lunedì 30 novembre 2009

René Pape: Gods, Kings and Demons

René Pape, classe 1964 e quindi, da anagrafe, nella piena maturità vocale e interpretativa, ha inciso l'anno scorso il suo primo recital per la Deutsche Grammophon.
Da qualche tempo a questa parte pare impossibile realizzare un album di musica lirica senza evocare, nella grafica del cofanetto, nella réclame e magari sulle riviste specializzate, che manzonianamente potremmo definire disposte sempre all'obbedienza, il nome di un cantante del passato. Di rado si ricorre a un nome del passato prossimo, che qualche canuto ascoltatore potrebbe aver sentito dal vivo, magari più di una volta.
Va dato atto al signor Pape e al di lui management di avere scelto con oculatezza il modello di questo "Gods, Kings and Demons", omaggio a George London, baritono di un certo successo negli anni Cinquanta e Sessanta, protagonista di un'analoga e quasi omonima crestomazia discografica.
Altra caratteristica che distingue René Pape dalla maggior parte degli esecutori "discografici" moderni è l'avere egli in repertorio, se non tutte, certo un buon numero delle opere di cui propone estratti. Onore quindi all'onestà intellettuale del cantante di Dresda. Cui fa però difetto, va detto, un poco di autoanalisi.

I brani scelti spaziano infatti dal repertorio di basso (dai diavoli di Gounod e Boito a zar Boris, passando per re Marke, Filippo II e lo Spirito dell'acqua della Rusalka) a quello di basso-baritono (Wotan, il Demone di Rubinstein e il Mefistofele di Berlioz) fino a quello di baritono puro (l'aria - apocrifa - del Dapertutto dei Contes d'Hoffmann). Un programma imponente, che richiederebbe una voce capace di passare da un registro all'altro senza perdere in autorevolezza. A questo si aggiunge la necessità di trovare, di volta in volta, l'accento e i colori che siano, per ogni personaggio, i più pertinenti.
Il disco rende un grande servizio a René Pape che, dal vivo, non impressiona per volume e squillo. Tutt'altro. Il microfono, catapultando la voce in primo piano sullo sfavillante tappeto sonoro della Staatskapelle Dresden (davvero encomiabile), esalta il timbro piacevole, sebbene poco personale, del cantante tedesco, senza che egli debba preoccuparsi di risultare, nei punti di tessitura più grave, fioco. Come accadeva, ad esempio, nella Zauberflöte diretta da C. Abbado alcuni anni fa a Modena, in cui bastava il confronto con l'abbondantemente declinato Salminen (nella stessa produzione a Ferrara) per fare comprendere quale, fra le due, fosse l'autentica voce di basso richiesta dal sommo sacerdote di Iside ed Osiride.
Il disco non smentisce l'ascolto dal vivo. La voce, piuttosto magra al centro, malgrado il cantante si sforzi di irrobustirla conferendo al canto una netta qualità nasale, trova maggiore volume e colore prettamente tenorile nella zona che prepara e segue il passaggio di registro (do-mi4). Purtroppo in quella zona si verificano frequenti slittamenti di intonazione. Questo accade, ad esempio, al punto "Et Satan conduit le bal" (mi4) nei couplet del Faust, all'attacco della serenata "Vous qui faites l'endormie" (che dal sol3 sale prima al re4) e soprattutto nell'incipit di "Voici des roses". Segno di un passaggio di registro incerto, che determina acuti faticosi ("no, amor per me non ha", mi4, scena di Filippo II), precludendo al cantante, in zona alta, la sicurezza che competerebbe a una voce di schietto baritono Martin. Parente assai prossimo del tenore. Difatti si cercherebbe invano nel signor Pape una prodigiosa estensione verso il basso, visto che basta il si2 di "Scintille diamant" a mettere in luce la povertà del registro grave del cantante. Un altro buon esempio è offerto dall'esecuzione frettolosa e pasticciata del passaggio "che Dio può sol veder" (ancora nel monologo di Filippo II), due sestine di semicrome che, partendo dal sib2, scendendo al la2 e salendo poi fino al mib4, propongono anche un'impietosa panoramica della frattura dei registri che caratterizza la voce del cantante tedesco. Frattura che una celebre collega da noi abusata quale esempio di grande canto, riferendosi ad altra voce femminile di lei meno solida, ebbe a bollare come il famigerato "scalino" nella voce.
E le considerazioni su questo disco potrebbero anche finire qui. Perché con una simile organizzazione vocale, diciamo raffazzonata, e una voce in natura assai poco privilegiata, è difficile essere grandi interpreti, per quante intenzioni si possano imprimere al canto e magari al booklet e dvd di accompagnamento.
Come gran parte dei Mefistofele oggi in attività, Pape tenta di rendere l'eleganza e il cinismo del Demonio con risa sardoniche e arrotare di "r", risultando invece assai prossimo alla caricatura di un gagà anni Venti. Nei panni di Filippo II le maggiori idee interpretative consistono nell'imitazione naturalistica del parlato ("quei doppier presso a finir") e in qualche tentativo di smorzatura al centro, risolto con suoni poco appoggiati. Le mezzevoci in difetto di sostegno non rendono un bel servizio alla berceuse della Dannazione di Faust. Meglio l'aria di Dapertutto, in cui l'accento genericamente brillante - da opéra comique, appunto - ha la meglio sull'accento torvo riservato agli altri signori delle tenebre.
Per la gioia dei nostri lettori, nonché affezionati detrattori militanti sotto la bandiera del cosiddetto declamato, diremo che le pagine più riuscite del disco sono quelle dedicate a Wagner e agli operisti slavi. Con alcune riserve. Ossia che questo Wagner "formato tascabile" ha poco che fare con quello della grande tradizione non solo Collinare, ma persino europea ed americana.
Perché sul sacro suolo di Bayreuth si sono per decenni avvicendati cantanti di tecnica discutibile, ma per il solito dotati di voci imponenti, se non torrenziali, capaci di oltrepassare, magari urlando, le bordate dell'orchestrale wagneriano. Ora, con questi Wotan e Marke di voce grigia, povera di colori perché in difetto di corretta emissione, priva di autorevolezza anche in termini meramente quantitativi, i drammi del Maestro perdono in grandiosità quello che non riescono a riacquistare in eloquenza. A meno che la sola eloquenza che conti non sia quella dispensata da uffici stampa e agenzie di viaggio specializzate. Cosa di cui ci permettiamo di dubitare.
Le cose vanno un poco meglio nelle romanze del Demone e in quella della Rusalka, in cui l'interprete, peraltro, non si tira indietro quanto a scoppi d'insensata volgarità (vedi i brani concitati dell'aria dello Spirito dell'acqua) e non riesce a riproporre che una pallida e mugghiante imitazione delle malinconiche trenodie cui ci hanno abituato i grandi cantanti della tradizione russa. E non solo russa. Nel monologo di Boris morente abbiamo diritto, oltre all'ormai usuale caricatura del monumentale tiranno (alla greca) riletto in chiave piccolo borghese, alla presenza della voce bianca, che sostituisce l'usuale mezzosoprano. Altro indizio di un bisogno spasmodico di scimmiottamento naturalistico, che svela quanto poco i "signori del disco" abbiano compreso dell'arte cui sono preposti. Ma non lamentiamoci troppo. In tempi recenti, abbiamo visto anche un controtenore nei panni di Fyodor. Il bambino in questione (Carl-Johann Winkler) è, se non altro, più intonato del falsettista medio!
Pesante, seppur solida, la direzione di Sebastian Weigle. Del resto, quella di Dresda è un'orchestra cui basta un buon "conducente" per dare il meglio di sé, segnatamente negli interventi solistici (in primis quelli dei fiati).



Gli ascolti


Gounod - Faust

Atto II - Le veau d'or - Marcel Journet (1930)

Atto IV - Vous qui faites l'endormie - Arthur Endrèze (1936)


Berlioz - La damnation de Faust

Parte II - Voici des roses - Sesto Bruscantini (1951)


Verdi - Don Carlo

Atto IV - Ella giammai m'amò - Vanni Marcoux (1934)


Offenbach - Les contes d'Hoffmann

Atto IV - Scintille diamant - André Pernet (1946)


Wagner - Das Rheingold

Scena IV - Abendlich strahlt der Sonne Auge - Friedrich Schorr (1927)


Rubinstein - Demon

Atto II - Ne plac', ditya - Mattia Battistini (1902), Pavel Lisitsian (1947)


Mussorgsky - Boris Godunov

Atto IV - Oy, dusno, dusno! (Morte di Boris) - Vanni Marcoux (1927)


Bonus track

Berlioz - La damnation de Faust

Parte III - Maintenant, chantons à cette belle...Devant la maison - Vanni Marcoux (1930)

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sabato 28 novembre 2009

Mese verdiano XVI - Son giunta! Quinta puntata: Leontyne Price

Nel proseguire il percorso di analisi delle più rilevanti interpretazioni di Donna Leonora di Vargas, è opportuno considerare quelle che erano le caratteristiche vocali della prima interprete del ruolo (nella seconda versione dell’opera) ossia quella Teresa Stolz che con Verdi ebbe una vera e propria liaison, forse non soltanto di natura artistica. Cantante tra le più celebrate della sua epoca, si fece le ossa nei grandi teatri della mitteleuropa e almeno dal 1865 si dedicò ad un repertorio pesantissimo che comprendeva Lurezia Borgia, Norma, Guglielmo Tell, Juive, Robert le Diable, Huguenots. Prima Aida alla Scala (dopo la premiere del Cairo), nel 1874 cantò alla prima esecuzione del Requiem, cantò anche in Giovanna D’Arco, Rigoletto, Trovatore, Un Ballo in Maschera, Don Carlo e Otello. Le cronache dell’epoca tramandano un timbro potente e passionale, una voce sicura e ottimamente controllata, un vero soprano drammatico. Tale carisma non lasciò indifferente Verdi che la volle fortemente per la seconda versione della Forza del Destino e, difatti, appare interprete ideale delle più tormentate e mature creazioni sopranili del Maestro di Busseto.

