunga discografia handeliana del direttore americano. Come di consueto l’incisione in studio consegue alla performance dal vivo dell’opera – in questo caso Alcina veniva presentata al pubblico italiano nell’ambito della prima edizione della rassegna MiTo, con un cast, solo in parte, differente.

Premesso che non si comprende la necessità di un’altra Alcina dopo quella classica della Sutherland e le altre due versioni (più lige ai canoni barocchisti) di Hickox (con una buona Arleen Auger) e di Christie (con la Fleming e una Dessay allora ancora spettacolare) – forse meglio indirizzarsi verso titoli meno frequentati o meno confrontabili – l’ascolto di questa produzione discografica – unitamente a quello recentissimo di Agrippina, da poco recensita, nonché ai tanti titoli handeliani curati dallo stesso direttore con i medesimi complessi (Rodrigo, Admeto re di Tessaglia, Arminio, Deidamia, Radamisto, Lotario, Rodelinda, Fernando re di Castiglia, Floridante, Tolomeo ed Ezio, ai quali si aggiungeranno in un prossimo futuro la stessa Agrippina e Berenice) – permette una valutazione ormai compiuta di quello che è, in generale, l’odierno status dell’interpretazione handeliana (almeno quella che risponde alle esigenze della nuova moda) ed in particolare come considerare l’Handel di Curtis. Infatti pur nell’ormai generalizzata e omologante adesione a quei canoni che impongono – arbitrariamente – alla musica barocca (soprattutto a quella vocale) tutta una serie di discutibili scelte esecutive, ricondotte, asseritamente, ad una pretesa prassi autentica (in termine di suono, strumenti impiegati, diapason, canto), Curtis si pone in un’ottica del tutto particolare rispetto ai suoi colleghi: cioè quella della rigidità accademica. L’opera, nella sua ristretta visione teorica, va semplicemente eseguita, alternando arie tripartite e recitativi, limitandosi a suonare quel che c’è scritto senza abbandonarsi alle suggestioni che il testo suggerirebbe e non lasciando spazio a nessun tipo di fantasia. Curtis, di fatto, si limita a dare una sorta di testimonianza, asettica e impersonale, della partitura. Di ogni partitura. In una tale concezione della musica operistica, il senso del teatro è del tutto bandito (peccato capitale in Handel), così come il colore e la varietà timbrica, ritmica, dinamica. Ogni sua esecuzione – e dal vivo ancor più che in disco – è un grigio ed estenuante tour de force di noia, monotonia, povertà di idee. Il suono è opaco e stanco: sempre uguale, dall’inizio alla fine. E il canto che ne consegue ne ripete, coerentemente, tutti i limiti: i recitativi sono cantilene soporifere (e spesso compromesse dalla pronuncia inintellegibile dei suoi interpreti – l’aspetto linguistico, fondamentale nell’opera italiana, è sempre trascurato dalla filologia baroccara), le arie lente vengono tirate e dilatate all’inverosimile e senza mai riuscire a mantenere tensione e senso musicale, quelle “di furore” sono prive di nerbo, le variazioni (inserite non per il puro piacere dell’esibizione virtuosistica o per suscitare quella meraviglia che è cifra irrinunciabile della musica barocca, ma semplicemente per dovere e scrupolo filologico) mostrano la loro origine esclusivamente e rigidamente accademica: sono sempre uguali in ogni aria, in ogni da capo. Naturalmente anche la scelta dei cast è condotta in base agli stessi criteri da saggio musicologico (con ampie concessioni, però, allo star-system baroccaro di cui la casa discografica di riferimento è campione). A tali logiche non sfugge quest’ultima Alcina. Innanzitutto il suono orchestrale: povero, arido e secco. Diversamente da molti altri suoi colleghi – che spesso eccedono in ritmi forsennati ed esasperazione dei contrasti – Curtis opta per la solita e placida mediocritas, già sfoggiata in tutte le sue precedenti incisioni. Certo in questo caso, più di altri, la scelta è censurabile: la completa mancanza di fantasia, infatti, stride con il titolo prescelto, dato che così viene compromesso irrimediabilmente il clima “magico” che permea l’intera opera (Alcina presenta una partitura particolarmente lussureggiante, ricca, colorata, nell’intento di tradurre in musica la dimensione sovrannaturale, incantata e misteriosa). Niente di tutto questo si avverte nella concertazione di Curtis, alla testa del suo Complesso Barocco: solo grigiore e monotonia (almeno in studio, tuttavia, non si percepiscono i gravi problemi di intonazione che affliggevano l’ascolto dal vivo). Del pari il cast. Non mi soffermerò sull’Alcina di Joyce Di Donato, già ampiamente recensita nel medesimo ruolo in occasione della peformance del MiTo, dato che nulla di diverso è riscontrabile nella sua interpretazione del personaggio (si riscontrano le stesse difficoltà negli acuti e, soprattutto, gli eccessi di veemenza nell'affrontare i brani più drammatici, laddove sarebbero opportune sfumature e venature di malinconico abbandono: mai ascoltato, ad esempio, una versione più volgare e sguaiata dell'altrimenti meravigliosa “Ombre pallide” e lo stesso vale per “Ah, mio cor” risolto in un alternarsi di sospiretti lacrimevoli e acuti fissi come allarmi) . E neppure sull'ingolatissima Bradamante di Sonia Prina, per le stesse ragioni. Così pure il deludente Ruggiero di Maite Beaumont (il suo “Sta nell’ircana pietrosa tana” si caratterizza per un’emissione durissima e con gli acuti ghermiti a fatica). Stesso discorso per il tenore Kobie van Rensburg nella difficile parte di Oronte (risolta in modo indegno, con le agilità trasformate in gorgoglio informe e con pronuncia fantasiosissima: ma questi baroccari capiranno, prima o poi, l’importanza di una corretta pronuncia?) e per il buon Melisso di Vito Priante. Balza all’occhio il declassamento di Laura Cherici, dall'assurda Morgana delle recite milanesi al ruolo secondario di Oberto: forse la produzione si è resa conto della performance imbarazzante. Tuttavia la pezza è peggiore del buco. Novità, rispetto alle recite milanesi del 2007, infatti, Morgana: Karina Gauvin (stellina baroccara che già ha inciso con Dantone e con lo stesso Curtis in ben tre produzioni) veste qui i panni della maga sorella di Alcina, e fin dall’esordio mostra un timbro secco, acido e legnoso, con un registro acuto fortunoso e fisso. Nessuna malizia emerge dalla sua voce, nessuna seduzione, nessuna ironia (giacchè Handel la tratteggia come personaggio di mezzo carattere rispetto alla maga protagonista). Aria dopo aria, recitativo dopo recitativo, la Gauvin legge la parte (non senza palesi difficoltà) senza riportarne in vita lo spirito. Ovviamente si riappropria di “Tornami a vagheggiar”: opzione divenuta ormai obbligatoria, costi quel che costi, anche se (come in questo caso) l’interprete del ruolo è deficitario in tutto (si ascolti come condisce il pezzo di variazioni incoerenti, fuori stile e, comunque, bruttissime, con degli assurdi picchettati – pure malissimo eseguiti!): peraltro lo stesso Handel e la prassi – quella vera – dell’epoca aveva già attribuito il brano, dopo le primissime rappresentazioni, alla protagonista. E la Gauvin, qui (e altrove), è decisamente insufficiente rispetto alle esigenze tecniche e interpretative: e in particolare rispetto all’aria suddetta, su cui si stende ancora – e si stenderà sempre – l’ombra ingombrante e scomoda della Sutherland che ne diede una lettura divenuta ormai caposaldo della letteratura barocca di tutti i tempi. Un'edizione, qunque, di scarsa utilità e che non si giustifica né dal punto di vista musicologico (non è tra i titoli handeliani in attesa di rivalutazione), né da quello artistico: decisamente un prodotto rivolto ad un pubblico dai gusti particolari...


Gli ascolti

Haendel - Alcina


Atto I

Di', cor mio - Joan Sutherland (1960)

Tornami a vagheggiar - Joan Sutherland (1960), Valerie Masterson (1978)

Atto II

Ah! mio cor! schernito sei - Joan Sutherland (1959)

Ah! Ruggiero crudel...Ombre pallide - Joan Sutherland (1960)

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venerdì 25 settembre 2009

Sotto il segno di Wagner - Bruno Walter e Helen Traubel all'Hollywood Bowl (8 luglio 1947)

Fin dal 1922 l’Hollywood Bowl, moderno anfiteatro all’aperto scavato tra le colline di Los Angeles e capace di contenere 17000 persone, si è configurato come centro culturale e artistico multiforme e stimolante per la ricchezza delle proposte e per l’originale convivenza di più stili musicali.
Tra Giugno e Settembre, ogni anno, una serie di concerti e di artisti si susseguono su quel palcoscenico letteralmente “Sotto le stelle” capace di ospitare personalità che vanno da Fred Astaire fino agli Aerosmith, da Frank Zappa a Debbie Reynolds, passando per Leopold Stokowski, Otto Klemperer, Fritz Reiner, Bruno Walter, Georg Solti, Leonard Bernstein, Zubin Mehta, Esa-Pekka Salonen per non parlare dei numerosi cantanti d’opera che hanno attirato migliaia di appassionati.
Di fronte a tali eventi anche i media come radio, televisione e cinema non hanno rinunciato a prendere parte alle manifestazioni registrando molti degli avvenimenti.

