venerdì 31 dicembre 2010

Il Trillo di fine anno

Pare proprio che il solo difetto nell’esecuzione dei trilli con cui non si venga ammorbati dal costume del malcantare corrente sia quello dell’abuso. Non patiamo più certo gli eccessi “sillsiani” nell’infarcire i brani, ma nelle male esecuzioni soffriamo, al contrario, di tutte le patologie che il vecchio Tosi, ad inizio XVIII secolo, ben descriveva:
“….Molti sono i difetti del trillo che bisogna sfuggire….quel trillo che si fa sentir sovente, ancorché fosse bellissimo, ora non piace; quel che si batte con disuguaglianza di moto dispiace; il caprino fa ridere, perché nasce dalla bocca come il riso, e l’ottimo nelle fauci; quel che non è prodotto da due voci in terza disgusta; il lento annoja; e il non intonato spaventa….”.

Esistono forse oggi grandi trillatori? Ovunque si cerchi, uomini, donne, terzo sesso et seguenti ( vocale beninteso! ) di ogni sorta di falsettista e similcastrato che sia, tutti mal trillano o non trillano per niente, e ciò ad onta dell’odierna moda baroccara. Anzi proprio i signori praticanti del canto settecentesco fanno il peggior scempio di una delle figure, forse la più nobile e distintiva, del canto d’agilità: “ Chi ha un bellissimo trillo , ancorché fosse scarso d’ogni altro ornamento, gode sempre il vantaggio di condursi senza disgusto alle cadenze, ove perlopiù è essenzialissimo; E chi n’è privo ( o non l’abbia che difettoso ) non sarà mai gran Cantante benché sapesse molto……che lo Scolaro giunga ad acquistarlo eguale, battuto, granito, facile e moderatamente veloce, che sono le sue qualità più belle…”, lo dice sempre il nostro Pier Francesco Tosi, e dopo di lui il Mancini, quindi il Garcia etc.. Con buona pace degli isterici trillamenti dentali tipo macchina da cucire delle dive del barocco femminile e femmineo, come dei gorgoglii ingolfati dei moderni travesti del belcanto.

Figura nobile e nobilitante del canto, quello di scuola, cui la letteratura d’epoca dedicava ampio spazio, classificati in otto gruppi perlopiù, variamente definiti, e dettagliate note di tecnica esecutiva. Ritenuto espressamente “indispensabile compimento” delle cadenze, more Sutherland tanto per intenderci, poteva ritrovarsi scritto dal compositore e/o inserito dall’esecutore in brani dal carattere più disparato, dal comico al tragico, dall’isterico all’astratto. Rabbia, nevrosi, sublime distacco, la figura si fletteva ad ogni genere di scrittura, grazie alla varietà dei modi esecutivi possibili che i grandi cantanti sapevano dominare. Trillavano tutti nel mondo di Rossini, il tenore tragico e comico, eroe positivo e negativo, contraltino o baritenore; trillava l’amoroso en travesti come già aveva fatto il castrato prima di lui; trillava l’eroina tragica come il soprano assoluto; trillavano i bassi, come Mosè e Maometto II.
Si trillava anche con Bellini e Donizetti. Norma esprimeva la rabbia contro Pollione per Adalgisa a suon di trilli, prima di sfogarsi nell’acuto, ma trillava anche il nobile Don Alphonse nel cantare il proprio innamoramento per Favorite. Trillava Bolena nella tragica salita al patibolo, ma ancor più spericolati i trilli dell’amato Percy, nella medesima situazione.
Con Verdi la figura divenne ancor più funzionale alla caratterizzazione di certi lati dei personaggi, come la componente aristocratica della figura del marchese di Posa, o quella astratta e favolistica del personaggio di Leonora del Trovatore come il di lei contraltare, Azucena, nell’allucinato ricordo dell’infanticidio nel fuoco che arde e stride ancora nella sua mente. Avevano già trillato prima di loro l’innamorata Amalia dei Masnadieri, la luciferina Lady nello spettrale brindisi del banchetto, la sanguinaria Abigaille. Anche Violetta si rianima in punto di morte eseguendo dei trilli, mentre la dolce Gilda, tutta presa dai suoi pensieri amorosi, esce di scena su un lungo trillo tenuto in “morendo”. Si trillò a lungo, dunque, nel post belcanto ma anche in ossequio ai modi del Grand-Opéra, come Elena del Bolero dei Vespri. Prima di lei avevano trillato gli interpreti degli Ugonotti, dal gigantesco Marcel nel “Piff paff”, poi nel duetto con Valentine; la ieratica Fides di Prophète, e prima ancora di loro Eudoxie di La Juive ed Elvira di La Meutte. La Marguerite del Faust di Gound aveva trillato nell’Opéra Lyrique per la felicità di vedersi adornata di gioielli; Mignon e Philine trillarono più tardi per la gioia all’Opéra Comique.
Nel corso dell’Ottocento poi lo stilema ebbe ancora vita in situazioni particolarissime ma stupefacenti. Il lato selvaggio di Brünnhilde venne accentuato, nell’ Hojotoho, dalla scrittura di trilli; ne La regina di Saba di Goldmark la seduzione della schiava in simulate vesti regali si incentrava sull’esecuzione dell’arcaica figura; la pazzia di Margherita del Mefistofele finì per affidarsi anche alla nevrotica esecuzione di trilli come da tempo tutte le alienate del melodramma, Lucia in primis, grazie agli inserimenti delle intepreti.