Monopolista del ruolo negli anni ‘60/70, insieme alla Tebaldi (anche se con esiti diversissimi), fu Leontyne Price. Il soprano americano fu, forse, la più compiuta incarnazione del soprano verdiano della nostra epoca – almeno una certa categoria di soprano verdiano: quello del Verdi più drammatico. In effetti in quegli anni, e in quelli immediatamente successivi, la Price costituì un unicum nel panorama delle interpreti verdiane, soprattutto se confrontata con le contemporanee (con pochissime eccezioni, quali la Cerquetti ad esempio): si pensi agli esiti deludenti di certe esperienze della Callas (Aida, Forza del Destino, Un Ballo in Maschera) oppure ai maldestri tentativi di spacciare per soprano verdiano certe declamatrici di stretta osservanza bayreuthiana (secondo una degenerazione del canto wagneriano, poi...) dalle voci possenti come monoliti, certo, ma al pari dei monoliti flessibili e sfumate. L’interpretazione di Leonora, segna tutta la carriera della Price: dagli esordi al declino vocale. Nelle tre incisioni ufficiali che ci restano del ruolo, e nelle testimonianze live, infatti, si assiste alla completa parabola artistica della cantante, si assiste alla sua maturazione, al progressivo avanzare dei difetti, alla decadenza finale. A cominciare dall’edizione diretta da Schippers nel 1964, passando da Levine nel 1976, fino alle ultime esibizioni al Met nel 1984, sempre sotto la bacchetta di Levine. Ciò che colpisce l’ascoltatore è, innanzitutto, il colore e il timbro: ricco e passionale, notturno e misterioso, brunito e caldo, vellutato e sensuale, particolarmente adatto nel rendere i personaggi tormentati e drammatici che caratterizzano il Verdi della maturità artistica, assai più della paciosità un po’ provinciale di una Freni (da taluno giudicata iperbolicamente, una delle migliori Leonore di sempre), o l’esangue ed asessuato biancore di una Caballè (ben diverso dalla Leonora penitente e angelicata di una Tebaldi). Un canto morbido e legatissimo con acuti corposi e sicuri. La Price è una Leonora peccatrice, carnale, profondamente romantica. Gradualmente, dopo gli anni ’60, compaiono le prime difficoltà: nel registro basso inizia a farsi strada una certa opacità (poi esteso anche in zona centrale), una certa fumosità che compromette in parte la morbidezza di un timbro straordinario. Al velluto di qualche anno prima si sostituisce una evidente durezza e legnosità. Gli acuti un tempo raggianti e sicuri, diventano più difficili. Ma la Price sa cantare, e pur nei vizi che caratterizzano il suo declino (inevitabile per tutti), rimangono squarci da grande cantante: i difetti sono quelli della decadenza, tipica della parte finale della carriera di tanti, non sono mai frutto di mancanze tecniche (la voce resta sempre appoggiata perfettamente e mai indulge in suonacci gutturali – che caratterizzano il triste presente di alcune sue ancor giovani colleghe, nel pieno della carriera e, nonostante questo, già in disarmo, anche se pochi vogliono accorgersene). Ma al di là della carriera – straordinaria – della Price, interessa qui analizzare la sua Leonora, il suo arrivo al convento: usando come paradigma l’edizione del 1964 (la cui interpretazione sostanzialmente, almeno per quel che la rigurada, verrà replicata neglia anni immediatamente successivi, al Met, pagando però, la mancanza di un direttore come Schippers). Impressiona subito la Price, sin dal recitativo - quanta differenza rispetto all'analogo brano nell'esecuzione a volte troppo concitata, a volte eccessivamente enfatica o caricate, di tante sue colleghe - un Son giunta finalmente non strillato: il secondo FA# non è un grido disperato (o un ululato), ma quasi uno sfogo, un sollievo, sottolineato dalla morbidezza rilassata della frase successiva, con una discesa al RE, tranquilla, clama, serena. Il secondo Son giunta è più commosso, mentre in orchestra si insinua il tema del destino, e Leonora riepiloga la propria storia: ricordi che si accavallano nella sua mente. Lo scampato pericolo, la paura ancora viva, il rifugio tanto sperato, la pace (forse), il rimorso e, infine, una rabbia impotente che pure vorrebbe reprimere: è l'amore per Alvaro, compagno di peccato e di delitto, che ora l'ha tradita e fugge (almeno così lei crede). La Price dipinge un recitativo teso e continuo, senza mai spezzare la frase o indulgere in effettacci, tutto risolto sul fiato, sulla continuità della linea musicale, resa però varia dal rispetto delle indicazioni verdiane e dei segni d'espressione: alternanza sapiente di p e f, lo splendido crescendo di Quella notte in cui io, io... che sfocia in un radioso SOL naturale a voce piena, in corrispondenza di Del sangue... per poi ridiscendere al DO con un significativo rallentando sino al ppp. Le due successive frasi, cantabili, vengono eseguite su di uno splendido legato che porta la voce ad un SI acuto, tenuto per due battute, timbratissimo, fermo, luminoso, e che che si spegne nel lento morendo che conduce all'aria. Inizia come una preghiera: la preghiera di una peccatrice, non di una casta vergine penitente. Le legature sono perfette e le forcelle eseguite con scrupolo, in un crescendo appena percettibile, rispettosissimo delle indicazioni verdiane. Un dosaggio perfetto di p e f, incalzante sino allo sfogo sull'ampio tremolo degli archi: Deh non m'abbandonar, amplissimo, morbido, vellutato, che cresce e decresce in un solo respiro. Gli acuti sono sicuri e facili: il LA in crescendo nella ripetizione della frase, con la voce che subito si spegne per lasciare spazio al coro, è un esempio impressionante di controllo, reso possibile solo da una tecnica dominata alla perfezione. Gli incisi di Leonora si intrecciano al canto dei frati, senza alcuna discontinuità, in un equilibrio di rarefatta suggestione. Il registro centrale è corposo e caldo: il SI basso in Fede, conforto e calma è una vera nota e non un sussurro impercettibile o un bercio di gola. Il breve passaggio di recitativo si conclude, poi, con un crescendo impressionante per volume e corpo della voce: MI, MI#, FA#, procedendo per semitoni ascendenti e allargandosi in una corona in f per poi sfociare in un Non mi lasciar soccorrimi ancora più ampio e vibrante, mostrando una cavata autenticamente verdiana, e allargandosi ancora in corrispondenza del primo LA acuto, saldo e tenuto. Le frasi successive, legatissime, portano al secondo LA, rallentando sino al lento spegnersi del finale. Questo è il Verdi della Price: nobile, ampio, sicuro, vibrante, forse per taluni non abbastanza moderno...soprattutto se la modernità è presa a pretesto per giustificare certo malcanto.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

1963 - Leontyne Price (con Walter Kreppel & Elfego Esparza - dir. Francesco Molinari-Pradelli - Opera di San Francisco)

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venerdì 27 novembre 2009

Una Norma da abrogare...

Cos’è Norma? Norma è uno dei più grandi capolavori del melodramma italiano: modello imitato e ammirato (persino da Wagner, solitamente assai schizzinoso verso l’opera italiana). Cavallo di battaglia e banco di prova delle più grande primedonne del passato, remoto e prossimo: dalla Pasta alla Malibran, alla Grisi, sino alle più recenti Callas, Sutherland, Caballè, Sills, Bumbry (taccio delle “dive” dei giorni nostri e delle loro interpretazioni). Norma è un’opera difficile, lunga – se eseguita integralmente – ricca, sontuosa. Titolo mai uscito dal grande repertorio, palestra di vocalità e tecnica. Norma è tante cose, tranne un’operetta da improvvisare. Oggi è difficilissimo produrre una Norma decente, è un problema oggettivo, o meglio una triste realtà, alla quale molti teatri (Scala compresa) si sono dovuti adeguare: testimonianza, questa, inconfutabile dell’evidente decadenza del livello in cui oggi versa l’arte lirica.

Come spiegare altrimenti, il fatto per cui sino a 50 anni fa, titoli come Norma ricorrevano per più stagioni e in più teatri in Italia e nel resto del mondo (con cast che, se letti oggi, fanno commuovere e sembrano davvero delle favole, dei miti), mentre oggi gli stessi titoli appaiono in via d’estinzione? E c’è chi si ostina a parlare, oggi, di età dell’oro del canto! Come se i quattro berci che servono ad eseguire uno Janacek à la page o un Britten o un Wagner “epurato” dal buon canto, bastassero a far gridare a chissà quali miracoli… Titolo ormai sparito, si diceva, eppure il Circuito Lirico Lombardo – con i consueti mezzi scarsi o scarsissimi – decide di inserire Norma in un cartellone presentato, secondo un sistema di turnazione, a Cremona, Como, Pavia, Brescia (e pure Pisa e Trento), per una dozzina recite in 3 mesi, tutte affidate, incoscientemente, al medesimo cast (salvo per Adalgisa). Manco fossimo negli anni d’oro della Callas! Ammirevole sforzo di volontà, dunque, da premiare oppure avventato esercizio velleitario? Testimonianza di una salutare ostinazione artistica (che dimostrerebbe quanto si possa fare, anche con poco) o “passo più lungo della gamba” da parte di chi sa già in partenza di non potere e volere far di meglio? Direi, alla fine, semplicemente hýbris, come dicevano gli antichi greci… Già, perché l’indulgenza solita, doverosa nel momento in cui si giudica una produzione “di provincia” (che unisce oltre alla consueta scarsità di mezzi, una dignità, spesso, non riscontrabile altrove), il merito dato all’impegno, il plauso agli sforzi immani nel cercare di rappresentare uno spettacolo quantomeno dignitoso e in cui gli stessi artisti dimostrano di credervi, non possono in alcun modo giustificare l’improvvisazione! Se non si dispone di molti mezzi, vi è un mare di altri titoli, alla portata di ugole e bacchette con evidenti problemi tecnici e musicali. Ma che senso ha, e che servizio si può fare alla cultura, al teatro, al pubblico pagante, al Bellini buonanima, affidare a Silvia Dalla Benetta il ruolo della sacerdotessa druida, palesemente non alla sua portata: una voce piccola, acida, gonfiata nei centri per simulare un corpo altrimenti inesistente ed un’autorità soltanto da immaginare, che regala un grottesco Casta Diva, in perenne debito d'ossigeno (e come spesso accade in casi simili, tirato a lento dagli sconsiderati tempi dell'insipiente bacchetta), che ghermisce ogni acuto sbiancando un timbro già insipido, che indulge in mezzi parlati ed effettacci veristi, che in nessun modo è in grado di rendere la dimensione sacrale e autoritaria del personaggio? Come si può affidare il baritenorile ruolo di Pollione ad un Francesco Anile sguaiato, stonato, volgare, che canta solo di gola e che bercia i pochi acuti che la parte gli impone, con voce malferma e incontrollata nel centro e con bassi esangui? Per tacere della Adalgisa di Alessandra Palomba: sotto la soglia della decenza. I duetti con Norma erano un'autentico strazio! Giusto l'Oroveso di Luca Tittoto si salva, ma credo per demeriti altrui più che per virtù proprie. Inqualificabile la direzione di Daniele Rustioni: pesante, grezza, volgarissima (spesso sembrava di essere ad una padanissima sagra della salsiccia), con tempi incoerenti, veloci e lenti nei momenti sbagliati. Orchestra priva di controllo, dalle entrate sporche e scombinate e dalle frequentissime stonature: inqualificabile quella del flauto nell'introduzione di Casta Diva (e pensare che la stessa orchestra aveva dato impressione diametralmente opposta nella precedente Figlia del Reggimento). Tagli da anni '50 (tutti i da capo, diverse code orchestrali, parte dei cori). Regia assente (ognuno sul palco faceva un pò quel che gli pareva) e scene di grande bruttezza (ridicolo lo scudo di Irminsul - formato parmigiano appeso - che suona senza essere sfiorato). Assolutamente inspiegabile il successo di pubblico: vien da pensare che la gente, alla fine (e non solo in campo musicale), ha quel che si merita.