La sera dell’8 Luglio 1947 salì sul podio dell’Hollywood Bowl, alla testa della magnifica Los Angeles Philarmonic Orchestra, il leggendario direttore d’orchestra Bruno Walter, proponendo un programma concertistico all’insegna di Wagner, comprendente il Preludio dai Meistersinger, l’Ouverture e Baccanale dal Tannhauser, Preludio e “Liebestod” dal Tristan und Isolde, il Siegfried Idyll, la “Marcia funebre” e l’ “Olocausto” di Brunnhilde dal Gotterdammerung, facendosi affiancare dalla voce del soprano Helen Traubel.
Questo concerto si colloca alla fine dell’esilio che Bruno Walter, di origini ebree, si impose per sfuggire alle persecuzioni della Germania nazista, un periodo che coincise con gli anni più fecondi della sua carriera.
Collaborò assiduamente con tutte le grandi orchestre americane, tra cui le “Big 5” come allora venivano chiamate le prestigiose compagini di New York, Boston, Cleveland, Chicago e Philadlphia; fu ospite fisso al Metropolitan in cui diresse opere di Beethoven, Smetana, Mozart, Gluck e Verdi dal 1941 al 1946, anno in cui deciderà di riallacciare i rapporti con l’Europa, e che lo rivedrà tornare negli anni ’50.
Cosa si ascolta nella registrazione di quella serata?
La cosa che colpisce della lettura che Walter dona al Preludio dei Meistersinger, è la rapidità!
Il direttore imprime alla partitura un ritmo sostenuto, veloce, in cui gli archi, gli ottoni ed i fiati si rincorrono come travolti da una fluidità narrativa ricca di brillantezza,.
Il fraseggio orchestrale è netto, e nonostante la scansione temporale, ogni nota, ogni movimento vengono esaltati con la dovuta leggiadria richiesta.
Così il Tema dei Maestri è reso con forza e rifugge dall’essere pesante o marziale, quello di Sachs e quello più fresco di Walther possiedono una articolazione densa e scoppiettante, quasi un continuo rubato, mentre le frasi più sinfoniche virano verso un romanticismo di lunare morbidezza soprattutto quando lascia che il volume si attenui e l’orchestra quasi sussurri.
Magnifico il finale in cui, prosciugati da ogni facile trionfalismo bandistico, i temi principali si fondono con la giusta luminosa morbidezza e le due note finali, staccate all’unisono dall’orchestra, suonano precise e vigorose.
Inaspettato, addirittura, l’approccio utilizzato da Walter per il seguente brano in cui la struttura musicale viene frammentata in un continuo gioco di contrasti condotti all’estremo della loro espressività.
Inizio faticoso e pesante quello imposto al preludio del Tannhauser, la cui lentezza rende fin troppo severo e ieratico il tema legato al canto dei pellegrini, ma è struggente il gioco dei volumi orchestrali in cui il suono diventa un tragico muro che arriva ad assottigliarsi prodigiosamente fino all’ingresso dei nuovi motivi.
Gli archi, intensi, si sdoppiano pizzicando e ammorbidendo la sacralità iniziale, fino ad introdurre come se fosse un colpo di scena, la danza sfrenata del Baccanale.
Il ritmo diventa forsennato e per contrasto il tema del Venusberg si colora di una sensualità soffice e sinuosa prima di introdurre a sua volta la musica che identifica il cantore a cui il direttore imprime una dinamica violenta dal grande impatto sonoro, quasi aspro nella sua eccessiva ricchezza timbrica e nella tensione dei violini.
All’arrivo dei flauti e degli ottoni tutto sembra precipitare in un vortice sonoro in cui nuovamente i temi sembrano lottare tra loro, come a visualizzare esattamente un groviglio di corpi al posto delle note e degli strumenti.
Esausta dopo i pizzicati, l’orchestra dapprima esplode per poi drammaticamente ridursi fino al silenzio immaginando il richiamo delle sirene preceduto dal placido e voluttuoso tema di Venus.
Con Tristan und Isolde ascoltiamo quanto Mahler scorra nelle vene di Bruno Walter, quanto il direttore padroneggi gli influssi della musica novecentesca e si comprende bene come direttori del calibro di Mitropoulos, Bernstein e Abbado abbiano studiato a fondo la sua lezione.
La straordinaria modernità di questa lettura commuove proprio perché Walter usa gli strumenti musicali come se fossero voci.
E’ un dialogo asciutto, lucido e tangibile quello che si instaura tra Walter e la sua orchestra, così l’accordo iniziale entra quasi in punta di piedi, con un suono ricco di fremiti, tragico nella sua compostezza e rallentato nel suo tempo.
Soavissima invece la musica che accompagna il riconoscersi dei due amanti, con i temi della notte e del filtro esaltati da un accompagnamento come sospeso in una dimensione onirica, come straziante è il tema del lamento di Tristan, oppure l’avvicendarsi dei temi lugubri e sensuali del duetto d’amore nella loro estatica decadenza.
Gli strumenti suonano timbrati e rigogliosi, non esitano a fondersi in un suono unico, diafano eppure magnificamente denso, angoscioso nel suo perenne raffigurare i dolori ed i desideri di Tristan e Isolde, mentre trova un attimo di pace quando introduce genialmente la musica del pastore, interpretata quasi come un eco ovattato e distante, per poi spegnersi ripetendo il tema iniziale nella sua lenta corsa verso il buio.
L’attacco al Mild und Leise tra l’orchestra e la Traubel non è purtroppo perfetto, ma ciò che viene dopo è musicalmente straordinario.
Walter mantiene l’orchestra su un sussurro estatico e aumenta leggermente i tempi.
Il soprano scelto ad interpretare la morte di Isolde e successivamente quella di Brunnhilde è Helen Traubel.
Soprano di vocazione wagneriana, dalla carriera quasi esclusivamente americana e di casa al Metropolitan dal 1937 al 1953, si inserì tra il regno di Kirsten Flagstad e di Marjorie Lawrence e anticipò di poco Astrid Varnay.
Fu grande interprete di Sieglinde, Elisabeth, Brunnhilde, Isolde, Elsa, Kundry, Marescialla e dell’opera contemporanea Man without a country di Walter Damrosch.
Nel suo ultimo anno di permanenza nel teatro che le diede fama, fece scandalo, poiché scoperta a cantare nei Night Club.
Cacciata dal Metropolitan, partecipò in seguito a film musicali, a programmi televisivi, musicals e operette, dedicandosi anche alla scrittura di romanzi gialli e autobiografici.
Voce spinta dall’accento drammatico, duttile e poderosa, elastica e omogenea, la Traubel nel Liebestod pecca probabilmente nell’espressione.
La voce colpisce sicuramente per la potenza, per la facilità della proiezione del suono, per l’uso accorto dei portamenti, di cui abusava pesantemente nelle recite di cui ci resta testimonianza, per l’accento solido, per il fraseggio composto, anche fin troppo misurato, ma per aspettare un’inflessione vagamente partecipe dobbiamo attendere gli ultimi quattro versi e la nota finale, il Sol di “Lust”, in cui la cantante “cerca” di emettere un pianissimo, che purtroppo risulta tendenzialmente calante anche se ripreso vanificando l’effetto della trasfigurazione.
Il Siegfried Idyll, regalo che Richard Wagner fece alla moglie Cosima quando diede alla luce Siegfried appunto e che il compositore riutilizzerà per il “mormorio della foresta” e per il duetto finale dell’opera omonima, è reso da Walter con un tono affettuoso, favolistico e sognante.
Ne scaturisce una visione leggera e melanconica fatta di sonorità infantili, dolcemente evocative.
Il tema della morte ed il suono minaccioso dei timpani introducono, invece, la “Marcia funebre” del Gotterdammerung completamente prosciugata da ogni eroismo.
I temi si accavallano nella loro nuda crudezza, quello della pietà, dei Welsunghi, della pena d’amore, di Siegfried e Brunnhilde perdono la loro connotazione grandiosa e sovrumana, per raccogliersi in un dolore altero in cui le note ascendenti e discendenti, le dissonanze non aprono squarci apocalittici, ma chiedono solennità e mestizia.
Peccato che le trombe non siano in piena forma in quanto il loro suono traballante e le note crescenti o calanti compromettono la riuscita finale del pezzo.
Se in Isolde la Traubel aveva in parte mancato l’obiettivo trascurando il fraseggio, con l’Olocausto di Brunnhilde ha modo di riscattarsi raggiungendo una vetta interpretativa realmente emozionante.
Lo “Starke Scheite” suona ieratico e volitivo nel suo essere espressione di comando, ma alle parole “Wie Sonne” la Traubel si abbandona ai contrasti espressivi alternando la dolcezza materna ad un rabbioso rimpianto, senza che nulla annebbi la linea vocale o inasprisca l’emissione della voce che brilla luminosa nella sua solidità.
La domanda “Wisst ihr, wie das ward?” colpisce per la commozione palpabile e le frasi successive sono spinte verso una tragicità rigorosa e statuaria.
Il pianissimo sulla frase “Ruhe, ruhe, du Gott” è leggermente vibrato, ma le frasi successive sono tutte votate verso l’esaltazione di una femminilità offesa, la cui voce spazia, senza soluzione di continuità, nel legato respirando all’unisono con l’accompagnamento sobrio di Walter.
Imperiosi, facili e raggianti suonano gli acuti delle frasi finali, nonostante qualche attacco faticoso, ma non invadente, e la voce trae forza dall’accento per non lasciarsi sopraffare dalla tessitura acuta che la Traubel affronta con spavalderia.
Del resto se lo può permettere!
I tempi di Walter sono incalzanti, precipitosi nel loro tendersi verso la catastrofe incombente, ma assolutamente plastici nel restituire l’amara solennità del momento e l’orchestra gli risponde con un suono incombente che esplode al comparire del tema delle Walkirie fino ad espandersi con il tema della redenzione di cui i violini restituiscono tutta la prorompente grandiosità.