Gli antichi sapevano articolare in forma assai più estesa il fatto che il trillo di grande qualità esecutiva fosse peculiarità del canto di grande tecnica: noi oggi ci limitiamo a tramandare che una voce in ordine trilla con facilità, le altre no. E potremmo quasi fare del trillo il parametro di analisi delle moderne voci per verificare quanto si sappia o non si sappia cantare oggi. Ancora elettrizzati dai trilli ostentati e galvanizzanti di un Blake o di una Dupuy (la Scala ben ricorda la messa di voce sul trillo ribattuto, attaccato di spalle al pubblico nella ripresa della cabaletta della cavatina di Malcolm nella Donna del Lago) o, prima ancora, dai leggendari mezzi trilli della Sutherland nel tragico rondò di Borgia come nel “Notte terribile, notte di morte” di Semiramide, attendiamo da molto tempo che nasca qualcuno in grado di trillare come loro. In un mondo dove i punti coronati nelle opere di belcanto vengono il più delle volte cestinati alla “tantonessunoseneaccorge”, ci rendiamo conto di avere anacronistiche pretese, destinate a rimanere vane! Vi pare questa l’epoca per aspettarsi un trillo ben eseguito? O di attendersi un trillo “mordente”? O un mezzo trillo? O un trillo “cresciuto”? Un trillo ribattuto? O “calato”? O un trillo “raddoppiato”? Di aspettarsi che una voce maschile, magari grave, trilli al di fuori del repertorio belcantista?
La perdita della tradizione esecutiva, ed ancor prima tecnica, è documentata con evidenza nella storia del disco. Strepitosa trillatrice Frida Leider, trillatrice wagneriana ma anche nel canto verdiano, ed altrettanto stupenda Rosa Raisa, in una delle più belle ed emozionanti esecuzioni del “D’amor sull’ali rosee”, o la famosissima esecuzione dello "Stride la vampa” della Onegin, la più fedele esecuzione della scrittura verdiana. Eppure sono gli uomini i più impressionanti per noi oggi. Il Don Alphonse di Endrèze stupisce per la perfezione esecutiva del trillo, che, unitamente alla linea musicale, dà al suo canto un vero status regale, come pure stupisce la facilità esecutiva di Plancon. Di Jadlowker abbiamo già parlato altre volte, ed è lì da ascoltare, in “Fuor del Mar” o nella cadenza dell’aria di Raoul. Così come trillavano i soprani spinti e drammatici, trillavano i tenori di forza, come prova Leo Slezak nell’”Ah si ben mio”, un medicamento per le orecchie, dopo la ridicola e maldestra esecuzione che ci è toccato sentire in quel di Parma recentemente.
Certo, quando si pensa ai trilli stupendi esibiti nella pazzia di Margherita da Magda Olivero, che con il belcanto nulla ebbe che fare, vien da pensare al rimando di Garcia all’esecuzione della messa di voce, rimando certo non casuale: strepitosa esecutrice di forcelle di ogni tipo Magda Olivero, guarda caso abile trillatrice all’occorrenza.
Il passato insegna e racconta, per iscritto e per audio: quanto a trilli lo spettatore di oggi può esercitare solo l’arte della memoria.