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mercoledì 25 novembre 2009

Di tanti palpiti radiofonici e tauriniensi

Siamo certi che il primo post che arriverà sara dell'usato tenore, ossia non si può giudicare dall'ascolto radiofonico.
Ciascuno ha, in punto, la propria opinione. Noi del Corriere della Grisi, i cui più vecchi blogghisti hanno una trentennale consuetudine con il capolavoro della giovinezza rossiniana crediamo che si possa giudicare e la bacchetta ed i cantanti dall'ascolto radiofonico.
Liberi i frequentatori della nostra pagina telematica di condividere o censurare l'opinione.
Di Tancredi abbiamo parlato spesso. Il capolavoro di Rossini, secondo l'opinione di Stendhal, il capo d'opera di Giuditta Pasta, che poi eseguiva, consenziente il maestro, un pastiche a propria misura, il titolo guida della Rossini renaissance ad opera di Marilyn Horne, il titolo di una polemica, che sa tanto di muro di Berlino e guerra fredda, propiziata da quello che si autodefinisce il luogo di salvaguardia di Pesaro ed alla quale abbiamo sentito l'urgente dovere di replicare e cn parole e soprattutto con le voci nell'agosto scorso.

La sinfonia diretta con tempi veloci e sostenuti senza abbandono e senza slancio l’uno conseguenza dell’altro. Meccanica alla baroccara.
Naturalmente credo si dirà che una scelta che esclude ogni romanticismo. Peccato che si tratti di Tancredi 1813 e che gli esegeti rossiniani parlino con riferimento al capolavoro della gioventù dell’opera degli affetti.
Cominciamo bene!
Proseguiamo con una scena introduttiva dove l’Isaura di turno (Annunziata Vestri) cempenna quattro passi di agilità che porterebbero la voce dal centro alla zona medio grave “la più tenera amistà” comprovando di non essere un mezzo e di non sapere eseguire il primo essenziale passaggio di registro.
All’entrata di Antonino Siragusa bastano quattro battute per rendersi conto che non è un baritenore, che ha problemi, noti da tempo e costantemente manifestati, a saldare le zone della voce e che siccome deve cantare al centro i tentativi di emettere acuti (Siragusa è tenore che canta Sonnambula, Cenerentola e Don Pasquale) due nella sortita ossia al conducimento della cabaletta ed alla chiusa danno luogo a suoni duri e stirati. Idem la seconda aria, questa con l’aggravante della irrinunciabile necessità di ampiezza di fraseggio, per esprimere l’ira di un regale padre. Nessuna variazione nel da capo. Applausi di cortesia. Tempi meccanici ed accompagnamento metronomico di chi (il direttore Kristjan Järvi, che si dice al suo debutto operistico) non sappia che l’accompagnamento è accompagnamento e non la melodia affidata alla voce e alle prime parti orchestrali.
Entrata di Patrizia Ciofi, anch’essa dedita all’esecuzione letterale o quasi. Difetti di sempre: afoneggiante e nel fiato la voce in prima ottava, schiacciato il registro acuto (questa è una novità), accento inerte. Applausi un poco più nutriti. Gli applausi di cortesia la Ciofi li lucra all’aria (splendida) del secondo atto “No che il morir non è” infestata di aria nella voce, strumentali trasposti e trasportino per celare il buco del passaggio.
Si arriva alla grandiosa aria “a rondò”. Cominciamo con suoni in bocca e timbro nonagenario nel “giusto dio” non certo altissimo, legato approssimativo “ tu lo sai se rea son io”. Il si nat centrale di “tuo favor “ è sordo, la coloratura minuta in zona medio alta a tratti faticosa ed i suoni schiacciati. In basso completamente sorda ( e poi nel recente passato censuravamo la zona bassa di una Devia o di una Cuberli). All’entrato del coro pesante e fragoroso risveglio, sotto l’inesperto braccio del maestro Järvi, urletti della signora Ciofi per simulare terrore, prima, e gioia dopo. Identici in entrambi casi. Alla parte acrobatica le prese di fiate, la vocalizzazione sillabica in luogo della semisillabica, i suoni bianchi e schiacciati sono la negazione della linea apollinea e classica richiesta all’esecutrice rossiniana. La versione semplificata delle –brutte– varianti della Devia non fa buon servizio a nessuno. Voce piccolissima. Un disastro. Basta avere nelle orecchie non dico Lella Cuberli, ma Gianna Rolandi (Torino aprile 1985). Il nostro civilissimo direttore è metronomico e squadrato alla chiusa e non si ferma per consentire gli immeritati applausi e regalarci una delle più sgarbate e pesanti entrate del coro che accompagna Tancredi infelice vincitore. Il coro qui come altrove sembrano gli armigeri di un dramma di Béla Bartók.
Nella rituale intervista fra primo e secondo atto la signora Barcellona ha parlato dei palpiti come del biglietto da visita del protagonista. Sarebbe, continuando la metafora del biglietto da visita, uno di quelli che si dimenticano per la poca impressione che il latore ha fatto.
I vizi sono quelli di sempre, aggravati dal passare degli anni ossia emissione per nulla stilizzata (scusate ma ricordate l’astrattezza del timbro della non più giovane Horne?), che toglie nobilità alla scrittura semplice del giovane guerriero, rende piccoli e stirati gli acuti estremi ed interpolati con parsimonia. Parsimonia che riguarda anche le diminuzioni nella cavatina, nel secondo duetto con Amenaide ed in quello con Argirio dove il tasso di eroica esaltazione è pari a zero. Ho parlato di secondo duetto fra gli innamorati in quanto omesso il primo e collocato in guisa di primo il secondo. Troppa fatica o nuova versione filologica o desiderio di emulare la prima dove le precarie, ma temporanee condizioni delle protagoniste fecero eseguire, di fatto, una “mezza porzione” di Tancredi.
Quindi dopo la sgangherata aria del sorbetto di Roggiero (Paola Gardina), abbiamo una meccanica, piatta esecuzione della incantevole descrizione dei dirupi dell’Etna, che prepara il piatto, meccanico e monotono recitativo della Barcellona che stenta sul re centrale di “nel povero mio cor”. Troppo pretendere colori, smorzature, le estenuanti, eleganti messe di voce, che hanno fatto del Tancredi di Marylin Horne il TANCREDI.
Appena sale, ma parliamo del do centrale di “l’adoro”, ancora compaiono suoni acidi e quando tenta di scendere i suoni sono intubati. Tutti in sospetto di poca fermezza, appena superato un mezzo piano o nel tentativo di cantare piano , ripresa di “ Ah che scordar non so”, funestato dall’enfatico “l’adoro” ancor della ripresa e da un paio di suonacci di petto alla chiusa. Le cose non vanno certo meglio nella seconda sezione della scena dove il direttore stacca un tempo inutilmente veloce, senza grazie, senza eleganza e senza che possa giovare all’esecuzione del poco virtuosismo, scritto ed interpolato dove la voce di Daniela Barcellona appare insicura e di eseguo volume in zona alta.
Per la cronaca assolutamente antirossiniani i parlati di Patrizia Ciofi, che attende l’esito della pugna.
Ci viene offerto il finale tragico che il commentatore radiofonico insegna essere stato eseguito per lungo tempo. Il lungo tempo è quello da poco passato ad opera principalmente di Marilyn Horne, atteso che nel secolo XIX, lo eseguì la sola destinataria Adelaide Malanotte, atteso che le grandi protagoniste eseguivano quello lieto e per giunta non di Rossini.
Per ultimo la perla del direttore, inesperto e debuttante e si sente. Tempi a casaccio senza una logica, fragori orchestrali, nessuna regia vocale, salvo l’idea di una ormai prossima consacrazione al gusto baroccaro anche di Rossini. Meglio l’oblio allora!

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martedì 24 novembre 2009

400.000 contatti... e 110 anni di S'apre per te il mio cuor

Cari amici,
400.000! Di cui 200.000 da febbraio e 100.000 da luglio. Con buona pace dei nostri detrattori, di web e carta stampata, il nostro giornalino continua a piacervi. Il vostro interesse, sempre crescente, ci obbliga a non mollare.

Passione travolgente, quella dell'opera. E vogliamo festeggiarla con una travolgente, benché simulata, passione operistica.
Centodieci anni di scene della seduzione, affidate a interpreti grandissime, grandi e... un po' meno grandi. Stabilite voi se si tratta di una progressione verso il basso, o se esistono elementi di discontinuità. Elementi che, comunque, a nostro modesto avviso, non invertono la tendenza!
Vi lasciamo alle grazie di queste conturbanti e fascinosissime Dalile...
Attendiamo, come sempre, i vostri commenti!

GG & friends


Gli ascolti

Saint-Saëns - Samson et Dalila


Atto II

Mon cœur s'ouvre à ta voix

1902 - Félia Litvinne
1903 - Ernestine Schumann-Heink
1907 - Marie Delna
1920 - Gabriella Besanzoni
1928 - Alice Raveau
1929 - Sigrid Onégin
1941 - Risë Stevens
1946 - Ebe Stignani
1962 - Elena Cernei
1970 - Shirley Verrett
1971 - Grace Bumbry
1977 - Elena Obraztsova
1980 - Marilyn Horne
1991 - Ewa Podles
2001 - Sonia Ganassi
2003 - Olga Borodina
2007 - Elina Garanca
2009 - Irina Makarova

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sabato 21 novembre 2009

Il soprano prima della Callas, nona puntata: Meta Seinemeyer e Margarete Teschemacher

Nel cammino a ritroso nella storia del canto sopranile l’ascoltatore italiano si trova dinanzi ad una sorta di “muro di Berlino”, rappresentato dai soprani lirici e lirici spinti attive sulle scene dei teatri tedeschi ed austriaci fra il 1925 ed il 1950. E’ una schiera copiosa e, di fatto, sconosciuta al pubblico italiano, spesso accompagnata da qualche fraintendimento e da qualche preconcetto tramandato, ma indimostrato. Il preconcetto inerisce soprattutto le qualità interpretative di questa pleotora di frau robuste e di fisico e di voce, che rispondono ai nomi di Meta Seinemeyer (1895-1929), Tiana Lemnitz (1897-1994), Maria Muller (1898-1958), Maria Nemeth (1897-1967) Margarete Teschemacher (1903-1959) e Maria Reining, (1903-1994) attive soprattutto a Berlino, Monaco, Dresda, Vienna, alcune anche a Bayreuth.