Gli ascolti

Concerto wagneriano all'Hollywood Bowl
8 Luglio 1947


I Maestri Cantori di Norimberga - Preludio

Tannhäuser - Ouverture e Baccanale

Tristano e Isotta - Preludio e Morte d'Isotta

Idillio di Sigfrido

Il Crepuscolo degli Dei - Marcia funebre

Il Crepuscolo degli Dei - Olocausto di Brunilde

Los Angeles Philharmonic
Bruno Walter, direttore
Helen Traubel, soprano

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mercoledì 23 settembre 2009

Agrippina di Handel: MiTo 2009

L’appuntamento operistico della rassegna MiTo 2009 – come di consueto dedicato alla musica barocca (forse per una malintesa idea di cultura, che in realtà nasconde solo una moda: giacché è inspiegabile, altrimenti, il fatto di non considerare neppure, altri titoli di altri repertori che, quanto o più del barocco, meritano tutela e valorizzazione) – è rappresentato, quest’anno, dall’Agrippina di Handel, in scena il 22 settembre al teatro CRT di Milano. Il titolo, doveroso omaggio al 250° anniversario della morte dell’autore, verrà riproposto – ovviamente e insensatamente in una produzione diversa – a Venezia: un curioso aspetto, questo, dell’Italia sprecona che da una parte si piange addosso e si lamenta dei tagli al FUS, dall’altra si permette il lusso di sperperare i propri fondi (evidentemente non così scarsi come va blaterando) in 2 differenti allestimenti della stessa opera (non di repertorio, tra l'altro), denotando, così, scarsa originalità e assenza totale di un’idea di gestione economica degli eventi artistici.

Sesta opera di Handel – e secondo (e ultimo) lavoro teatrale del periodo italiano dell’autore (il primo fu il Rodrigo, rappresentato a Firenze l’anno precedente) – ebbe la sua prima rappresentazione a Venezia tra il dicembre del 1709 e il gennaio del 1710: le cronache raccontano di un successo trionfale. John Mainwaring, contemporaneo del caro Sassone e suo primo biografo, racconta di un pubblico impazzito, di un teatro che, ad ogni pausa, risuonava di grida e applausi e “altre espressioni di consenso tanto stravaganti da non poterle ridire”, attribuendo tale delirio alla sublimità e grandezza di uno stile che mai fino ad allora era stato conosciuto! Il primo cast presentava alcuni tra i cantanti più in vista dell’epoca: Margherita Durastanti nel ruolo di Agrippina, Diamante Maria Scarabelli in quello di Poppea, Antonio Francesco Carli in quello di Claudio, l’Ottone di Francesca Vanini Boschi e il Pallante di suo marito, Giuseppe Maria Boschi, nonché i castrati Valeriano Pellegrini nel ruolo di Nerone e Giuliano Albertini in quello di Narciso, oltre a Nicola Pasini nel ruolo del servo Lesbo (sconosciuto il contralto che interpretò Giunone). Cast dominato dalle due primedonne, rivali sulla scena e nella vita reale: entrambe caratterizzate dalla spettacolare estensione della voce (quasi due ottave) e dalla straordinaria agilità. Grande estensione caratterizzava pure la voce dei due bassi (circa due ottave e mezzo), mentre il range ridotto del primo Nerone veniva compensato dalla padronanza della coloratura. Più modeste le altre parti, segnate, per questo, da una scrittura più semplice. L’opera presenta tutti i caratteri dell’Handel italiano: già emersi nelle cantate e negli oratori (tra cui uno dei suoi capolavori, La Resurrezione, dal quale prenderà diversi brani), qui trovano la più compiuta realizzazione, e già compaiono certe anticipazioni di quello che sarà il suo stile più maturo (nonostante una struttura che rispetta rigidamente le convenzioni dell’opera veneziana con pochi spazi lasciati all’orchestra, ai cori e agli insiemi, con le arie tripartite e i recitativi secchi, alcuni brani solistici abbandonano la forma consueta, per quella di cavatina o arioso). Vertice compositivo dell’opera è la complessa scena dell’ingiusta accusa di tradimento ad Ottone, una delle più straordinarie del teatro handeliano, dove nell’alternarsi di recitativo accompagnato e arie degli sdegnati protagonisti, Ottone rivolge le sue suppliche ad ognuno di essi che rifiutano ogni comprensione sino al lento sfociare nel sublime largo “Voi che udite il mio lamento”. Opera di transizione, dunque, a mezza via tra perfezione formale e sperimentalismo, e necessaria per comprendere il passaggio al periodo londinese. Il compito di renderne appieno tutti i caratteri e le difficoltà, viene affidato, dall’organizzazione della rassegna, ad Alan Curtis e ai suoi complessi: scelta improvvida e dai risultati largamente insufficienti. A cominciare proprio dalla direzione e dalla concertazione. Curtis si conferma, infatti, uno dei più monotoni interpreti handeliani oggi in circolazione (inspiegabilmente assurto agli alti onori di esecutore di riferimento in tale repertorio per la sempre più decaduta DGG – Archiv), cultore fedele dei dogmi baroccari, ma resi con piattezza inconfondibile e unica: ogni titolo che ha la sventura di passare tra le sue mani si trasforma in una lunga e noiosa sequenza di arie noiose e noiosi recitativi. Lettura grigia e priva di respiro, colori, tensione, varietà dinamica, ritmo. I da capo delle arie vengono (timidamente) variati tutti nello stesso identico modo e nessuna cadenza viene inserita alla fine delle stesse (scelta filologicamente discutibile), mentre è assente ogni tentativo di colorare il suono. In un clima siffatto cercare un barlume di quella teatralità innata dello stile handeliano e presente in tutte le sue opere, è utopia, nell’anestesia totale inflitta dalle cure di Curtis. Il quale riesce, poi, in una vera e propria “impresa”: nonostante i numerosissimi tagli, infatti, l’estenuante serata pincipia alle 21 per concludersi, dopo un solo e breve intervallo, oltre la mezzanotte e mezza! Una durata wagneriana dovuta alla bolsa pesantezza e alla pigra monotonia della concertazione. Accennavo ai tagli: molto numerosi e ingiustificati (se non per far sì che l’opera non durasse 5 ore). Curtis massacra la partitura: sforbicia molti recitativi ed omette la sezione B (con il seguente da capo) di due arie (il Nr. 15 di Claudio e il Nr. 30 di Ottone), mentre taglia del tutto ben sette brani solistici (Nr. 9 – Agrippina; Nr. 23 – Agrippina; Nr. 24 – Poppea; Nr. 25 – Nerone; Nr. 39 – Ottone; Nr. 40 – Poppea; Nr. 47 – Giunone, personaggio che di fatto è eliminato da Curtis, insieme al vero finale dell’opera) oltre al Ballo conclusivo. Incredibilmente la scena più massacrata è proprio la pagina più alta dell’opera: quando Ottone è ingiustamente accusato. Qui sopravvive il solo largo, mentre tutto il resto è rimosso senza alcun senso. Si aggiunga poi l’arbitraria eliminazione di timpani e trombe, previste in partitura in alcuni brani (tra cui il Coro “Di timpani e trombe al suono giulivo” che, senza i suddetti strumenti appare grottesco e privo di significato). Ecco gli effetti di una filologia zoppa e interessata (e profondamente falsificatrice)! Già, perché Curtis è annoverato tra gli specialisti del genere e tra i musicologi più attenti. Parimenti censurabile è il suo Complesso Barocco: compagine dal suono secco, arido e puntuto, con archi stridenti e serissimi problemi d’intonazione (tanto che più volte nel corso dell’opera, il continuum musicale è stato interrotto per diversi minuti, al fine di consentire l’accordatura, inutile, degli strumenti). Ingiustificabili però le stonature dell’oboe nella splendida aria di Agrippina “Pensieri, voi mi tormentate”, con obbligato dello strumento solista: uno strazio da dilettanti che avrebbe meritato, al termine, una salva di fischi! Assai deludente il cast. Alexandrina Pendatchannska, nel ruolo della protagonista, conferma le medesime sensazioni dell’ascolto discografico: protegé di Jacobs e presenza fissa delle sue incisioni, replica qui la pessima interpretazione di Donna Elvira ed Elettra. Una linea di canto spezzata e nervosa, in continuo alternarsi tra grida e sussurri, assenza completa di legato e difficoltà nello sgranare la coloratura. La voce è priva di quella rotondità che il repertorio affrontato richiederebbe, gli acuti sono stridenti e difficoltosi e il registro centrale è gonfiato e sforzato con suonacci gutturali e “di petto”. I recitativi, poi, vengono aggrediti con una veemenza e una ferocia tali da sembrare più adatti al verismo più truculento. In una lettura siffatta nulla resta dell’aulica nobiltà e della bellezza formale che è espressione tipica del belcanto. Molto più apprezzabile il Nerone di Tuva Semmingsen: la parte non presenta particolari difficoltà, e le arie – salvo l’impervia “Come nube che fugge dal vento” che ricorda il “Venti, turbini” del Rinaldo – sono quasi sempre di carattere elegiaco e comunque poco movimentate. Alla voce ben proiettata si associa una discreta tecnica nella coloratura (seppure talvolta – nelle parti più agitate – sembra perderne il controllo). La Semmingsen è l’unica che pare aver chiaro il concetto di corretta respirazione: la sola infatti che utilizza il diaframma e non la parte alta del busto (cosa evidente nell’osservare le sue colleghe sul palco, perennemente in apnea e col fiato corto, che ad ogni respiro sollevavano le spalle). Inizia bene Klara Ek, nel difficile ruolo di Poppea, sfoggia una bella voce con un bel timbro, una intonazione salda e delle buone colorature, tuttavia la cattiva tecnica di respirazione e le difficoltose scalate in acuto ne compromettono in parte l’esibizione. Del tutto insufficienti le parti maschili. Raffaele Costantini (Pallante) e Umberto Chiummo (Claudio) gareggiano in rozzezza e approssimazione: inutile cercare finezze, nobiltà, virtuosismi, si troverebbero solo suoni sguaiati e aperti, voce torniturante, agilità rabberciate. Per non parlare dei recitativi sbraitati e caricati di inutile pathos (in particolare Costantini, pronto per i fischi e gli ululati di certi Mefistofele da spedizione punitiva). Infine i controtenori: non me ne vogliano i loro ferventi sostenitori, ma se la riabilitazione del loro canto viene affidato a voci di tal fatta, allora la battaglia è persa in partenza. A parte il non sense - filologicamente parlando – di affidare Ottone (parte scritta espressamente per un contralto donna) ad un falsettista, il problema è nella scelta dell’interprete: che c’entra il molle e bianchiccio Iestyn Davies (dalla voce fissa e algida e dalla pronuncia assolutamente grottesca e incomprensibile) con la passionalità e il fuoco che dovrebbe muovere le azioni del suo personaggio, che arriva a rinunciare al soglio imperiale per amore? Taccio, perchè ormai il mio pensiero è noto, sul resto della sua scarsissima esibizione (ma non mi si dica che son prevenuto giacchè ben altro effetto mi fece l’Ottone di Michael Chance nella bella incisione di Gardiner...pur restando assurda la scelta di un controtenore). Ancora peggio il Narciso di Antonio Giovannini, dal timbro acido, leggero e sbiancato. Marginale l’apporto di Matteo Ferrara nel piccolo ruolo di Lesbo. Assente invece il personaggio di Giunone (e la sua bellissima aria finale) a causa delle sconsiderate scelte testuali di Curtis. Il pubblico, già in partenza non numeroso (diversi gli spazi vuoti in platea e galleria) e che col passare dei minuti e delle ore, durante l’estenuante serata, si è assottigliato sempre di più, era formato, in gran parte, dai soliti habituè dell’opera barocca, i quali al termine della rappresentazione – nel fuggi-fuggi dei comuni mortali – han tributato un breve e intenso applauso (eccessivo ed immeritato) ai suoi beniamini: non capisco se dovuto a convinzione, moda o obblighi di casta...