Gli ascolti


Rossini - Mosè

Atto II


Eterno, immenso, incomprensibil Dio...Celeste man placata - Nazzareno de Angelis (1927)


Rossini - La donna del lago

Atto I


O quante lagrime - Martine Dupuy (1986)


Bellini - La sonnambula

Atto II

Ah! Non credea mirarti - Adelina Patti (1906)


Donizetti - Lucia di Lammermoor

Atto III


Ardon gl'incensi - Amelita Galli-Curci (1917)


Donizetti - Lucrezia Borgia

Atto II


Il segreto per esser felici - Ernestine Schumann-Heink (1909)

Era desso il figlio mio - Joan Sutherland (1972)


Donizetti - La favorite

Atto II


Jardins de l'Alcazar...Léonor, viens - Arthur Endrèze (1932)


Meyerbeer - Les Huguenots

Atto I


Plus blanche que la blanche hermine - Hermann Jadlowker (1912)


Meyerbeer - L'Africaine

Atto II


Sur mes genoux - Margarethe Matzenauer (1912)


Verdi - Il trovatore

Atto II


Stride la vampa - Sigrid Onegin (1922)

Atto III

Ah! Sì, ben mio - Leo Slezak (1906)

Atto IV

D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918)


Gounod - Philemon et Baucis

Atto I


Au bruit des lourds marteaux - Pol Plançon (1905)


Goldmark - Die Königin von Saba

Atto II


Lockruf - Selma Kurz (1925)


Bizet - Carmen

Atto II


Halte là! - René Lapelletrie (1919)


Wagner - Die Walküre

Atto II


Hojotoho! - Frida Leider (1927)


Boito - Mefistofele

Atto III


L'altra notte in fondo al mare - Magda Olivero (1962)


Venzano

Oh! Che assorta - Luisa Tetrazzini (1913)

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mercoledì 29 dicembre 2010

Stagioni prossime venture: Parma vs. Pesaro

Quando cominciai a frequentare i teatri d’opera, e parlo degli anni settanta, alcuni titoli erano ancora di repertorio nel senso che un anno sì ed uno no circa venivano proposti dai teatri. E non solo dai maggiori, ma anche da quelli che venivano definiti di provincia. Quindi ascoltare Forza del destino per il pubblico piacentino piuttosto che per il torinese era, appunto, la regola. Se poi si scende nel dettaglio dei cast di quelle edizioni i trenoi sono obbligatori. Non solo, ma le doglianze ci forniscono più di ogni studio utili dimostrazioni della catastrofica situazione in cui versano i nostri teatri, la fantasia dei loro dirigenti, la di loro preparazione culturale ed iniziativa capace solo di fumose e cerebrali iniziative, che con l’onesta gestione, che può anche produrre spettacoli di rilievo e degni di moria, non ha, purtroppo, alcunché a spartire. E le conseguenze ricadono sul pubblico vuoi quale ascoltatore vuoi e prima ancora quale contribuente.