Al nutrito gruppo, per origine, si dovrebbe aggiungere Elisabeth Rethberg (1894-1976) la cui carriera e fama fu principalmente americana e precisare che, pure, Maria Muller frequentò teatri americani fra cui il Met (con più di duecento serate) per seguire, poi, il richiamo della patria, che nel caso di specie fu soprattutto quello della sacra collina, frequentata dal soprano con fedele assiduità.
Nonostante il patto d’acciaio praticarono pochissimo o per nulla i teatri italiani. A prescindere dal problema, non indifferente, linguistico l’Italia con Rosetta Pampanini, Claudia Muzio, Bianca Scacciati e le giovani Caniglia e Cigna e Favero era non solo autosufficiente, anzi autarchica, vista la politica del regime, ma anche pronta all’esportazione almeno verso gli Stati Uniti.
Il soprano cosiddetto lirico tedesco cantava Wagner lirico (comprese, però, Sieglinde e Senta) Verdi (soprattutto quello tardo Otello, Aida, Ballo, Forza, ma anche don Carlos), ed il repertorio allora contemporaneo sia tedesco che italiano (in lingua originale all’estero in tedesco in patria) ovvero Strauss, Puccini, Mascagni oltre a Mozart (soprattutto Contessa e Donna Elvira), Weber e alcuni titoli del repertorio francese.
Della superficiale conoscenza e di fraintendimenti cadde vittima anche Rodolfo Celletti, su Musica (n° 34, anno 1984) recensendo una compilation della Seinemeyer e della Retheberg.
La carriera di Meta Seinemacher fu sfolgorante. Debuttò direttamente al Charlottenburg di Berlino nel 1918 a ventitrè anni. Calcò, poi, tutte le scene dei maggiori teatri tedeschi. Ospite fissa a Dresda dal 1923 partecipò alla prima assoluta del doktor Faust di Busoni (1925) alle prime locali di Forza del destino (1924) ed Andrea Chenier.
Non cantò a Bayreuth; nel 1923 prese, però, parte ad una onerossima tournee wagneriana nel Nord America (compreso il Mahnattan di New York, ossia il diretto concorrente del Met) in compagnia di autentici fuori classe quali Schorr, List, Kipnis e, uber alles, Heinrich Knote, che, a distanza di tre lustri, rinverdì i successi avuti al Met di Caruso. Nel 1924 debuttò al Colon di Buenos Ayres e lo stesso anno affrontò per la prima volta il Covent Garden, sempre nel repertorio tedesco. In patria, invece, eseguiva spessimo quello italiano e francese. Oltre al repertoria del soprano lirico-spinto eseguiva, spesso parti di lirico puro cantando Micaela, Mimì, Antonia dei Contes d'Hoffmann, Contessa delle Nozze, Pamina, Eva ed Elsa di Brabante.
L'incisione della morte di Isotta e la presenza in repertorio di Donna Anna (allora indiscusso appannaggio dei soprani drammatici) lasciano prevedere che nell'intenzioni della cantante vi fosse l'approdo a ruoli di maggior spessore e vigore drammatico, se la morte l'avesse colta a soli 34 anni nel 1929.
Le registrazioni della Seinemaeyr vanno da 1918 al 1929, ossia a pochi mesi prima della morte.
Il timbro, tenuto conto delle limitazione delle registrazioni acustiche quando si trattava di captare ampiezza e sonorità, è bello e caldo, spontaneamente nobile e femminile.
Pagine come il duetto d'amore dell'Otello (Pattiera è splendido, per inciso) o la canzone del salice dell'Otello sono, date le caratteristiche naturali,realizzazioni felici sia sotto il profilo vocale sia interpretativo.
Quando la scrittura vocale lo richiede la Seinemeyer lega i suoni a qualsiasi altezza come accade nell'aria di Agathe. E' una Agathe dalla voce di una rotondità, dolcezza e morbidezza, oggi dimenticate,attese le soubrette, magari di estrazioen baroccara che eseguono il ruolo.
Lo stesso accade in clime poetico e vocale differente con la grande aria di Maddalena "La mamma morta". La cantante è assolutamente scevra da ogni effetto cosiddetto verista della maggior parte delle esecuzioni (a meno che non si trattasse di una Farneti o di una Muzio). I suoni nella zona medio bassa sono coperti, sorvegliati e, per conseguenza, sonori, vedasi la frase "fu in quel dolore che a me venne l'amore" dove la voce sale con costanza di posizione e grande dolcezza e dolorosità accento o la facilità di frasi come "porto sventura". La facilità di canto fa da contraltare ad una dizione italiana tutt'altro che inappuntabile e soprattutto ad una scansione poco italiana. Sempre esemplare la frase "fu in quel dolore che a me venne l'amore", dove il fa di amore è smorzato da manuale.
Facilissimi gli acuti, sia pure con qualche sospetto di fissità.
Il dubbio di acuti un poco fissi compare anche nella pagina più famosa fra quelle incise dal soprano tedesco, l'arrivo di Leonora de Vargas al convento della Madonna degli Angeli. Per inciso Forza del destino fu l'opera preferita dalla Seynemeyer. Nelle battute di recitativo quando la voce gravita sulla zona bassa della voce la cantante scende benissimo, anche se l'accento su "la mia orrenda storia" può sembrare inerte. Più che altro la cantante è compassata e preoccupata di non emettere suoni sgradevoli in basso. Appena la voce sale al mi fa di "mio fratello" la cautela esibita nella zona medio grave da i propri frutti con suoni timbrati e penetrantissimi e per contro il passaggio dal medium al grave sulla frase "di mio padre intriso" è eseguito alla perfezione. La cantante rispetta l'indicazione di morendo su "in tant'ambascia", che precede l'aria, così facendo la cantante, ossia l'interprete, passa dal clima teso del recitativo a quello dell'aria, per la quale Verdi prescrive come un lamento. Nella prima parte dell'aria coabitano rispetto dei segni di espressione ed accento remissivo e castigato pur con l'opulenza della voce del soprano autenticamente verdiano. In linea di principio nell'esecuzione tutti gli accenti delicati e dolenti servono, come giusto, a preparare ed esaltare i momenti di tensione, senza soverchia fatica per la voce. In questo senso basti l'ultimo "pietà Signor" prima del con passione previsto sul "non m'abbandonar".
Oltretutto la cantante sostiene senza fatica (il tempo scelto è abbastanza lento) le lunghe frasi, prescritte legate, anche se in zona di passaggio benchè sul mi 4 in particolare compaiano suoni un po' fissi.
Si capisce perchè la cantante ritenesse Forza la sua opera prediletta. Si capisce, del pari, perchè cantanti coma Meta Seinemeyer, sopratutto al gusto latino del tempo, potessero sembrare gelide e compassate o, quanto meno, prive di un autentico accento drammatico.
Inappuntabili però, appaiano il canto ed il gusto della Seinemeyer quando canta l'aria di San Giusto del don Carlos. Visto, poi, il travisamento cui il personaggio è stato fatto oggetto negli ultimi quarant'anni (una sorta di Mimì all'Escorial) l'autentica voce di soprano spinto e l'accento nobile ed ispirato ed un legato, che non mostra cedimento innanzi alle frasi di lunga arcata e l'esecuzione di piani e forcelle illuminano l'ascoltatore sull quella che dovrebbe essere la vocalità ed il gusto verdiano.

Della medesima "razza" sia vocalmente che tecnicamente ed interpretativamente Margarete Teschemacher.
Nata a Colonia studiò nella medesima città dove debuttò quale Micaela nel 1924. I primi anni di carriera si svolsero in buoni teatri come Dortmund, Stoccarda e Mannheim. La carriera internazionale arrivò nel 1934 con il debutto al Colon di Buenos Ayres ed al Covent Garden (Contessa delle Nozze e Donna Elvira), contestualmente all'approdo nei grandi palcoscenici tedeschi come Dresda, Salisburgo, Monaco, Berlino e Vienna sino alla Scala, al Liceu di Barcellona ed al Lyric Center di Chicago.
Anche la Teschemacher era un lirico spinto, che, talvolta, faceva il lirico ed anche il Falcon. Non per nulla la registrazione più famosa del soprano di Colonia è il "duettone" degli Ugonotti con Marcel Wittrich (che, sia detto per inciso, fu, con il bulgaro Teodor Mazaroff, l'ultimo esempio di tenore ottocentesco che abbia calcato i palcoscenici del mondo).
Anche la Teschemacher brilla sopratutto come esecutrice e può essere giudicata compassata e convenzionale come interprete e lo poteva sembrare più ai suoi tempi che non nei miseri attuali dove Adina canta il Requiem di Verdi o la Tosca.
Prendiamo il duetto dell'Olandese volante. La voce è quella giusta di Senta dolce e penetrante al tempo stesso. Non ci sono difficoltà vocali, che preoccupino questa Senta dolcissima nell'incipit del duetto, che sono di scrittura piuttosto centrale, capace nella chiusa di un si naturale sul forte facilissimo con tanto di scala discendente dal suono saldo e timbrato.
Come esecutrice verdiana invita ad una generale riflessione estensibile agli altri soprani tedeschi della stessa generazione e della precedente. Ossia che per il tardo Verdi possa bastare un cosiddetto lirico spinto a condizione che abbia una tenuta saldissima sul primo passaggio e una disposizione tecnica, che consenta di cantare dal piano al forte senza difficoltà. Diversamente la voce si sganghera, gli acuti diventano urla e la prima ottava o sorda o parlata. E nulla possono escamotage come acuti estremi voluminosi o preziose, quanto leziose filature.
Quindi abbiamo un'Aida dall'accento nobilissimo (frutto in equa misura della qualità naturale e della compentenza tecnica), capace di piani consoni al personaggio,che non è Manon o Giulietta Capuleti, ma una voce che nel corso della serata è chiamata a reggere concertati come quello del trionfo, con suoni bassi sempre morbidi e raccolti - vedasi nei cieli azzurri il "mai più", acuti facili come il famoso do eseguito anche con la forcella - dal forte al piano, però- e se la concitazione nell'incipit del "ritorna vincitor" è un poco di maniera arrivata alla lamentazione "come raggio di sol" questa Aida è giustamente ispirata ed animata. Anzi verdianamente animata.
Assolutamente identica l'impostazione della Valois. La voce è squillante e morbida in alto, in basso suona un poco vuota, ma l'emissione è esemplare. Il meglio sotto il profilo interpretativo viene nelle frasi patetiche, illuminate da piani e pianissimi. Ripeto con voce e peso verdiani non da Massenet.
Senza essere una virtuosa la Teschemacher se la cava anche in brani, che prescrivano qualche passo di agilità come la grande scena di Rezia e la chiusa della Czardas del Fledermaus, entrambe provenienti da esecuzioni integrali. Le armi migliori sono sempre il suono morbido e la saldezza di emissione, esibite nell'incipit della czardas dove, senza avere nella fase conclusiva il gusto ed il piglio della famossissima registrazione della Rethberg, la Teschemecher regge in chiusa un ritmo indiavolato ed chiude con un re nat facile. Tenuto anche conto che proviene da un soprano cosiddetto spinto, assidua Aida, Tosca e Sieglinde.
Per capire la mentalità del tempo nella gestione della carriera vale la pena di ascoltare gli estratti del Faust. La parte di Margherita è per tradizione di soprano lirico, per giunta chiamata anche ad eseguire qualche passo acrobatico al famoso valzer, sicchè è stata ed è affidata a soprani provenienti dalle file delle colorature, magari in quella fase della carriera in cui i sovracuti rappresentano un arrischio. Poi molte Margherite di questa categoria alla scena della chiesa ed al finale con orchestre pesanti e partner tronituanti (Méphistophélès, in particolare) sono costrette a forzare e gridare per essere sentite.
La Teschemacher soprano spinto, che gioca al lirico puro può prendersi il lusso nei panni della fanciulla goethiana di esibire cavata e dolcezza al duetto d'amore (il partner Helge Rosveange è per opulenza di voce, qualità interpretative di quelli che non perdonano), regge un tempo lentissimo alla scena della chiesa e svetta nel finale su orchestra, dotatissimi partner e sonore schiere angeliche.
Scusate se è poco, poi, possiamo anche censurare che questa Margherita manca di candore e della convenzionale svenevolezza della fanciulla irretita dal demonio, ma è una delle più salde e sicure che le registrazioni, dal fonografo al cd, testimonino.