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martedì 22 settembre 2009

Orfeo di Monteverdi alla Scala


Abbiamo assistito alla seconda rappresentazione dell’Orfeo monteverdiano alla Scala, produzione affidata al duo Alessandrini - Wilson. Nel ricaricare le pile in attesa della seconda kermesse di “lirica antiquaria” di questo settembre musicale milanese, l’Agrippina di Haendel organizzata da MiTo, potrei pigramente rimandarvi alla recensione pubblicata su Il Giornale di lunedì 21 settembre, sottoscrivendola come condivisibile. Ma poiché questa è di fatto l’anomalia di un pieno consenso di stampa tributato dalle più grandi testate giornalistiche italiane, diremo anche noi la nostra nel merito.

Abbiamo assistito ad una serata graziosa e garbata, di bella suggestione scenica e musicale, di buon successo, ove nulla però è stato davvero convincente sul piano filologico, né pienamente rievocativo e magico, insomma tutto formalmente in ordine ma poco coinvolgente, tenuto conto che anche un musicista arcaico come Monteverdi può coinvolgere molto il pubblico.
La sala del Piermarini è uno spazio di dimensioni abnormi per questo genere di titoli, nati per sale o piccoli teatri di corte, e finisce per deformare i rapporti sonori originari. Come pure la vastità dello spazio scenico, gigantesco rispetto alla misura ed al clima dell’azione.
Il maestro Alessandrini ha diretto con bella velocità, senza rallentare troppo i tempi, ma non è stato troppo vario nell’alternare le velocità dei vari pezzi o nel ricercare suggestioni e colori. Una maggior varietà, soprattutto ritmica, nella prima parte avrebbe contribuito a coinvolgere maggiormente il pubblico, laddove la favola pastorale ha faticato a decollare perché gli interpreti non hanno cantato con la dovuta perizia di fraseggio né con belle qualità timbriche. Nella poetica di Monteverdi è centrale il ruolo dell’accento conferito tramite il canto: la chiarezza della dizione si unisce alla ricerca di colori ed intenzioni che devono “imitare” i sentimenti umani, creando l’emozione nello spettatore. La ricercatezza del testo letterario, poi, denso di elementi di retorica cortese, richiede il riconoscimento e la piena restituzione degli stessi, sia sul piano vocale che scenico. Nel mancato raggiungimento di questo obbiettivo sta il limite della produzione.

Ai cantanti manca una piena varietà di accento, sia per mende vocali che di dizione.
L’Orfeo di Georg Nigl ha una voce non sempre ben timbrata, morchiosa e nasale nelle salite verso l’alto; la dizione, per lui in particolare, è risultata poco chiara e scandita, tanto che spesso abbiamo fatto ricorso all’aiuto del lettore luminoso. Da qui il limite espressivo e l’effetto raggiunto solo a metà nei grandi monologhi del protagonista, tra le pagine più straordinarie e suggestive di Monteverdi ( valga per tutti la scena con Caronte, dove no ha nemmeno cantato molto correttamente… ). Preoccupati più che dal canto dall’obbedienza ai dictat della moderna filologia vocale antica, in particolare gli attacchi fissi delle note tenute, anche gli altri interpreti, dimentichi che anche per i cantanti dell’epoca si era soliti parlare di “voce bella” . Qualunque effetto ricercato nel canto melismatico dalla Messaggera e dalla Speranza di Sara Mingardo è scomparso causa un’emissione troppo gutturale ed ingolfata, come pure dicasi per il Caronte di De Donato, dalla voce dura e ruvida. Meglio l’Euridice e la Musica della Invernizzi, pur con qualche fissità eccessiva.
Quanto alle deità infernali, che nel costume e nelle movenze (anzi, non movenze) richiamavano la tradizione ritrattistica coeva a Monteverdi e più ancora il recente “Il mestiere dell’armi” di E. Olmi, li abbiamo sentiti poco anch’essi, soprattutto la signora Milanesi.
Insomma, un bilancio generale di voci di bassa sonorità e scarso fascino timbrico: se vogliamo essere pietosi possiamo imputare la circostanza alla posizione della voce; se, viceversa vogliamo omettere gratuite giustificazioni, possiamo dire che le voci di limitato sostegno e proiezione non possono sentirsi in un teatro di tale vastità. La prova la fornisce, al contrario, la voce di una dei pastori (Leonardo Cortellazzi), non certo grande, ma perfettamente sonora, udibile e di dizione chiarissima. Poi i baroccari di stretta osservanza potranno inorridire per il nostro aperto desiderio che si canti con tecnica ispirata a Garcia e non alle loro teorie, ma i casi sono due: o rappresentiamo questi titoli in ambienti adatti a voci piccole e prive di espansione, oppure in ambienti quali la Scala facciamo in modo che pratichino quella tecnica di canto, che non impedisce di piegare la voce alla ricerca di certe antiquarie suggestioni vocali.