Il discorso è già stato fatto e forse il commento alle due stagioni d’opera e festival, che si piccano di "fare cultura" e di restaurare il perduto è assolutamente inutile. Basterebbe il comparato ascolto degli attuali prodotti con quelli di quaranta anni or sono senza alcun commento per essere esaustivi della attuale situazione.
Allora per farla breve un teatro come il Regio di Parma che anche in stagione ordinaria vorrebbe (sul dovrebbe ho molti dubbi) onorare in primis Verdi ossia quel genius loci, che con Parma e dintorni ebbe sempre il rapporto del nemo propheta in patria offre Forza del destino. Ovviamente in edizione 1869 ossia quella che Verdi predispose per la Scala; la affida ad un direttore che con Verdi, salvo poi che per Verdi non si intenda fragore e rumore, non ha rapporti di sorta. Tanto meno con un Verdi che alterna a momenti sublimi altri, come la lunga serie di scene di colore, difficili da reggere e rendere per ogni bacchetta. Anche assai più dotata di un Gelmetti.
Protagonista femminile Daniela Dessy, giustamente confermata dopo l’encomiabile prova dei Vespri perché cantante di voce autenticamente verdiana ossia salda, ampia e di grande cavata oltre che dalla dinamica sfumata e varia. Mica una gelida matrona come la Tebaldi e la Cerquetti per anticipare categorie e terminologie che il critico autore del più pesante libro della storia dell’esecuzione discografica spanderà e spenderà per la protagonista. Quanto al protagonista maschile Hong mi permetto solo di ricordare - a me stesso, naturalmente - che il tenore di Forza è parte assolutamente centrale (non per nulla fu l’ultimo titolo di Verdi aggiunto al repertorio da Caruso e rimase sino alla fine in quello di Gigli e Bergonzi) e che, per contro, se ha una qualità il signor Hong sono gli acuti estremi. Scusate, ma in origine avevate previsto l’edizione di San Pietroburgo pensata per Tamberlick ? Non che Hong sia neppure lontanamente parente al tenore drammatico di marca ottocentesca!
A Roberto Scandiuzzi il ruolo del padre guardiano. Ricordo che è lo stesso cantante che ha ricoperto il ruolo nella recente esecuzione fiorentina. Il resto non dico. Che comodità, talvolta, il librettese! Leggendo, poi il nome di Carlo Lepore quale fra Melitone confesso di aver dubitato o che si tratti di una versione alternativa alle note o baroccara comparate la scrittura assolutamente baritonale di Melitone con tanto di fa acuti e le qualità vocali e frequentazioni dello scritturato artista.
Quanto al Naso di Sŏstakovič -credo- la prima difficoltà per il pubblico locale sarà quella di pronunciare il nome dell’autore. Il titolo, però, è assolutamente interessante. Dobbiamo, però, per attirarci un’ulteriore dose di strali e di taccia di ignoranti rilevare come in una stagione di tre titoli si debba dubitare dell’opportunità di proporre questo ed aggiungiamo con una importata dal teatro secondario della terra di origine del direttore principale del festival. Non credo di dire nulla di nuovo e o di strano perché internet a questo serve e poi con ben altra cognizione di causa vi ha già provveduto altro bloggista nel proprio e nel corso della conferenza stampa di presentazione della stagione. Lo fa solo per consentire ai giornalai e pennajoli di dire che la causa dei mali del teatro sono i blog!!!!
Al nuovo astro del pubblico parmigiano o meglio della dirigenza parmigiana Andrea Battistoni cui affidato il Barbiere di Siviglia di raccattato allestimento francese. Rossini, non si sa bene per quale motivo, è autore da giovani direttori come se districarsi fra scelte di filologia, di inserimenti testuali, di prassi esecutiva, di una delle scritture vocali più complesse e necessarie di accomodi sia, appunto, affare da debuttante o quasi.
Tanto è che il festival a Rossini deputato ha affidato al veterano e ormai ottantaduenne Alberto Zedda l’esecuzione in forma di concerto del Barbiere previsto per il Festival 2011. Intendiamoci bene gli scopi di questa scelta non sono neppure lontanamente quelli, che più sopra abbiamo richiamato, ma quelli di promuovere la nuova edizione critica. La terza in quarantatre anni se si considera appunto quella di Zedda 1968, quella di Philip Gossett e quest’ultima, chiara risposta a quella di Gossett, fuggitivo (sua aut alia sponte non oportet) dalla patria rossiniana.
Letto il cast credo che difficilmente i lettori e gli ascoltatori non si schiererebbero dalla parte di Tullio Serafin, paradigma -secondo Gossett- con la sua forbice facile dell’anti rossinismo. Magari qualcuno rimpiangerà pure le Rosine della Sayao o della Toti, i lazzi di Corena e il sempiterno taglio del rondò del Conte. Corsi e ricorsi storici? Buonsenso?
Quindi dell’annuciato programma di massima pesarese tralascio ogni commento sui concerti di cosiddetto bel canto e mi concentro sui due titoli principali.
Che ci fosse l’esigenza di una Adelaide di Borgogna dubito, tenuto conto del fatto che il titolo era già stato proposto qualche anno or sono, seppure in forma di concerto. Ed Adelaide non è certo titolo che deve essere rappresentato, a maggior ragione quando alcuni (Aureliano e Ciro) attendono ancora una prima rappresentazione pesarese e consentirebbero un più sicuro riparo alla protagonista en travesti, trattandosi nel caso del Ciro di parte scritta per la Marcolini, affidando l’onere della vocalità già autenticamente rossiniana al prescelto soprano Jessica Pratt, che sembra averne tutte le caratteristiche e qualità. Come per un lontano Falliero sarà una scelta casuale e non voluta. Le migliori insegna la storia di Pesaro.
A proposito anche l’altro titolo prescelto Mosè in Egitto evoca la felicità delle scelte casuali ed occasionali del Festival Rossini, ovvero la simpatica Gianna Rolandi che vestì i panni di Elcia nella ripresa del 1985. In questa futura edizione, invece, la scelta della protagonista femminile sembra rispondere alle scelte à la page del Festival per quanto riguarda il soprano Colbran ovvero affidarla ad una cantante che qualifichiamo come mezzo soprano. La Ganassi è alla terza o quarta esecuzione di parte Colbran. Fra la cantante reggiana e la spagnola non vedo, scrittura di Rossini e descrizioni coeve alla mano, alcun rapporto. Sonia Ganassi coi suoi acuti ghermiti l'agilità accennata è la negazione del canto rossiniano. Se a questo aggiungiamo che il canto senza tecnica non conserva, ma intacca il capitale vocale posso anche fare basta perchè le conclusioni sono ovvie e scontate. Ma questa è la moda e qualcuno troverà modo di apprezzarla, non quelli del Corriere, che sono almeno esterrefatti pensando che si annuncia il Mosè senza il protagonista. Ma anche questa è la perversione dei tempi il titolo per il titolo non il titolo per il cantante!!!! Mai lo avrebbero fatto Rossini, Donizetti ed anche il vituperato Tullio Serafin, che riesumò Armida, disponendo di un opulento soprano americano, di origine greca, che cantava con uno splendido accento scaligero (non nel senso del teatro, ma della città bagnata dall'Adige).