Gli ascolti


Meta Seinemeyer

Mozart - Le Nozze di Figaro

Atto III - Dove sono i bei momenti (1927)

Weber - Der Freischütz

Atto II - Leise, leise, fromme Weise (1926)

Wagner - Tristan und Isolde

Atto III - Mild und leise (1928)

Verdi - La forza del destino

Atto II - Son giunta...Madre, pietosa Vergine (1926)

Verdi - Don Carlo

Atto V - Tu che le vanità (1927)

Verdi - Otello

Atto I - Già nella notte densa (con Tino Pattiera - 1928)
Atto IV - Piangea cantando nell'erma landa (1926)

Giordano - Andrea Chénier

Atto II - Ora soave (con Tino Pattiera - 1926)
Atto III - La mamma morta (1925)


Margarete Teschemacher

Weber - Oberon

Atto II - Ozean! Du Ungeheuer (1937)

Meyerbeer - Les Huguenots

Atto IV - O ciel! où courez-vous? (con Marcel Wittrisch - 1932)

Gounod - Faust

Atto III - Il se fait tard (con Helge Rosvaenge & Georg Hahn - 1937)
Atto IV - Seigneur, daignez permettre (con Georg Hahn - 1937)
Atto V - Alerte!...Anges purs, anges radieux (con Helge Rosvaenge & Georg Hahn - 1937)

Wagner - Der fliegende Holländer

Atto II - Wie aus der Ferne längst vergangner Zeiten (con Hans Hermann Nissen - 1936)

Verdi - Don Carlo

Atto V - Tu che le vanità (1937)

Verdi - Aida

Atto I - Ritorna vincitor! (1938)
Atto III - Qui Radames verrà...O patria mia (1938)

Strauss II - Die Fledermaus

Atto II - Klänge der Heimat (1938)

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giovedì 19 novembre 2009

Requiem di Verdi alla Scala di Milano

Nuova esecuzione del Requiem verdiano alla Scala di Milano, dopo la performance parigina di domenica alla Salle Pleyel.
Serata connotata da una certa attesa per i 4 nomi del cast e per la nuova prova verdiana della bacchetta principale ospite dopo il flop dell’Aida prima dell’estate.
Bel successo ma senza trionfalismi, opinioni discordanti tra il pubblico circa la direzione d’orchestra di Barenboim.

La direzione del maestro si è svolta su due binari, quello del fortissimo contrapposto a momenti in pianissimo, esasperati e lentissimi. Non mi impressionano i volumi orchestrali, i forti roboanti, soprattutto se plateali. Certo, ci sono anche quelli nel Requiem, nel Dies Irae in particolare, ma l’emozione arriva di solito da altro. Dalla cavata dell’orchestra, per esempio, che iersera non c’era. Da quel colore brunito ed intenso delle arcate dei violoncelli, che qui poco o nulla abbiamo sentito. Dal gioco dinamico di coro-orchestra e voci, che qui è stato quantomeno prevedibile e... poco nostro. Barenboim macina numero dopo numero con ritrovata sicurezza, ma il tutto ha un che di disorganico, quasi che manchi una visione generale dell’opera cui dare corpo. Si, certo, c’era il Requiem, le note, gli strumenti. Ma non il clima, non c’era tensione emotiva di fondo, mancava unitarietà di visione (mistica, laica, terribile, ottocentesca, operistica... qualunque avesse deciso di percorrere). Ogni tanto è accaduto qualcosa, e sono stati momenti estatici per lo più, ma tutto ha marciato a scatti, senza continuità e fluidità esecutiva, perché all’orchestra mancavano legato e pienezza di cavata. Il tutto mi è parso piuttosto impersonale, talora anche gratuitamente rumoroso e greve, privo di eleganza, lirismo e di senso tragico. Insomma, Verdi è evidentemente estraneo alla personalità ed alla cultura del maestro.
La bacchetta travolgente del Tristan è un’altra, nel “repertorio” il genio è svanito di nuovo, il carisma,la capacità di emozionare e di commuovere alla Karajan, alla Solti, alla Abbado, alla Muti, tanto per citarne alcuni assai diversi tra loro, non c’è.

Altra questione, strettamente connessa a queste, è il rapporto con il canto di scuola italiana, che implica il saper chiedere alle voci quello che possono dare nella realtà dei fatti, e commisurare ad essa le proprie scelte direttoriali.
E’assolutamente inutile chiedere ad un tenore che ha nel canto sul passaggio e nei piani il suo punto debole di prodursi un Ingemisco o un Hostias di esasperata lentezza, con pianissimi continui (completamente sfuocati), perché l’effetto è solo quello della fatica, del gemito, del falsetto. Laddove non canti di forza, sfogando del tutto la voce, Kaufmann si barcamena come può, emettendo suoni indietro, opachi, sgradevolissimi, che i più hanno nettamente percepito ieri sera. La mistica del canto a fior di labbra dell'Ingemisco piuttosto che del "Quid sum miser" parevano invenzioni della nostra fantasia di melomani.Era la voce giusta per il Requiem?
Idem dicasi per il signor Pape, che per natura non è un basso vero né possiede un mezzo vocale rimarchevole per timbro, costretto a pianissimi continui, regolarmente falsettati e arrabattati, poi in deficit di suono nei momenti di canto a piena voce, perché carente in ampiezza, oltre che in solennità. Non ci sono solennità e composto spavento nel suo "Mors stupebit", ad esempio, ma suoni cavernosi. Insomma, gli uomini hanno cantato anche loro su due binari, voce piena e falsetti, ma senza una vera dinamica, un fraseggio che sapesse di Verdi.
Quanto alle voci femminili, la situazione non è stata affatto migliore, sebbene abbiano cantato con un gusto più italiano degli uomini.
La signora Frittoli possiede, ora come ora, un mezzo di peso idoneo ai ruoli di Gilda, Violetta e Nannetta più che al Requiem. Per giunta molto dissestato, dato che la voce oscilla vistosamente in centro come in acuto, dove talora suona fissa ed in un paio di occasioni stonacchiata, mentre nei gravi resta impalpabile. Ha subito ora certi volumi dell’orchestra, ora certe lentezze che l’hanno messa in difficoltà nei fiati, ma comunque era inadatta in partenza alla parte e scolastica nell’esecuzione.Nel "Libera me Domine" pareva una fogliolina nella tempesta; nel canto aereo necessario in numeosi momenti, coe ad esempio nel " Quid sum miser" o nell'"Agnus Dei", il canto è arrivato insicuro e tremolante.
Quanto alla signora Ganassi, devo dire che le è mancato del tutto il mezzo, anche quello sottodimensionato con cui ha affrontato il Don Carlo negli ultimi anni. Ha cantato quasi tutto di petto nella zona grave, e con grande fatica a legare in zona centro alta, e nonostante gli sforzi evidenti, ad inizio di serata soprattutto, non è riuscita a produrre un volume di suono non dico idoneo a quanto cantava, ma che le consentisse di farsi sentire bene in loggione. Passi come il "Liber scriptus" non consentono di simulare in alcun modo, una lieve enfasi è necessaria per dar senso al parole, ma se il suono non c'è....non se ne esce. Ha cercato di dare, ma la voce cadeva al parapetto invece di volare nella sala. Va detto, però, che dei quattro solisti è stata l’unica ad esibire una linea di canto degna di questo nome e delle vere intenzioni musicali. Diciamo che era la sola a sapere cosa si sarebbe dovuto fare, ma non c’era proprio modo. Avrei dato volentieri a lei la bacchetta.
Con un cast vocale inadeguato ed acciaccato, l’esecuzione ne ha sofferto. Ripetutamente i difetti delle voci hanno infastidito il pubblico, cigolii, brutti suoni, gemiti... un mix al di sotto del livello di guardia. E su questo le opinioni di amici e conoscenti mi sono parse unanimi. Ma il canto italiano, il "far cantare" le voci tipico della grande tradizione direttoriale italiana dei Toscanini ed ancor più dei De Sabata, è parsa cosa sconosciuta e lontanissima nella direzione udita ieri sera.

Ultima nota in chiusa, gli abiti. Solo la Ganassi, ancora, pare ricordarsi come ci si vesta in una esibizione concertistica di musica sacra, questa ancora Missa defunctorum, fino a prova del contrario. Ci stanno poco gli abiti a grandi bande bianche e nere, ma davvero deprecabili le camicie fuori dai pantaloni o le giacchette da discoteca indossate dai signor uomini.


Gli ascolti

Verdi - Requiem


Dies irae - Victor de Sabata (1951)

Ingemisco - Giacinto Prandelli (1951)

Confutatis maledictis- Tancredi Pasero (1940)

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martedì 17 novembre 2009

La Figlia del Reggimento - Cremona, Teatro Ponchielli

Mi sono recato, domenica scorsa, a Cremona, per assistere al Teatro Ponchielli alla recita pomeridiana della Figlia del Reggimento. Occasione interessante per ascoltare la prima ripresa moderna della versione italiana dell’opera, così come rivista da Donizetti in occasione delle rappresentazioni scaligere nell’ottobre del 1840 ed eseguita nella sua interezza, senza cioè ricorrere ad inserti provenienti dall’originale francese (salvo in un caso) e secondo la nuova edizione critica curata per Ricordi da Claudio Toscani. Spettacolo strano questo di Cremona (e che verrà riproposto a Bergamo, nell’ambito del Festival Donizetti, e poi a Pavia e a Ravenna nei primi mesi del 2010), dall’esito ambiguo e dal giudizio necessariamente spezzato in due: tanto opposti, infatti, sono apparsi i risultati del primo e del secondo atto, sia dal punto di vista musicale che da quello registico.