All’allestimento è mancata la cifra esatta ed unitaria dell’insieme, non rispettando alcune convezioni irrinunciabili del teatro monteverdiano e dell’epoca. Esso è parso gradevole, come detto, sicuramente non nuovo, ricco di autocontaminazioni ( che sono di fatto la cifra di ogni spettacolo di Wilson ), citazioni ( consce?) di altro, a cominciare dal suddetto film di Olmi, ingenuità e tocchi naiv variamente assortiti, il tutto miscelato con gusto e mestiere. Dichiarata dal regista, la citazione di un Tiziano raffigurante Venere ed un suonatore di organo, apertamente ripresa nella bella prospettiva centrale del viale di cipressi. Meno bella la resa “plasticona” degli stessi, come pure degli animali addomesticati da Orfeo, che rinvia piuttosto a certe rese molto descrittive e realiste della natura dei pittori tardogotici, private però della loro magica atmosfera medioevale. Il verde sgargiante del prato è apparso a metà tra un immaginario giardino privato rinascimentale ed un campo da golf ( Pizzi a Bologna nel recente Vampiro è incappato nella stessa ambiguità di resa…..), in contrasto con il clima rarefatto e metafisico dei personaggi in scena, immobili o semoventi. Per tutta la sera siamo stati sospesi tra la rappresentazione cortese ( impossibile in quella vastità ) ed una metafisica alla Magritte, tra l’altro ben lontana dalla natura sensuale del preindicato Tiziano, la cui citazione diventa davvero pretestuosa perché ridotta alla prospettiva alberata.
Quanto ai setti murari della seconda parte, questi non sono né una novità né costituiscono un elemento peculiare a questa produzione, ma sono solo un artificio scenico comodo e funzionale, atto ad alludere ad un simbolico ingresso nell’Ade e a diventare palco per ospitare gli Dei. Dei che, tra l’altro, non trovano mai, nella gestualità come nei costumi, una differenziazione precisa da Orfeo e dagli altri umani e che, invece, è requisito Monteverdiano esplicito, perché presente chiaramente già nella vocalità. La diversa natura dei personaggi non può essere annullata sulla scena, perché la retorica del testo prende forma contemporaneamente in musica come in scena, nei gesti come nei costumi, per da vita al “recitar cantando”. Bob Wilson, invece, è stato preso dalla conservazione dalla propria personale maniera scenica, fatta di immobilismi e/o brevi gesti lenti, che hanno finito per giocare a suo sfavore, perché fini a se stessi e slegati dalle esigenze retoriche del tardorinascimento monteverdiano.
Il prodotto finale può anche funzionare, ma è privo di memoria storica e culturale, frutto di una sensibilità non italiana e di una scolarizzazione non classica,dunque estraneo alla nostra tradizione.

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domenica 20 settembre 2009

Patricia Petibon - Amoureuses

Sentiamo ripetere, a giorni alterni e sempre dai medesimi pulpiti, che i grandi cantanti di oggi non amano esibirsi nei teatri italiani (e in particolare in quello milanese) perché, quando lo fanno, ricevono un’accoglienza irriguardosa del loro status di sommi interpreti del repertorio lirico.
Patricia Petibon si è prodotta lo scorso mese di marzo in un’Alcina alla Scala. L’accoglienza è stata molto negativa alla première, assai più benigna alle repliche, in cui per tradizione consolidata, e pur con importanti eccezioni, il pubblico è uso dimostrare maggiore magnanimità. O magari, più semplicemente, latita. Tramontato il progetto, a suo tempo ventilato, di una nuova apparizione ambrosiana come Marguerite del Faust, la signora Petibon dovrebbe tornare in Scala fra due anni nel ruolo della poupée dei Contes d’Hoffmann.
Ascoltando il disco “Amoureuses”, uscito l’anno passato e comprendente pagine di Mozart, Haydn e Gluck, viene da pensare che il loggione scaligero, ormai ipostasi di ignorante rozzezza, sia stato, con la cantante francese, fin troppo mite e clemente.

Una considerazione preliminare sul titolo: è raro che un soprano, almeno nell’opera barocca e classica, non soffra o non faccia soffrire altri per amore, ma includere nella categoria personaggi come la Regina della Notte (figura di puro odio) o Giunia del Lucio Silla (in cui l’ansia di vendetta prevale decisamente sul sentimento nei confronti di Cecilio) appare francamente azzardato.

Quella di Patricia Petibon è una voce di cosiddetta soubrette. La figura della soubrette appare nel teatro in musica in epoca posteriore di almeno cinquant’anni al tramonto del diciottesimo secolo. Che Nancy Storace, prima Susanna, poco avesse che spartire con la suddetta categoria vocale, lo testimonia Hegel (se non piglio errore), quando afferma che l’esecuzione delle Nozze di Figaro da parte di una troupe italiana gli aveva per la prima volta rivelato la bellezza dell’opera, anche in virtù dell’impiego di una voce più corposa, segnatamente all'ottava bassa, nel ruolo della cameriera della Contessa. Ancor meno assimilabili alla vocalità soubrettistica sono altri personaggi affrontati nel disco, connotati da una vocalità seria di stampo italiano o financo da un declamato aulico in stile francese: la Regina della Notte (scritta per Aloysia Weber coniugata Lange, destinataria anche dell’aria “Vorrei spiegarvi o Dio”), Giunia, Zaide, Ifigenia tauridica, Armida (di Gluck e di Haydn), Flaminia de Il mondo della luna, Euridice.
Esiste una consolidata tradizione, prevalentemente germanica, di voci di soubrette applicate a questo repertorio. Raramente, però, abbiamo ascoltato, per di più in sede di registrazione ufficiale, una voce così letteralmente malmessa e un’interprete così poco ispirata.
La voce della signora Petibon suona priva del necessario appoggio: inesistente in prima ottava, i tentativi di smorzare e cantare legato producono suoni stimbrati e larvali, con occasionali slittamenti d’intonazione, tipici di chi non sostiene, mentre i passaggi da eseguirsi forte e di slancio portano a suoni incontrollati e incontrollabili fin dai primissimi acuti. A ciò si aggiunge il vezzo, derivato plausibilmente dalla frequentazione del repertorio barocco e degli attuali specialisti del ramo, di acuti marcatamente fissi e di passaggi al limite del parlato, in specie nelle arie di furore. La naturale conseguenza di un simile assetto vocale è un canto assai poco vario, in cui la concitazione e i bamboleggiamenti prendono il posto ora della coloratura, eseguita senza il necessario mordente e con scarso rispetto dei punti coronati, solo occasionalmente onorati di una cadenza, ora dei passaggi in stile declamato, che necessiterebbero di un congruo accento tragico. Oltre che di una maggiore ampiezza vocale, figlia di una natura e più ancora di una cognizione tecnica differente.
La situazione migliora nei brani più “leggeri” del disco, ossia quelli che presentano più contenute difficoltà esecutive: l’aria di Silvia da L’isola disabitata, l’arietta de Lo speziale e la cavatina di Barbarina. Anche in questi brani, sostanzialmente da mezzo soprano, la Petibon non rinuncia a estrose scalate all’acuto che mettono impietosamente in evidenza i limiti della cantante nel registro che dovrebbe, per dote vocale e frequentazione scenica, esserle più familiare.
Alla direzione del Concerto Köln, ensemble che si avvale di strumenti originali, come moda prescrive, Daniel Harding fa il possibile per adeguarsi ai limiti della solista, staccando tempi anche più rapidi di quanto sarebbe necessario e creando in orchestra quelle atmosfere che la voce non è in grado di evocare. Il disco resta comunque un bel buco nell’acqua: dovrebbe dimostrare l’eclettismo e la versatilità della sua protagonista, ma ne chiarisce in effetti i pesanti limiti naturali e tecnici, denunciando al tempo stesso la scarsa oculatezza con cui questi recital “di laboratorio” vengono assemblati.


Gli ascolti

Gluck

Armide


Atto III

Ah! Si la liberté me doit être ravie - Mireille Berthon (1929)

Mozart

Popoli di Tessaglia...Io non chiedo, eterni Dei KV 316 - Mady Mesplé (1965)

Die Zauberflöte

Atto II

Der Hölle Rache - Mado Robin (1947), Mady Mesplé (1966)


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venerdì 18 settembre 2009

Interviste ed insulti: la pretesa di essere applauditi

Il Corriere della Sera del 16 settembre ha pubblicato, sulla pagina dedicata alle recensioni musicali, un'intervista al maestro Daniele Gatti dal polemico titolo "I grandi cantanti evitano la Scala e la colpa è dei soliti contestatori".
Pochi giorni prima, a firma Mattioli sulla Stampa, era comparsa un'intervista a Cecilia Bartoli, che, pubblicizzando l'imminente uscita del recital Sacrificium e più ancora il debutto in Norma, non perdeva l'usata occasione di polemizzare sull'assenza propria e di altri divi dai teatri italiani e sull'ignoranza, presunzione e astoricità sempre del pubblico del paese del melodramma.
E sono solo gli ultimi atti dell'insulto costante cui il pubblico è fatto oggetto da parte degli addetti ai lavori.