Gli ascolti


Rossini

Il barbiere di Siviglia


Atto II

Cessa di più resistere - Juan Francisco Gatell (dir. Alberto Zedda - 2010)


Verdi

La forza del destino


Atto I

Il Marchese di Calatrava - Rej Miville
Donna Leonora de Vargas - Caterina Mancini
Don Alvaro - Bruno Prevedi
Curra - Norma Dean

dir. Anton Guadagno

Philadelphia 1963

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lunedì 27 dicembre 2010

Traviata con Edita Gruberova al Musikverein

A quasi vent’anni di distanza dalla recite alla Fenice di Venezia, cui seguì un’unica ripresa in Giappone nel 2001, Edita Gruberova ripropone la Traviata, in forma di concerto, a Monaco di Baviera e in trasferta al Musikverein di Vienna. Ed è in questa sfavillante cornice, per usare il gergo della cronaca mondana, forse il più adatto a restituire il clima e il significato della serata, che abbiamo udito il sessantaquattrenne soprano di Bratislava nel ruolo dell’infelice cortigiana. Serata di cui si stentano a comprendere le ragioni, anche se qualche supposizione appare lecita e persino doverosa.

Il 2013, anno verdiano, si avvicina e la Gruberova, da sempre oculata amministratrice di se stessa, può essere stata indotta alla riscoperta del titolo da un attento esame del parco soprani attualmente a disposizione di un teatro, che voglia allestire l’opera in questione. Quando cantanti in ascesa o magari in piena carriera, che hanno l’età per essere figlie o nipoti della signora Gruberova, cancellano o infermano con poco o nessun preavviso, è possibile preventivare, ovviamente a parità di cachet, l’utilizzo di una cantante certo usurata, ma tecnicamente scafata e quindi in grado di portare a termine una serata senza eccessivi patemi. Il problema è che il gioco, se può riuscire con certi ruoli (penso a Zerbinetta, che peraltro la Gruberova ha ufficialmente ritirato dal repertorio, oppure a Lucia, o ancora all’Elvira dei Puritani, parti che possono anche essere “suonate”, ossia risolte con il puro suono, e non presentano insormontabili esigenze interpretative), in altri casi risulta molto più complicato e, spesso, decisamente impraticabile.
Violetta, parte creata da Fanny Salvini Donatelli, soprano di coloratura che però cantava fra l'altro anche il Poliuto (a conferma del fatto che il soprano di coloratura dell’epoca era qualcosa di profondamente diverso da quello cui siamo abituati da almeno sessant’anni a questa parte), non solo presenta una scrittura marcatamente centrale, in alcuni punti decisamente bassa (scene di conversazione al primo atto, cui peraltro succedono le repentine incursioni all’acuto della grande aria – la bemolle di “solinga ne’ tumulti” e do ribattuti della cabaletta), ma richiede un fraseggio e un accento di alta scuola, specie per la cantante che non disponga di clamorosa dote vocale (non tutte possono essere Rosa Ponselle o Maria Caniglia!).
Ora, grande fraseggiatrice e grande attrice vocale, almeno nel repertorio italiano, la Gruberova non è mai stata, neppure nei suoi giorni migliori, e non è ragionevole né giusto pretendere che possa divenirlo ora. Purtroppo la signora appare anche priva della prudenza, o della furbizia, di colleghe di pari età e analoga natura vocale, e sceglie quindi di cantare Violetta adottando un fraseggio nelle intenzioni elettrico e nevrotico, nei fatti bamboleggiante e lezioso, perché sempre identico a se stesso, tanto nella scena della festa al primo atto, quanto nel confronto con Germont padre, nell'angoscia della festa di Flora come nell’attesa dell’ora suprema. Ovviamente un simile