Partiamo dalla lettura musicale: il direttore Alessandro D’Agostini, alla guida della precisa Orchestra dei Pomeriggi Musicali, adotta la nuova edizione critica dell’opera e – come dichiara lui stesso nelle note introduttive sul programma di sala – ne dà una lettura caratterizzata da grande attenzione al rispetto della prassi d’epoca e alle cure filologiche. Innanzitutto la versione scelta: quella originale italiana così come approntata dalla stesso Donizetti: senza, quindi gli abituali tagli e inserti provenienti dalla prima versione francese (a parte la cabaletta di Tonio “Qual destino/Pour mon ame”...irrinunciabile per le velleità di qualsiasi tenore che ritenga essere in grado di eseguire l’infilata dei 9 successivi DO di petto...a costo di risparmiarsi per tutto l’atto o abbassandola di mezzo tono) e quindi nel dettaglio: 1) i recitativi invece dei dialoghi; 2) spariscono i couplets della Marchesa nell’Introduzione, “Pour une femme de mon nom” sostituiti da un recitativo accompagnato; 3) nell’atto II spariscono il “Salut a la France” e la seconda aria di Tonio “Pour me rapprocher de Marie”; 4) in compenso viene aggiunta un’aria per il tenore nell’atto I, “Feste, pompe, onori”, presa dal Gianni di Calais e un duetto per i due protagonisti nel finale II, “In questo sen riposati”. D’Agostini, poi, arricchisce l’orchestra di alcuni strumenti originali (certe percussioni particolari, cornette e cimbasso) e la dispone secondo uno schema atipico, predisposto, pare, da Donizetti stesso in occasione della prima scaligera – con i legni al centro, i contrabbassi molto più numerosi dei violoncelli e divisi in due, posti ai lati della compagine, i corni separati dagli altri ottoni... – accompagna i recitativi secchi con fortepiano, contrabbasso e violoncello, mentre in quelli accompagnati viene utilizzato uno strumentale ridotto (limitato al doppio quartetto d’archi) per far meglio risaltare l’articolazione del testo. Viene poi seguita la prassi d’epoca, con variazioni e abbellimenti nelle riprese e nei da capo. Operazione dunque interessante e abbastanza riuscita. La direzione è precisa, spigliata, adeguata allo spirito dell'opera: buon ritmo, ma anche attenzione ai momenti più lirici, resi con abbandono e dolcezza. L'orchestra conferma le sue qualità: attenta, molto musicale, precisa (gli attacchi sono perfetti, senza sbavature), mai pesante, ottimi i corni che si sentono fin dall'ouverture (strumenti critici e a rischio spesso, di stonature particolarmente sgradevoli). La compagnia di canto segue volonterosamente le intenzioni del direttore, e il livello complessivo – pur con alcune evidenti difficoltà, soprattutto per il personaggio di Maria – resta buono e dignitoso (si tratta pur sempre di una produzione di provincia, con mezzi, dunque, abbastanza scarsi), livello che spesso non è raggiunto da più pretenziose e blasonate esecuzioni. Quì l’impegno c’è e si sente. Nel dettaglio: la Maria di Yolanda Auyanet presenta un bel colore e una buona emissione, finchè non impiega troppo il registro acuto, laddove lo sforzo appare evidente e la voce tende a fissarsi e stimbrarsi; il Tonio di Gianluca Terranova sfrutta a suo vantaggio l’impervia tessitura della parte, il centro resta appannato e il fraseggio è un pò approssimativo, ma gli acuti sono buoni (a volte un pò ingolati), si risparmia per tutto il primo atto (prima aria e duetto) per poi eseguire una buona “Qual destino” con i suoi 9 DO di petto...e concede pure il bis (evidentemente non solo Florez è in grado di eseguire 18 DO di petto); funzionale alla parte – e finalmente non un pagliaccio – il Sulpizio di Francesco Paolo Vultaggio, dotato di una buona presenza scenica; comprimari mediocri, ma le parti non richiedono di più. Un mistero la regia di Andrea Cigni (che si occupa pure delle scene e dei costumi)! Spettacolo nettamente diviso in due: sobrio ed elegante l’atto I, farsaccia volgare il secondo. E pensare che lo stesso ha dichiarato nelle note di regia di voler ripulire “la drammaturgia da inutili trovate e gags da macchietta”: gli riesce solo per metà spettacolo! Il primo atto si apre su una gigantesca bandiera svizzera, davanti alla quale il coro canta le sue suppliche, e che lascia presto il posto ad un panorama montano con mucchietti di neve sparsi per il palco: la vicenda è trasportata durante la prima guerra mondiale, e la caratterizzazione dei personaggi è garbata e mai caricata. Alcuni momenti sono davvero suggestivi: il finale I, quando Maria saluta i suoi compagni, con uno dei più commoventi cantabili donizettiani, mentre si fa sera (le luci si abbassano) e dal cielo comincia a nevicare lentamente. Forse una trovata facile e ingenua per chi ricerca nella regia occasioni di elucubrazione intellettualistica e simbologia psicanalitica...per me, invece, soluzione raffinata e toccante. Tuttavia il regista, forse spaventato di apparire troppo “normale”, cambia completamente l’approccio nell’atto II che si apre ancora sul panorama montano (anzichè l’interno di un palazzo signorile), ingombro però di un gigantesco orsacchiotto che campeggia in mezzo alla scena, cosparsa di giocattoli e bambole... A parte la bruttezza estetica, a parte l’effetto di deja vu (se non erro una Turandot berlinese di qualche anno fa, presentava la stessa incomprensibile soluzione), non se ne capisce bene il motivo: Maria non viene trattata da bambina, ma da nobildonna, ed è questo a metterla a disagio (a confronto con la più libera e ruspante vita da reggimento). E di conseguenza va tutto il resto: al garbo si sostituisce la farsa più volgare. La lezione di canto è caricata in modo insopportabile con urla, strilli, stonature e parodie (manco fosse la Mamma Agata delle Inconvenienze teatrali); il terzetto Sulpizio/Tonio/Maria viene accompagnato con ballettini da avanspettacolo e accenni di “macarena” (come al Costanzo Show degli anni più bui...) e l’arrivo degli ospiti in occasione del matrimonio di Maria assomiglia a una sfilata da corte dei miracoli, un gerontocomio semovente di tic, zoppie, dentiere malferme, stampelle, bicchieri rovesciati, tremolii senili etc...tra le risate e gli applausi di un pubblico, evidentemente, di bocca assai buona... E il canto si adegua alla trivialità della messa in scena. Peccato: occasione, almeno in parte e per colpa del regista, mancata.


Gli ascolti

Donizetti - La figlia del reggimento


Atto I

Eccomi finalmente...Feste, pompe - Cesare Valletti (1950)

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venerdì 13 novembre 2009

Celebrazione di Rossini: Giovanna d'Arco

Ricordiamo oggi Rossini, nell’anniversario della morte, con una puntata dedicata ad una delle sue più straordinarie composizioni, la cantata per piano e voce Giovanna d’Arco (1832).
Soggetto teatrale prima ancora che mito storiografico della Terza Repubblica francese, che ne fece un'eroina simbolo della laicità dello stato, all’epoca in cui Rossini compose la cantata Giovanna d’arco era ancora un'eroina letteraria di fama controversa, come ben si vede nei testi di Voltaire e Schiller. Giovanna, però, era stata protagonista di composizioni operistiche negli anni immediatamente precedenti il momento in cui venne scritta la cantata, con Carafa (1821), Vaccai (1827), Pacini (1830). Non sono chiare le ragioni per le quali Rossini non la fece eseguire da subito in pubblico, ma attese il 1859, interprete l’Alboni. In quegli anni la Pulzella di Orléans era già un mito nella storia di Francia.

Per noi oggi la cantata, straordinaria, è uno dei massimi cimenti vocali ed espressivi per mezzosoprani che si confrontino con il Rossini serio. Terreno d’elezione delle grandi primedonne virtuose, appuntamento immancabile nella programmazione concertistica della belcantista di rango. Dunque, ecco qui un’esposizione in parallelo di grandi cantanti che vi si sono impegnate, ieri come oggi, e che danno spunto ad una riflessione sui mutamenti (o la degenerazione) del canto rossiniano nella corda di mezzo.

Teresa Berganza. Lo stile. La precisione esecutiva. L’incarnazione vivente della concezione del canto come arte della mìmesis, della stilizzazione, che trasmette idee astratte e perfette, depurate da ogni minima traccia di realismo. La Berganza, ancor prima della Horne, ha affermato la secondarietà del mezzo naturale rispetto alla tecnica ed alla musicalità. La voce, qui presa molto da vicino in una trasmissione radio che non rende per nulla il modo in cui questa risuonava in teatro, non colpisce, e l’interprete resta sempre composta e misurata. Ma tutto procede perfettamente, senza intoppi, cricche, disturbi di fondo di alcuna sorta. Il sound è pulito, quasi parlato, a fior di labbra, dizione chiarissima. E la sua Giovanna risulta semplicissima, dolce e femminile, chiara e del tutto logica nell’esattezza delle scelte espressive, negli accenti. Nulla è di troppo, nulla è tolto, nulla è fine a se stesso, nessuna gratuità. La voce è sempre in ordine, in zona centro grave soprattutto, laddove altre, ben più dotate di lei, fanno sfracelli. Mai un calo di sonorità, mai una forzatura, piuttosto qualche fissità in zona mi-re, sul passaggio acuto ( la signora ha qui 55 anni, circa 34 di carriera). La virtuosa aveva dei limiti, si sa, ed emergono nella sezione acrobatica finale, “ Corre la gioja…”in particolare in quanto scritto nelle ultime battute di “…che in Dio sperò...”, in chiusa alla prima strofa, ma esegue la sezione per intero variando pure il da capo. Il brano è troppo vigoroso per la voce della cantante madrilena, che però lascia vivida impressione. Sarà anche datata, espressione di un Rossini, depurato e classicheggiante, lontano dalle eclatanti acrobazie di scuola americana, ma ancor oggi preferibile a certi scempi vocali spacciati per “belcanto”.


La cantata con Marilyn Horne trova forse la sua più completa e paradigmatica esecuzione. L’approccio è pensato in ogni nota, perfetto sul piano musicale, razionale come non mai. La voce è costantemente dominata e piegata ad ogni più sottile sfumatura, nuance, intento espressivo. Tutto è costruito con lucidità e maestria impressionanti, pensato, meditato e rimeditato come nessuno oggi sa più fare nella pratica del canto. La Giovanna della Horne è complessivamente monumentale, come l’ampiezza della cantata richiede, ma variegata, perché la voce della diva asseconda i mutamenti del brano da una sezione all’altra e da una frase all’altra all’interno di ciascuna sezione, con precisione e puntigliosità straordinarie. Il canto è nobile; eroico e del tutto privo di quella retorica pompière che a volte screzia gli eroi en travesti della Horne; il legato, di altissima qualità dato che la voce è sempre ferma e galleggiante sul fiato, le consente di dare ampiezza alle frasi e pienezza d’accento, cui partecipa una dizione nitida ed incisiva; il canto di coloratura, impeccabile, ciascuna nota sempre ben riconoscibile, e accentata, eseguita con perfezione e facilità assoluta. Più la si ascolta e più risalta lo studio accurato che si cela dietro l’esecuzione, l’aver scomposto la cantata passo passo, una frase dopo l’altra, per poi ricomporre il tutto in un’esecuzione fluida ed apparentemente immediata, perché così è il belcanto della Horne, costruito ed architettato per intero, a cominciare dalla voce.
Non si può non ricordare che l’esecuzione della Horne è tutt’uno con quella del suo pianista accompagnatore di tante serate, Martin Katz. All’introduzione di P. Gossett all’edizione Ricordi della cantata orchestrata da Sciarrino, in cui lo studioso americano sottolinea come nel catalogo di Rossini non vi sia composizione che “reclami una veste orchestrale più fortemente della Giovanna d’arco” ( ! ), verrebbe da aggiungere la chiosa “a meno che non suoni Martin Katz !”. Stupendo, onnipresente, accompagna e trascina, commenta e sottolinea il canto della Horne con la forza di un’orchestra, perché ha di certo ben presente che questa “gran scena” rifletteva i modelli delle composizioni operistiche, e proprio riecheggiando quei modi esegue l’accompagnamento.