Sopratutto l'intervista a Daniele Gatti invita a due riflessioni.
La prima contingente e, forse, di minor respiro ovvero replicare all'assioma enunciato nel titolo, la seconda più profonda dell'attuale rapporto palcoscenico-pubblico.
Quanto alla prima è vecchia e scontata. Da sempre cantanti famosi, che non è, oggi sopratutto, sinonimo di grandi, non frequentano i teatri di un certo paese. La disamina della carriere di una Galli Curci, una Tetrazzini e Caruso, post 1904, conferma l'assunto. Caruso lo fece, ufficialmente a seguito delle riprovazioni del pubblico napoletano verso il suo Nemorino e l'unica successiva apparizione del 1915 a Milano (al Dal Verme, però, non alla Scala) tutto fu fuorchè un plebiscitario successo. Ed in tempi più recenti se una grande come Eleanor Steber ebbe pochissimo seguito in Italia, per contro la carriera americana della Callas non fu quello che gli anglosassoni chiamano "a bed of roses". L'una rimase regina del Met, l'altra della Scala. Ed ho citato cinque cantanti di levatura assolutamente storica. Poi qualcuno, more solito, discuterà e proporrà distinguo.
I motivi di oggi sono quelli di allora. Simpatie, antipatie, interesse e disinteresse , cultura ed ignoranza di direttori d'orchestra ed artistici, potenza o incapacità di agenti, tresche di colleghi e colleghe rivali, comunanze o discordanze di religione, inclinazioni sessuali, razze, favori prestati o rifiutati.
Con buona pace del maestro Gatti l'elenco delle ragioni è ben più variegato di quello espresso dall'intervistato, probabilmente ancora ustionato dall'esito del recente Don Carlo.
Non solo, ma tutti i latori delle ragioni sopra elencate (prive della pretesa di essere esaustive) hanno in assoluto disprezzo del pubblico proposto ed imposto protetti e protette in dosi massicce e, oggi, senza alcun buon gusto e buon senso, la cui mancanza ha cagionato ai protetti, incorsi in incidenti di percorso in questo od in quel teatro. Massime alla Scala, sia pure con parsimonia rispetto ad un passato recente.
Figurarsi se il pubblicò esaltò e fischiò al tempo stesso fuoriclasse come Pavarotti, la Verrett o la Caballé, si possa porre dei problemi a trasformare ogni recite di un soprano, che sostituì per ragioni extrartistiche la riconosciuta specialista rossiniana, in autentiche salite al Monte Calvario.
Ma ed entriamo nel secondo e più profondo aspetto di riflessione che queste ed altre interviste stimolano ovvero il rapporto con il pubblico. I cantanti di un tempo, capitanati da una Tebaldi o da una Callas, hanno sempre riconosciuto principio irrinunciabile il rispetto per il pubblico, che premia e punisce, "atterra e suscita" e, quindi, che esige il massimo sforzo, la massima preparazione, quello che, con melodrammatica semplicità, le dive del verismo definivano "dare tutta me stessa".
Lo sapevano anche gli addetti ai lavori, attenti ed oculati nel proporre sul titolo meno rischioso l'imposto o l'imposta di turno o nell'innestare opportune retromarce.
La dirigenza scaligera, a seguito delle recriminazioni di Giacomo Lauri Volpi, atteso divo, che minacciava il forfait, sollevò dal ruolo di Gilda nel Rigoletto il soprano Pierisa Giri, la "Petacci" di Starace dallo stesso imposta. Negli anni Cinquanta la signora Legge, ossia la signora EMI, limitò presenza e repertorio a titoli sicuri, non pretese Traviate e Tosche o Bohème, come accadrebbe oggi, quando innanzi lo sfascio della imposta scelta si indicherebbe unica causa cattiveria, ignoranza, mania di protagonismo del pubblico. Loggione in primis. Troppo comodo, come è troppo comodo tacere, ad onta del fatto che tutti sappiamo per quale motivo una scritturata protagonista di Aida, cantante solidissima e di cospicua carriera internazionale, sparisca dal cartellone ove, invece, permane la deuteragonista, che vociferante e rozza, viene protestata dal pubblico e non già da chi, direttore d'orchestra e direttore artistico, dovrebbe provvedervi e per rispetto al pubblico e per giustificare la propria posizione.
Quest'ultimo aspetto rende doveroso rammentare a Daniele Gatti che irresponsabile potrebbe essere il tenore, che minaccia piazzate, quando rimosso (perché non ufficialmente protestato, oggi fa il soft non l'hard), ma che l'artista si trova in ottima e pari compagnia, perché è documentale che venne visto, sentito ed ascoltato, un paio di mesi prima dell'incriminato sette dicembre, da direttore e dirigenza, recatisi in Zurigo per il di lui debutto nel title role. E per spirito di completezza erano mesi che tutti i fori operistici, anche quelli che praticano buonismo e tolleranza, sollevavano documentati dubbi circa la possibilità di esito soddisfacente di quella scelta basandosi, fra l'altro, su un difficoltoso Edgardo scaligero.
Certo che, poi, dichiarare e titolare che i cantanti non vengono perché il pubblico fischia è un atteggiamento quanto meno acritico ed irresponsabile.
E' l'atteggiamento connaturato in un mondo dove la carriera è propiziata e sostenuta per diritto ereditario, di religione, favori d'ogni sorta, potenza di agente e major discografica, pagine di pubblicità e di recensioni pubblicitarie, tavolate con il pubblico ed altro.

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mercoledì 16 settembre 2009

Caro Maestro, cara Giulia / 4

Mia cara Madama de Candia,
il Vostro amore per l’arte Vostra e mia vi induce in errore. Sapete benissimo che le mie più sacre pagine sono pensate e scritte per Voi e che ne siete suprema interprete, perché artista e donna di Fede.
Sapete anche, mia cara Giulietta, che la Vostra voce mi sopravviverà e per sicuro sarete Voi a pregare per questo vecchio peccatore, quando il Buon Dio mi vorrà, coll’Inflammatus.
Madama Rossini Vi saluta ed attende, come pure questo vecchio che si pregia di scrivere.
Vs. devoto

Rossini


Gli ascolti

Rossini - Stabat Mater


Inflammatus - Birgit Nilsson (1961), Lella Cuberli (1985)

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lunedì 14 settembre 2009

Diana Damrau in concerto alla Scala

Grande successo ieri sera alla Scala per Diana Damrau in concerto. Un programma liederistico di brani molto celebri di Strauss, Faurè e Debussy, presentato in modo originale con accompagnamento d’arpa anzichè di pianoforte. Ad accompagnare la grande cantante tedesca Xavier de Maistre, che ha eseguito anche due intermezzi solistici, uno da Faurè l’altro da Debussy, riscuotendo un successo pari a quello della Damrau.
Una serata di buona musica eseguita con grande eleganza e gusto.


Che dobbiamo dirvi di più?
Che la signora Damrau è musicista di classe e che su questa qualità organizza la sua performance, limitando al massimo quella maniera in cui spesso i soprani leggeri di scuola tedesca incorrono e che le collocano spesso lontane dal nostro gusto. Pur restando fedele alla sua tradizione, esibisce un canto scevro da ogni stucchevolezza o affettazione e gli effetti che ricerca sono raggiunti con apparente semplicità e facilità.
Diana Damrau ha dalla sua uno strumento di modesto volume ma composto ed argentino, sicchè il suono arriva quasi sempre omogeneo e stilizzato, anche laddove la cantante fa uso di suoni non ben immascherati, nei piani soprattutto. E’ molto attenta la Damrau a mantenere l’emissione composta ed uniforme, ed in questo gioca a suo favore la scrittura dei brani prescelti, tanto che le mende tecniche, ben udibili allorquando esegue l’opera italiana o certo Mozart, sono state del tutto attutite ier sera. Abbiamo apprezzato la cura con cui ha ricercato colori e nuances, fidando poco sullo strumento di accompagnamento, l’arpa, che, per quanto suggestiva ed insolita, resta uno strumento privo di cavata e, perciò, limitato nelle possibilità espressive. Insieme ad altri ci siamo domandati le ragioni di questa scelta che, per quanto originale ed interessante, alla lunga non ha aiutato il canto per limiti intrinseci. Abbiamo goduto delle belle trascrizioni dei brani come degli intermezzi offerti dal bravo ed applauditissimo de Maistre, ma la scelta alla fine ci è parsa più che altro un vezzo di buona suggestione.
Non a caso la Damrau ha collocato a fine serata i brani più celebri ed emozionanti del programma, e proprio in quelli ha toccato maggiormente il pubblico, Die nacht in particolare. Ma proprio in quelli, forse perché li abbiamo vivi nel ricordo eseguiti da molte grandissime cantanti del passato, il soprano tedesco ci ha ricordato i suoi limiti vocali: i piani piuttosto fissi e falsettati, i primi acuti attaccati sempre piano, flautati e talora “da sotto”, la difficoltà a dare volume vero alla voce senza scomporre il suono. Il pensiero va a quel “mostro” di tecnica udito poco tempo fa nella stessa sala, Edita Gruberova, ancor oggi capace di produrre sul centro un suono cristallino ampio e proiettato, che è stato per trent’anni il baricentro della sua linea di canto. La sua tecnica è quella antica, della grande tradizione italiana, dei leggeri dei 78 giri, delle somme esecutrici di Morgen come la Schumann, ed è la sola che consenta di dare alla voce maggiore sonorità e di avere più colori di quelli che la Damrau ieri sera aveva di certo nella mente ma non nella voce. L’eccesso di parlato di Morgen ( che solo un paio d’anni fa eseguiva con ben maggiore legato, si ascolti l’audio su You Tube ) o i falsetti del bellissimo Die Nacht si dimenticano in una serata di lied, ma sussitono per emergere con peso diverso quando il soprano tedesco pratica il repertorio, come nella recente Lucia del Metropolitan. Solo riallacciandosi a quella tradizione di tecnica vocale la Damrau può pensare di dare alla sua voce chiara ed argentina la proiezione, l’espansione e la dinamica necessari per abbordare Lucia, Rigoletto o Traviata senza difficoltà alcuna.