fraseggio non basta a mascherare, anzi impietosamente sottolinea, i limiti di una voce sempre perfettamente proiettata, udibile anche nei pianissimi generosamente profusi al terzo atto, ma stonacchiante in zona centro-acuta, fissa (aria del terzo atto, sciaguratamente proposta in versione integrale), malferma nei tentativi di suoni tenuti dal mf in su (“Gran Dio! Morir sì giovine”), in debito di ossigeno e quindi incapace di legare nei cantabili (sia al primo che al terzo atto, ma soprattutto nell’”Amami Alfredo”, che il pur generoso e amorevole pubblico viennese fa passare senza un solo applauso). C’è poi da notare che la Gruberova, anche in questo distante, da sempre, dal gusto italiano, sceglie di non adottare neppure una timida variazione al testo nel corso dell’intera serata, diversamente dai soprani di coloratura “a 78 giri”, che anche e soprattutto nelle cadenze e interpolazioni dimostravano tutta la grandezza dell’arte loro e giustificavano il proprio impiego nel ruolo.
Si salvano comunque dal disastro generale il brindisi al primo atto (in cui la voce è ancora sufficientemente fresca e riposata da consentire alla cantante di affrontare in souplesse la blanda scrittura vocalizzata), il largo del finale secondo (dato che la signora ricorda ancora come si faccia a “tirare” un concertato, pur con la sua voce non certo straordinariamente potente) e l’incipit del terzo atto, almeno fino all’arrivo del Dottore. Per il resto, scenda l’oblio e si chieda la signora quanto senso abbia seguitare con questa parte e preventivare, in una simile fase della carriera, nuovi ed onerosi debutti (Straniera a Monaco nel 2012).
I solisti di contorno sembravano scelti per fare da contorno, appunto, alla primadonna e sottolinearne, per contrasto, i meriti residui: un Alfredo (Pavol Breslik) di voce microbica (a meno di non emettere, come al terzo atto, suoni ben distanti dal canto, non solo lirico) e stonacchiante in zona di passaggio (specie nell’aria) e un Germont padre (Paolo Gavanelli) che ricorda i tragici “bassi” di matrice baroccara e canta con voce sì larga, ma emessa tutta sulla “u” e sovente fissa, oltre che simile, nel timbro, a suoni naturali che poco o nulla hanno di umano. Tralasciamo volentieri i comprimari, fra cui spiccano (si fa per dire) la veterana Marie McLaughlin, che passa da Violetta a Flora (era tempo), e il consunto Kurt Rydl, che nei panni del Dottore riesce a pasticciare uno dei suoi cinque interventi solistici.
Le note di merito, infine: per Adam Kim (Barone Douphol, bella voce cui auguriamo di maturare senza bruciarsi in un paio di stagioni, come avviene a tanti giovani promettenti) e soprattutto per il direttore Marco Armiliato. Quelle coinvolte nel progetto (Münchener Opernorchester und –Chor) non sono compagini stabili, ma formazioni create per l’occasione, eppure il risultato è di classe, vuoi per l’alta qualità dei musicisti coinvolti, vuoi per la capacità della bacchetta di costruire un “tutto” armonioso e coerente. Ne risulta una Traviata da manuale: brillante, a tratti sontuosa, magniloquente e sentimentale ma non priva di finezza e con pochi cedimenti a un gusto deteriore (solo l’invettiva del coro dopo la scena della borsa avrebbe potuto essere meno fragorosa e più incisiva). Con quello che sentiamo quasi ogni giorno in teatri, che millantano tradizioni verdiane di prima sfera, e da bacchette per le quali si sprecano i più ingombranti termini di paragone, questa Traviata è stata, almeno dal punto di vista orchestrale e corale, un’autentica boccata d’aria fresca.