Approccio assolutamente opposto è quello di Martine Dupuy, superba, malinconica ed orgogliosa Giovanna. Il canto rossiniano trova in lei una rappresentazione intuitiva e sensibilissima della “mozione degli affetti” figlia di un approccio personale, un'interpretazione del tutto soggettiva, aderente alle corde della cantante. Il canto è facilissimo, di qualità il legato che sostiene anche le frasi di scrittura più centrale, perfetto quello di agilità. La ricerca è sempre quella dell’atmosfera, del clima che connota le varie sezioni della cantata. L’incipit del recitativo sottolinea la solitudine notturna di Giovanna, circondata da una natura silente ed anche misteriosa. La contemplazione è interrotta dalla visione repentina “O Patria! O Re! L’Onnipossente dal gregge…”, per poi placarsi nella nostalgia del ricordo. Quindi la cantata si apre alla parte più suggestiva dell’esecuzione della Dupuy, quella dell’Andantino grazioso “ Oh mia madre e tu frattanto …”, dove il canto scorre morbido, lirico ed emozionante ( “…la mia madre invidierà..”; ”…..se affannata chiamerai, questo suon rispenderà…” ), perché aderente al tipo di espressività caratteristica della Dupuy. Le innumerevoli forcelle previste da Rossini sono, tra l’altro, di grande intensità emotiva mentre l’esecuzione non risulta mai manierata o compiaciuta, ed il timbro del mezzo francese contribuisce a venare di malinconia il canto. La terza sezione, poi, è quella delle visioni, dell’epica di Giovanna, della prefigurazione della battaglia e della vittoria. Ed il canto, come nei suoi guerrieri en travesti, si fa irruente, di slancio. Il sacro fuoco della Giovanna visionaria prende corpo sempre nella misura, lontano dall’eccesso, e nella compostezza del canto, e trova grande forza nello slancio all’acuto. Esecuzione emozionante e vera, sempre di dimensione cameristica, accompagnata da quel maestro di chincaglieria salottiera che è Vincent Scalera. L’accompagnamento è talora perfino caramelloso, ma ben rende il senso del salotto ottocentesco, il colore, l’atmosfera cui la composizione, al di là della sua evidente ascendenza operistica, era destinata.

Voce di mezzo per autonomasia, più dotata di tutte, Lucia Valentini Terrani, che eseguì raramente la cantata, sebbene assolutamente adatta alla sua voce per timbro ed estensione.
Meno analitica e personale sul piano interpretativo, la Terrani pare adagiare la sua voce sul pentagramma limitandosi a seguirlo nei suoi saliscendi con un canto che da subito suona monotono. La sua Giovanna affascina per il timbro, sontuoso e ricco, straordinario, e di questo pare accontentarsi la cantante.
La Terrani intende eseguire il recitativo con toni imperiosi e magniloquenti, sebbene talune frasi le escano affettate. Spiana qualche agilità in “ il mormorar del vento”, ed approda alla sezione centrale, quella sulla carta a lei più congeniale per tessitura. Attacca “ Oh mia madre “ con un tempo sostenuto, sul mezzoforte, che però stenta ad abbandonare laddove Rossini mette forcelle, eseguendo solo qualche rallentando. Il canto è privo di malinconia e generico per assenza di nuances, ma la voce è bellissima, e questo parzialmente compensa la latitanza sul piano interpretativo. Appaiono alcuni suoni gonfi al di sotto del rigo, che poi si ripetono in modo manifesto nell’allegro vivace, “…già m’ha tocca,mi investe, già m’arde..”. Non brilla nell’esecuzione della coloratura, quando Rossini prevede serie di quartine in “…si la vittoria è con me…”. Purtroppo la delusione vera arriva nella sezione finale, che sarebbe anch’essa allegro vivace,“ Corre la gioja di core in core….”. Il piano stacca un tempo di una lentezza mortifera ed insensata, tanto che il canto perde il vigore che richiede il significato drammaturgico del testo. Varia già in primo enunciato dato che taglia la ripetizione prevista, e si sistema tutte le code, fatto incredibile per una belcantista del suo calibro. Il finale viene dunque mozzato, la chiusa arronzata alla bell’è meglio: l’effetto è tremendo, duramente in contrasto con la monumentalità dell’intera cantata, che finisce così…in modo brutale. E deludente.

Cantante della stagione “di mezzo”, a cavallo tra ieri ed oggi, Ewa Podles, vocalista particolarissima e difficile per chi era abituato al prima. E’ duro accettare la sua ottava grave, l’esistenza di due voci nettamente distinte, la natura inumana ed androgina della voce. La registrazione è abbastanza recente, e l’anagrafe non è dalla sua, ma la sostanza del canto si coglie assai bene. La sua Giovanna è una sorta di creatura silvana, figlia di una natura spaventosa e terribile. La foresta che avvolge Giovanna al recitativo non è Fontainebleau o qualche angolo recondito di Francia medioevale, ma uno spaventoso bosco di saga nordica. Di primo acchito il timbro terrorizza lo spettatore: la voce è ovattata, di petto sotto il rigo. Il canto vigoroso è più nelle corde della Podles di quello patetico: “O mia madre…” è anche attaccato con esattezza interpretativa, ma non emoziona, non commuove come dovrebbe perchè presto afflitto dall’emissione sgraziata dei gravi. La cantante pare aspettare le frasi più forti, “…ma tra poco d’alte imprese verrà un suon….”, dove il canto si rifà subito pugnace ed aggressivo. Quella Giovanna chissà che avrebbe mai fatto ai nemici…!!! Insomma, la Podles è spesso sopra le righe e non vuole abbandonarsi all’estasi lirica, alla nostalgia che attraversa il canto di Giovanna. Nella sezione centrale manca la struggente intensità della Giovanna della Dupuy, ad esempio. Di umanità e fragilità, in questa esecuzione, proprio non ce n’è, a differenza di certi en travestì rossiniani impersonati più volte dalla Podles.
La sezione finale, veloce ed acrobatica, ha un vigore ragguardevole, ed è la parte migliore dell’esecuzione della cantata. A parte certe note di petto e/o aperte, troppo volgari, elettrizza per la forza che ha il suo canto di agilità, preciso e facile come sempre. In questo Superewa sa il fatto suo, ed appartiene ancora alla tradizione di ieri: una volta che ha abituato lo spettatore al suo sound, lo trascina vigorosamente con lei, su e giù per il pentagramma, con assoluta confidenza e facilità, conferendo pieno senso al lato visionario dell’eroina guerriera. Di forza e per forza, ma solo quello.

Daniela Barcellona canta da mezzosoprano con una voce importante, di grande qualità e volume. Amante di Rossini e lontana dalle ciance dei baroccari (fatto per cui la ringraziamo), per indole e cultura ricerca un canto composto, scevro da platealità, lirico. La sua Giovanna è approcciata al pari degli eroi di Rossini en travesti che porta solitamente in teatro. Gli intenti interpretativi sono belli, esattamente aderenti al testo. Condivide con la Dupuy la sottolineatura del lato malinconico del personaggio, venato forse anche da una certa tristezza di fondo. Tristezza che alla lunga, con lo scorrere delle battute, si trasforma in monotonia ed inerzia interpretativa. La voce è imponente, e trova un confronto nella sola Terrani, cui somiglia molto nell’esito finale della cantata (che la Barcellona, però, esegue integralmente, qui nella versione Sciarrino). Iperdotata, di una natura che diversamente acconciata l’avrebbe da subito collocata su Verdi, non so se come mezzo acuto o soprano drammatico vero alla Burzio o alla Poli Randaccio... Il suono è composto, ma costantemente connotato o da una certa fissità di fondo o da sonorità tubate in zona grave. La modulazione dei suoni ha luogo in bocca, come si può udire nell’ ” O mia madre……questo suon risponderà…”, oppure in quelle frasi che introducono la sezione finale, “Repente qual luce balenò nell’oriente…..più grande che non suole empie il ciel fulminando…..io vegno…” dove le note re-mi-fa alti sono regolarmente fisse. E credo che il quid di questa cantante stia tutto qui, nel fatto che la voce non è mai davvero retta dal fiato, non galleggi, e quindi si fletta con minor facilità rispetto ad una Horne, una Dupuy o una Berganza. E’ tutto giusto quello che la Barcellona vuole fare, ma la resa è statica, la sua Giovanna esce fiacca nell’accento patetico come nei momenti di virtuosismo, perché l’agilità è scolastica o poco incisiva, eseguita con esiti alterni. Le bastano frasi interlocutorie come “Ah la fiamma che t’esce dal guardo…..m’arde” oppure in chiusa al “ che in Dio, che in Dio sperò…” per trovarsi a pasticciare o spappolare la scrittura rossiniana. In altri passi regge, invece, abbastanza bene, come in “Guida i forti la vergine al campo….”, ma siamo lontani da quella perfezione esecutiva che fa di Rossini la palestra dei migliori vocalisti della storia del canto. Poco vale la messe di variazioni che esibisce nel da capo di “Corre la gioja di core in core….”, perché la voce suona fissa (per giunta di grande volume) e sgraziata, in particolare salendo ai primi acuti, tanto da rendere davvero poco piacevole l’ascolto del suo canto. Peccato.

Con Joyce Di Donato ci troviamo in piena Rossini décadence. Se qualcuno avesse ancora bisogno di essere certiorato circa il dilettantismo tecnico di questa cantante, ascolti l’audio di questa esecuzione. Primo problema della Di Donato, la centralità della scrittura nella sezione mediana dell’andantino, ove esibisce un canto frequentemente aperto e sguaiato, spesso completamente di petto in zona mi-fa–sol, con frasi addirittura veriste come “ Repente qual luce balenò nell’oriente..”, inammissibili nel belcanto, anche in quello che si pratichi nel Caucaso, nel Tibet o nel deserto australiano! Di nuovo nella sezione finale, quindi, nel “Corre la gioia di core in core”, che batte ripetutamente sul sol in primo rigo, il mezzo americano viaggia di canto aperto e di petto puro non sapendo a che santo votarsi, tanto che nel da capo attacca a puntare verso l’alto, e giustamente, ma provata da quanto eseguito sino a quel punto, finisce poi per gridare nella chiusa. La metterei in confronto con la più sopranile delle prime tre voci, T.Berganza, meno dotata in natura a mio modo di vedere. La voce della spagnola nella stessa zona mi-fa-sol non è gran chè, eppure canta, e con gran fluidità senza aprire o andare di petto, mentre la Di Donato si arrabatta malamente, alla fine anche senza gusto. E questo è sufficiente per provare il gap tecnico tra le due cantanti, ma anche tra due diverse epoche del belcanto. Quanto al canto di agilità, le cose non vanno affatto meglio, per forza di cose. La cantata basta ed avanza per mettere la simpatica Joyce a dura prova. Si trova alla corda sin dal recitativo, la stessa frasetta ove pasticcia la Terrani “il mormorar del vento”, per non parlare dello scempio che compie su quanto scritto da Rossini in chiusa a “questo suon risponderà” ( per nulla compensato dalla precedente interpolazione nella ripetizione di “questo suon” che precede la cadenza scritta……un vezzo inutile, quando poi si elidono le difficoltà vere che seguono ). All’arrivo della sezione finale, poi, accadono cataclismi vocali di vario tipo, dai pasticci in “Ah la fiamma che t’esce dal guardo…”, per non parlare dell’esecuzione “Singer style” ( o bartolesca, come vi pare..) di “Guida i forti la vergine al campo…”, lontanissima dall’agilità di forza necessaria per Rossini.
Insomma, una moltitudine di magagne vocali che impediscono alla pugnace Giovanna della Di Donato di convincere e di affascinare. All’immagine intellettuale (e simpatica) che questa cantante offre di sé, corrisponde, al contrario, un canto istintivo ma brado ed ineducato, estraneo alla vocalità Rossiniana, fatta, in primis, di emissione stilizzata, suoni immascherati ed astratti, virtuosismo eccelso e varietà di accento. Il tutto, tra l’altro, eseguito... al ROF, dove qualcuno avrebbe potuto e dovuto mostrarle come e perché si canta Rossini etc. etc.