PROGRAMMA

Richard Strauss
Ich schwebe op. 48 n. 2
Efeu op. 22 n. 3
Nichts op. 10 n. 2
Winterweihe op. 48 n. 4
Allerseelen op. 10 n. 8

Gabriel Fauré
Impromptu op. 86
per arpa

Après un rêve op. 7 n. 1
Clair de lune op. 46 n. 2
Sérénade toscane op. 3 n. 2
Les berceaux op. 23 n. 1
Adieu op. 21 n. 3
Notre amour op. 23 n. 2

Claude Debussy
Nuit d’étoiles
Les lilas
Fleur des blés
Clair de lune
Mandoline
Beau soir

Arabesque n. 1
versione per arpa

Richard Strauss
Freundliche Vision op. 48 n. 1
All’ mein’ Gedanken op. 21 n. 1
Wiegenlied op. 41 n. 1
Die Nacht op. 10 n. 3
Morgen op. 27 n. 4
Kling! op. 48 n. 3

BIS
Richard Strauss
Staendchen
Vincenzo Bellini: Capuleti e Montecchi
Oh quante volte
Franz Schubert
Ave Maria

Gli ascolti

Strauss

Ich schwebe - Beverly Sills (1969)

Allerseelen - Dusolina Giannini (1929)

Fauré

Après un rêve - Magda Olivero (1980)

Les berceaux - Félia Litvinne (1902)

Debussy

Clair de lune - Erna Berger (1942)

Beau soir - Claudia Muzio (1934)

Strauss

Freundliche Vision - Eleanor Steber (1956)

All’ mein’ Gedanken - Elisabeth Schumann (1932)

Die Nacht - Leontyne Price (1984)

Morgen - Cloe Elmo (1947)

Bis

Schubert

Ave Maria - Elisabeth Rethberg (1924)



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domenica 13 settembre 2009

Linda di Chamounix

Appartenente a quel genere larmoyant – a mezza via, cioè, tra il dramma borghese e l’opera buffa – che tanta fortuna ebbe a cavallo del secolo XIX (destinato però, a rapida scomparsa, contestualmente alla diffusione del fosco melodramma romantico e della commedia di carattere), la donizettiana Linda di Chamounix è, forse, insieme a Sonnambula e Gazza Ladra, il più riuscito e alto esempio di questa particolare tipologia musical teatrale. Scritta da Donizetti tra il dicembre del 1841 e il marzo del 1842, ebbe la sua prima rappresentazione a Vienna, il 19 maggio di quello stesso anno. Primo dei due titoli commissionati al compositore dal teatro austriaco, la Linda di Chamounix (così come la Maria di Rohan dell’anno successivo), rivela la grande cura che il Maestro impiegò nella composizione della partitura – in particolare l’aspetto strumentale e orchestrale – conscio, probabilmente, di rivolgere il suo lavoro al pubblico più preparato (musicalmente) d’Europa.

Da qui deriva l’attenzione di Donizetti agli impasti timbrici degli strumenti, alla elaboratissima orchestrazione, all’ampio utilizzo di brani destinati all’orchestra sola. Anche la struttura dell’opera risente della destinazione del titolo: Donizetti accelera, qui, il passo verso quella rivoluzione delle forme che caratterizzerà l’ultimo scorcio della sua carriera artistica. Evidente l’abbandono della formula dell’aria bipartita (aria e cabaletta) per sostituirla con un uso molto più libero delle forme: ricorrendo spesso a brani di natura strofica con couplets (derivanti dalla tradizione francese, soprattutto). Certa critica ha lamentato l’inconsistenza teatrale dell’opera, stigmatizzandone addirittura il valore musicale o ridicolizzandone l’ambiente bucolico di – cito – “coretti, trovatelli canterini en travesti, mamme meste, padri indigenti, ma dignitosi”: tuttavia questo ed altri fraintendimenti rivelano semplicemente la scarsezza di strumenti critici da impiegare nella valutazione – sempre rischiosa – del valore di una composizione, incapaci di coglierne correttamente gli orizzonti estetici e gli elementi poetici (unitamente al facile gioco di prescindere dall’ambiente culturale entro cui si muovono gli autori, in un discutibile divertissement di scarsa onestà intellettuale, entro cui qualsiasi titolo di ogni tradizione operistica verrebbe immancabilmente denigrato). Ma, lasciando perdere le personali isterie e paranoie di certi critici, si evince – dall’ascolto della Linda di Chamounix – come ben diversa è da valutare l’importanza del titolo. Così come la Gazza Ladra per Rossini, si nota uno sforzo impressionante nella costruzione della partitura e nell’elaborazione della musica (e forse poprio la grandezza del dato musicale - che sembra stridere con la semplicità della vicenda - pesa sull'incauto giudizio, quasi come se non ci si capacitasse di tanto sforzo per una storia in cui non son coinvolti eroi, guerrieri o passioni travolgenti: quanto si dovranno pagare ancora i pregiudizi romantici?). Anche qui si nota come alla mera centralità del canto (tipica del melodramma dell’epoca) si sostituisce una ricercatezza delle forme che abbraccia l’intera dimensione operistica, rendendo necessaria – per una esecuzione attendibile e ottimale della stessa – l’eccellenza di tutti gli interpreti: la trama orchestrale insolitamente densa e complessa, la linea di canto che spazia dalla coloratura più virtuosistica agli ampi squarci lirici e cantabili, da reggere con fiato e fraseggio, la resa malinconica e il tono di poetica nostalgia che deve emergere dal carattere dei protagonisti. Queste difficoltà e non la pretesa inconsistenza musicale o teatrale – unita ad una dimensione decisamente inconsueta (l’opera dura circa 3 ore, se eseguita integralmente, e richiede un cast ricco e resistente, con almeno 5 prime parti) – rendono il titolo di difficile fruizione e rappresentazione (e, del resto, la storia esecutiva è piuttosto risicata). La compagnia di canto di Vienna presentava nel ruolo principale Eugenia Tadolini e poi Marietta Brambilla, Napoleone Moriani e Felice Varesi, ma è nella ripresa parigina del novembre del 1842 che l’opera ricevette la sua più compiuta dimensione artistica. Per l’occasione Donizetti aggiustò la partitura e aggiunse, in omaggio alla primadonna, la celebre tyrolienne “Oh luce di quest’anima” (destinata ad avere vita autonoma rispetto all’opera, nel repertorio concertistico delle più grandi cantanti del secolo successivo). Protagonista per l’occasione fu Fanny Tacchinardi-Persiani: accanto a lei il Pierotto di Marietta Brambilla (reduce dalla prima viennese), il tenore Mario (Carlo), Antonio Tamburini (Antonio) e Luigi Lablache (il Prefetto). Cast delle grandi occasioni, quindi, adatto a rendere una partitura di estrema difficoltà. La critica viennese dell’epoca decretò un trionfo completo, rilevandone la grande novità stilistica e la magistrale perizia nell’orchestrazione (laddove i colleghi francesi, pur riconoscendone il grande successo, non notarono una così grande differenza rispetto allo stile tipico del compositore bergamasco: forse delusi per un’aspettativa troppo grande, creata dagli esiti trionfali di Vienna). Per Donizetti fu un grandissimo successo personale: la famiglia imperiale absburgica assistette a diverse rappresentazioni e l’autore venne onorato con titoli e onori, venne conteso dalle più importanti famiglie dell’aristocrazia austriaca e ricevette l’omaggio di Henriette Sontag e di Metternich in persona. Opera, dunque, che meriterebbe un’attenzione particolare ed un’esecuzione che ne metta in risalto la grande bellezza.
Proprio la Linda di Chamounix è stata scelta per inaugurare l’attuale edizione del Festival Donizetti di Bergamo e, nell’occasione, per riportare in vita lo splendido Teatro Sociale nella Città Alta, per lungo tempo chiuso al pubblico e che, con la poetica storia di Linda e Carlo riapre le porte alla grande musica del grande compositore bergamasco.
Agli spettatori che hanno udito l'opera a Bergamo, e a quanti, per vari motivi, hanno preferito non udirla, dedichiamo gli ascolti che seguono.


Gli ascolti

Donizetti - Linda di Chamounix


Atto I

Ambo nati in questa valle - Mattia Battistini (1912), Giuseppe Taddei (1959)

O luce di quest'anima - Maria Galvany (1908), Marcella Sembrich (1908), Luisa Tetrazzini (1910), Amelita Galli Curci (1922), Beverly Sills (1968), Edita Gruberova (1993), Mariella Devia (1997)

Per sua madre andò una figlia - Ebe Stignani (1948), Anna Maria Rota (1957), Fedora Barbieri (1959)

Da quel dì che t'incontrai - Cesare Valletti & Antonietta Stella (1959), Alfredo Kraus & Margherita Rinaldi (1972)

Atto II

Linda! Si ritirò...Se tanto in ira agli uomini - Gianni Raimondi (1953), Cesare Valletti (1959), Alfredo Kraus (1972)

Un buon servo del visconte - Mattia Battistini & Maria Mokrzycka (1912), Giuseppe Taddei & Rosanna Carteri (1957)

No, non è ver... mentirono - Antonietta Stella (con Fedora Barbieri - 1959)

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venerdì 11 settembre 2009

Rolando Villazón - Händel

Nel 2009 si celebrano i duecento cinquant’anni dalla morte di Haendel. La Deutsche Grammophon ne approfitta per distribuire il primo recital haendeliano di Rolando Villazón, tenore ultimamente più celebre per le sue vicende cliniche, che per quelle sceniche.