Quanto a Cecilia Bartoli, vi prego di esimermi dalla recensione.
Già Duprez ha compiuto un sovrumano sforzo “sacrificandosi” per voi in questi giorni. Brevi estratti del prodigio vocale che è questa Giovanna d’Arco bartolesca possono ben provare che... abbiamo ragione noi. L’opera è finita perchè se questi sono i modelli odierni, il canto è arte perduta e sconosciuta, gli autori traditi dai loro custodi più blasonati e remunerati.
E Rossini, stando a come cantano le star odierne nell’anniversario della sua morte, è più morto oggi che all’epoca delle vituperate Pederzini e Supervía, perché ne è stata uccisa la lezione esecutiva ed interpretativa assieme ai necessari presupposti tecnici. Non è possibile continuare ad affermare genericamente la validità del modo di cantare ed interpretare di queste moderne signore barocchiste al pari del modo di una Horne, di una Berganza, di una Dupuy, di una Terrani. O ricusiamo il presente o ricusiamo il passato. Ma chi sceglierà questo presente dovrà poi anche dimostrarci, e con argomenti e non con ciance da giornalino-catalogo, come e perché quanto è trascorso non sia più la vera lectio, e lì li aspetteremo al varco!

PS
Un rimpianto.
Peccato la riscoperta tardiva di questa cantata di Gioachino, perché se l’avessero conosciuta la Schumann-Heink, la Onégin, la Matzenauer, la Stignani e la Doloukhanova ne avremmo sentite... delle belle!!!


Gli ascolti

Rossini - Giovanna d'Arco


1968 - Renata Scotto
1979 - Marilyn Horne
1986 - Martine Dupuy
1988 - Teresa Berganza
1989 - Lucia Valentini-Terrani
1997 - Violeta Urmana
2001 - Daniela Barcellona
2001 - Cecilia Bartoli
2003 - Ewa Podles
2005 - Joyce Di Donato


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giovedì 12 novembre 2009

Il "Sacrificium" della Bartoli

Da non molto tempo è disponibile sugli scaffali dei maggiori megastore del disco, l’ultimo album di Cecilia Bartoli. Dal titolo particolarmente evocativo – Sacrificium – e dal packaging patinato e accattivante (il prodotto è confezionato in una sorta di algido volumetto di 152 pagine che comprende una lunga tirata celebrativa dell’artista, un compendio “dalla A alla Z” sul mondo dei castrati, dall’inelegante titolo Evviva il coltellino! e un ricco apparato iconografico – anche se la copertina, ove campeggia il capo della diva montato su un torso mutilo di statua greco-romana dal sesso incerto, non denota certo un gusto sopraffino) il disco è dedicato al repertorio più acrobatico di quegli evirati cantori che resero ancor più grande l’epopea barocca dell’Opera Seria: Porpora, Caldara, Araia, Carl Graun, Vinci, Broschi, Giacomelli e Handel naturalmente. Proprio le celebrazioni del 250° anniversario della morte del Caro Sassone, infatti, sono state l’occasione di una serie di uscite discografiche dedicate al grande compositore naturalizzato inglese e al mondo che lo circondava, con particolare attenzione a quell’universo misterioso ed affascinante che è la tuttora inafferrabile voce dei castrati.

I risultati di queste scoperte e riscoperte – tutte, naturalmente, effettuate sotto l’egida e la benedizione della filologia barocchista – sono stati per lo più interlocutori, nel presentare un repertorio a lungo misconosciuto, ma attraverso performance assai discutibili (si pensi all’ondata di incisioni affidate a falsettisti, che tuttora continua a macinare album su album: è il caso di Jaroussky, appena uscito con la risposta controtenorile alla diva di casa Decca, La Dolce Fiamma, dedicato alle arie per castrato di Johann Christian Bach). Come di consueto, tuttavia, la Bartoli e il suo staff, hanno preparato l’uscita del nuovo album con un’abilissima campagna stampa ed un battage pubblicitario particolarmente aggressivo, al fine di trasformare la presentazione di un prodotto tutto sommato di nicchia, in Evento di carattere internazionale. E dunque si sono succedute interviste, polemiche, concerti esclusivi in location deluxe (la presentazione del disco alla Reggia di Caserta per un selezionatissimo pubblico di critici graditi), fotografie, poster, filmati circolati su Internet, spezzoni di brani. A tutto ciò si è aggiunta, in ossequio alle mode odierne del conformismo intellettuale, una gratuita polemica – che puzza tanto di politically correctness – nei confronti della pratica dell’evirazione: un grido di dolore e una sincera e commossa partecipazione, necessariamente postuma, per le sorti di quelle centinaia (migliaia dice la Bartoli) di fanciulli privati dei genitali, di cui solo una piccolissima parte ascendeva poi all’olimpo delle celebrità. Una mattanza, suggerisce la diva, che non può essere riscattata dalla meraviglia della musica che ha contribuito a produrre e che non può che essere deprecata e stigmatizzata. Polemica sterile – a quando la richiesta di risarcimento danni? O la bollatura di quel repertorio come una entartete Musik e la conseguente proibizione? – che denota la superficialità dell’approccio nell’affrontare un mondo culturale ed un sistema di valori lontani dalla nostra sensibilità. Superficialità e ignoranza: oltre, naturalmente, all’occhio verso il marketing attraverso il maggior appeal che un contorno pruriginoso o truculento può regalare al prodotto messo in vendita. Una grande attesa, dunque, è stata creata per l’avvento di questo album, accompagnata da litigi e discussioni, da elogi preventivi e altrettanto preventive stroncature, da presuntuosi e antipatici attacchi verso i pubblici facinorosi del Bel Paese ove osano criticare la diva (scandalo inconcepibile per chi ritiene essere suo diritto la proskynesis di cui è oggetto nell’Europa più evoluta – o supposta tale) e dall’entusiasmo, un po' ingenuo, dei suoi pur numerosi fan (o piccoli fan, vista l’età anagrafica della maggior parte degli stessi: ignari che la musica barocca venisse suonata e cantata anche prima della venuta dei baroccari). E alla fine? Much ado about nothing! Molto rumore per nulla, direbbe Shakespeare, giacché il contenitore – dopo un approfondito ascolto – è molto più interessante del contenuto. Innanzitutto la scelta dei brani: tutti, o quasi, sono inediti e prime incisioni mondiali. Ma aldilà del gioco puramente intellettualistico e dello snobismo filologico, è evidente l’intento di sottrarsi a qualsiasi confronto con il passato più o meno prossimo (altrimenti inspiegabile la mancata inclusione della assai più celebre “Qual guerriero in campo armato” dello stesso Broschi, di cui si è preferita la assai meno spettacolare “Son qual nave”, a parte l'unico vantaggio di non aver altre incisioni facilmente reperibili: salvo la Anfuso in un ormai introvabile recital del '94 e una elaborazione digitale dell'aria predisposta per il Farinelli cinematografico). Operazione, però, non perfettamente riuscita, giacché se è pur vero che non vi è la possibilità di confrontare immediatamente ogni singola interpretazione della Bartoli con analoga di altre cantanti, tuttavia non è affatto inedito il genere e il repertorio in cui i brani che compongono la track list, si inseriscono. A maggior ragione per arie il cui valore principale risiede nell’acrobazia vocale più che nel contenuto musicale: poco importa che nessuno abbia mai inciso “In braccio a mille furie” dalla Semiramide riconosciuta di Leonardo Leo, per giudicare il modo in cui la Bartoli esegue l’aria basta prendere a paragone una qualsiasi aria di furore cantata dalla Horne, ad esempio, per evidenziare le differenze tecniche e interpretative. In secondo luogo emerge in questo ultimo prodotto, più che altrove, un manierismo in cui la diva romana trova comodo sollazzo: un one man show in cui tutto gira intorno ai suoi capricci, e nel quale – aldilà delle dichiarazioni programmatiche – la musica eseguita, la riscoperta, la cura filologica, riveste ben poco interesse. La Bartoli fa la Bartoli: fa quello che il suo devoto pubblico si aspetta e facendolo ne esagera i profili (sussurri, grida, smorfie, ansimi, spasmi, agilità mitragliate etc...). E’, se mi si consente il paragone, il Quentin Tarantino dell’opera barocca. Va sul sicuro, perfettamente consapevole che comunque sarà un successo di critica e pubblico. Cosa resta dunque, dopo l’ascolto? Qual è il valore musicale del prodotto discografico? Nulla! Ripulita dal circo montato sopra di essa, l’intera operazione rivela un vuoto assoluto: un nulla mal eseguito, per giunta. La lettura della Bartoli è superficiale: tesa a far schizzare la voce (piccola) su e giù per il pentagramma in scale velocissime di agilità sgranate in modo rozzo e sostenute a colpi di gola (e spesso è evidente la sensazione di un continuo e fastidioso vavavavava al cui confronto le agilità della Genaux appaiono liquide e astratte come quelle della Sutherland), in note ribattute, in trilli gorgoglianti: alla fine viene il mal di mare, si prenda ad esempio l’assurda “Chi temea Giove regnante” dal Farnace di Vinci, che sembra la caricatura di un’aria di furore. Il legato – già evidentemente compromesso nella precedente Sonnambula – è qui completamente assente. Non riesce a legare due note senza perdere il sostegno del fiato, cosa che rende l’esecuzione delle arie lente un vero strazio: malinconia e sensualità vengono sistematicamente sostituite da sussurri impercettibili, sospiri, tempi slentati. Si ascolti, per farsi un’idea, “Ombra mai fu”, contenuta quale bonus track nel secondo cd, e la si confronti con la stessa aria cantata dalla Podles o dalla Horne (ma direi anche dalla Flagstad e persino da Caruso). E così si potrebbe andare avanti per tutti i brani dell’album, che si susseguono monotoni e identici, in 105 estenuanti minuti che metterebbero a dura prova i nervi di chiunque...e nei quali la Bartoli perpetua se stessa “all’apice del proprio masochismo”. Un’ultima annotazione, però, la merita l’orchestra Il Giardino Armonico diretta da Giovanni Antonini: talmente aguzza, stridente e priva di colore da risultare perfettamente evocativa di quello strumento – il coltellino appunto – artefice immediato, nel bene e nel male, di quelle voci eccezionali che furono, quelle, la vera gloria del canto barocco.


Gli ascolti

Haendel - Serse


Atto I

Frondi tenere...Ombra mai fu - Elisabeth Rethberg (1924)

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