Già il fatto di proporre un disco di arie haendeliane pensate o riscritte alla bisogna per tenore, la dice lunga sulla natura, scopo e valore dell’operazione. Mai Haendel, o alcuno dei compositori a lui contemporanei, concepì un’opera in prima istanza per un tenore, e se lo fece, ciò fu determinato dall'insormontabile assenza di un primo uomo (evirato) o di una prima donna all’altezza. Del resto, l’opera seria del primo Settecento di ambito non francese non contemplava il tenore nei ruoli di eroe o amoroso (ruoli di assoluta competenza del castrato, o delle donne in seconda istanza) e assegnava alla voce virile le parti di padre, tiranno e antagonista in genere.
Di fatto, dei dieci brani proposti nel disco, solo cinque sono stati scritti per una voce maschile, e tre di questi, nello specifico, per quella di Francesco Borosini, primo Bajazet del Tamerlano e Grimoaldo della Rodelinda, che fu, con Annibale Pio Fabri (di voce più acuta e più spiccata propensione per la coloratura vorticosa), uno dei pochi tenori di vaglia che si esibirono al King’s Theatre. Altre due arie provengono dall’oratorio giovanile La Resurrezione, scritto per Roma. L’altra metà del disco è costituita da brani tratti da opere scritte per castrato: Serse (primo interprete Gaetano Majorano detto Caffarelli) e Ariodante (creatore Giovanni Carestini). Risulta curioso che Villazón e il filologo Paul McCreesh, posto alla direzione del suo filologico complesso Gabrieli Players, non abbiano pensato di recuperare le arie di Sesto del Giulio Cesare, scritte per Margherita Durastanti, che lo stesso Haendel risistemò per Borosini in vista di una ripresa del titolo.
Non scandalizza che un tenore si appropri di arie composte per voci d’altro genere. In fondo "Ombra mai fu" è brano compreso nel repertorio di grandissimi tenori. Semmai lascia perplessi che una simile operazione possa avvenire nell’ambito di un’esecuzione, per giunta discografica, connotata dai crismi della filologia. Non ultimo l’utilizzo di quelli che usano definirsi “period instruments”. Certo occorre vedere quali sono gli esiti dell’operazione, ché solo quelli distinguono l’azzardo puro e semplice (che a volte si rivela assai poco puro e assai poco semplice) dalla scommessa riuscita.

Il disco si apre con la seconda aria di Bajazet, “Ciel e terra armi di sdegno”. La tessitura assai bassa del brano mette in evidenza la povertà della prima ottava di Villazón, conseguenza di una voce che ignora che cosa sia la maschera e quali benefici possano derivarne al canto lirico. L’esecuzione della coloratura, vedi le quartine su “sarò forte”, è molto imprecisa nella scansione ritmica, e gli ampi intervalli su “terra armi di sdegno, morrò invitto” sono risolti con suoni malfermi quanto veementi. Parche e caute variazioni del da capo (una costante in tutto il disco, al pari del mancato inserimento di cadenze alla fine di ogni sezione delle arie tripartite e in corrispondenza dei punti coronati, ignorati in media due volte su tre). L’ardore con cui il tenore aggredisce la scrittura haendeliana non lo aiuta a risolverne le insidie, e al tempo stesso riduce il sovrano prigioniero, figura nobile e tragica, a una sorta di ossesso con la bava alla bocca. Un simile approccio non mancherà di trovare estimatori, anche in ragione della “generosità” dimostrata dall’interprete. Noi restiamo dell’idea che si possa esprimere dolore, indignazione e orgoglio offeso anche senza digrignare i denti.
L’aggressività, con annessi sconfinamenti nel parlato più o meno intonato, è il segno distintivo anche del recitativo che introduce l’aria del sonno di Grimoaldo, “Pastorello d’un povero armento”. Il cantabile, di scrittura spianata e centralissima, evidenzia il bel timbro di Villazón, ma anche la tendenza a stimbrare i suoni nel tentativo di cantare piano e legato. Il meccanico accompagnamento di McCreesh (che segnerà anche altre pagine del disco, non ultima la sublime “Scherza infida”) priva la pagina del sapore arcadico e melanconico che le spetterebbe di diritto.
Alle prese con Serse, sovrano da opera seria ma con tratti e inflessioni che rimandano al repertorio di mezzo carattere e caratterizzato da una scrittura che, seppure virtuosistica, non raggiunge certo i vertici di ruoli come Rinaldo e Giulio Cesare, il buon Rolando dimostra ancora una volta la difficoltà a gestire una voce in natura anche valida (almeno sotto il profilo timbrico) ma tecnicamente sgangherata e, più ancora, un’estraneità totale al repertorio affrontato, in termini di gusto. Intendiamoci, non ci sono almeno in queste pagine le urla della recente Bohème cinematografica, ma il sussiego e l’eleganza indolente del tiranno persiano rimangono sulla carta, così come i trilli previsti in “Più che penso alle fiamme del core”. Zoppicante ancora una volta la coloratura di “Crude Furie degl’orridi abissi”, mentre “Ombra mai fu” evidenzia suoni strozzati e singhiozzanti in zona di passaggio (mi-fa#).
Gli assoli di Ariodante ripropongono i problemi sia nel canto spianato sia in quello di coloratura. A ciò vanno aggiunti, nella sezione centrale di “Scherza infida”, effetti di stampo paraverista (“l’indegno laccio”) che dovrebbero rendere lo sdegno e la disperazione del personaggio. Ma non ci sentiamo di farne una colpa a Villazón, che in questo ha evidentemente avuto per maestri e modelli i più accreditati interpreti haendeliani dei nostri giorni, in primis Joyce DiDonato (vedi l’album “Furore”).
Ma dove l’imitazione dello stile da Cavalleria sulla piazza del mercato tocca il suo apice è nella scena della morte di Bajazet (impreziosita dai comprimari vocali, che citiamo perché raramente abbiamo sentito, almeno in un recital inciso in studio, voci tanto microbiche e male impostate: Jean Gadoullet e Rebecca Bottone). I rantolii, i suoni strozzati e i sibili non si contano, in un’imitazione naturalistica della morte per avvelenamento, indubbiamente efficace, ma poco plausibile se applicata a un’opera seria settecentesca. Se non altro perché tali soluzioni sonore contrastano con l’essenzialità e la purezza assoluta della cantilena “Figlia mia non pianger no”, nonché con la sdegnosa alterigia che nel corso di tutta l’opera caratterizza la figura dello sconfitto imperatore turco. Si potrebbe obiettare che una recitazione caricata, per non dire gigionesca e magari anche grandguignolesca ante litteram, non era estranea alla pratica teatrale del tempo, così come descritta dalle cronache. A questo potremmo rispondere che, sempre per imitare e riproporre filologicamente gli usi e i costumi teatrali del tempo, gli interpreti odierni dovrebbero ostacolarsi a vicenda, ingiuriarsi e magari schiaffeggiarsi ad libitum nel corso della rappresentazione. E che comunque certi eccessi, nella resa teatrale dei personaggi, erano per il solito compensati da una resa vocale all’altezza dell’ispirazione haendeliana. Resa vocale che, nel caso di Villazón, ci pare assai punitiva. Per non dire di peggio.
Quanto alle arie de La Resurrezione, oratorio a suo tempo giudicato scandaloso per l’impianto schiettamente operistico della narrazione e la marcata sensualità delle melodie (oltre che per la presenza, limitatamente alla première, di cantatrici, alle quali per pontificio decreto si vietava di esibirsi in pubblico), registriamo un’esecuzione priva di pathos e abbandono. “Così la tortorella”, brano che insiste sul passaggio con diversi attacchi su fa e sol, dimostra ancora una volta la difficoltà dell’interprete a cantare in questa zona senza compromettere la tenuta della linea vocale. Molto dubbi i tentativi di trillo che nel da capo dovrebbero fungere da opportuna, anzi necessaria, variazione in secondo enunciato. “Caro figlio” è risolta con una maggiore pulizia complessiva, benché nella prima parte dell’aria gli intervalli di sesta alle parole “figlio caro amato Dio” siano eseguiti con voce tutta fuori di sesto, mentre nella sezione successiva gli attacchi in zona di passaggio e il fa tenuto di “e se lento” confermano che per cantare a fior di labbro, come Villazón lodevolmente si sforza di fare, occorre una tecnica saldissima, se non si vuole che l’orecchio del pubblico percepisca, per l’appunto, solamente lo sforzo.

Certo, dopo avere ascoltato il disco “Bel Canto” di Elina Garanca, viene da aggiungere alle precedenti considerazioni che, se non altro, il simpatico Rolando non annoia mai, cerca quasi sempre di rispettare il carattere del testo (letterario, se non musicale) e non fa dormire... Ma che si tratti di un buon disco, è cosa che nemmeno i più accaniti sostenitori del divo messicano possono affermare senza arrossirne. E non solo a causa della scarsa aderenza stilistica, ma perché con siffatti problemi tecnici non si incidono dischi per un'importante etichetta discografica, bensì si medita su come salvare quello che resta della voce e della carriera.


Gli ascolti

Haendel

Tamerlano


Atto I

Ciel e terra armi di sdegno - Bruce Ford (2005)

Rodelinda

Atto III

Fatto inferno è il mio petto...Pastorello d'un povero armento - Philip Langridge (1983)

Serse

Atto I

Frondi tenere...Ombra mai fu - Beniamino Gigli (1955), Fritz Wunderlich (1962)

Più che penso alle fiamme del core - Fritz Wunderlich (1962)

Atto III

Crude Furie degl'orridi abissi - Fritz Wunderlich (1962)

Tamerlano

Atto III

O per me lieto, avventuroso giorno...Figlia mia, non pianger, no - Bruce Ford (2005)


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