Gli ascolti

Verdi - La traviata


Atto I

Ah, fors'è lui...Sempre libera - Marcella Sembrich (1908)

Atto II

Dite alla giovine - Frieda Hempel & Pasquale Amato (1914), Nellie Melba & John Brownlee (1926)

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sabato 25 dicembre 2010

Buon Natale

E ci mancava un saccente augurio da parte di Domenico Donzelli, dirà qualcuno.
Se risulterà saccente chiedo anticipata venia. Vuole essere, invece, un augurio veramente sentito.

Il primo augurio grande, profondo per i collaboratori del blog. Quelli operativi dal suo inizio o da tempi più recenti ed anche quelli -diciamo- in pectore, perchè le necessità e l'approfondimento impongono l'ausilio di nuove forze e di qualità. Meritano, lo dico riprendendo una polemica recente, rispetto ed attenzione perchè sono loro i futuri ascoltatori quelli cui è ormai passato il testimone per essere il pubblico competente e preparato di domani. E fanno veramente molto per esserlo pur in un'epoca di maestri, nel migliore dei casi, pessimi, più spesso disonesti ed irresponsabili. Alla loro età, grazie all'ausilio del mondo virtuale hanno una conoscenza della storia della musica, del melodramma, dell'interpretazione e della vocalità che, non solo per la contingenza, ci era sconosciuta.
Per questo sono, e non solo nell'hobby, preziosi anche con le loro esuberanze ed intemperanze dell'età e del legittimo desiderio di affermare il proprio potenziale in un mondo, che poco ha concesso a noi e nulla sembra promettere e garantir loro.
Coloro che li hanno etichettati "scherani" di Domenico Donzelli o, indicato Domenico Donzelli come "lupo alfa", come un branco, hanno mancato in primo luogo di un'educazione e finezza di animo e soprattutto di una minimale autocritica, in quanto anch'essi fanno parte di un branco, in posizione -magari-di lupa omega.

Proprio a costoro il secondo augurio di Natale che è un augurio di un pronto recupero della buona educazione, del senso del decoro e della decenza e, soprattutto, del rispetto, perché le opinioni del Corriere possono ben essere non condivise, ma non sono da essere fonte di ironia e caccia alle streghe. Non perché magari tali non siamo, ma perchè -loro malgrado - il mondo è popolato di streghe. Ove per streghe si intendono persone fuori dal coro, che, deluse della costante presa in giro, commentano la medesima con quel che è da sempre dato al pubblico: i fischi.

E' sentito l'augurio natalizio (e siamo al terzo) di riappropriarsi di decoro e rispetto verso il prossimo per chi, per propria univoca scelta, è divenuto inopportuno, sgradevole, nemico nel senso etimologico del termine solo per voler esserci, farsi vedere, esistere, col risultato di ammorbare il mondo virtuale con interventi costantemente inopportuni ed offensivi (e ne siamo addolorati) che nessuno crede goliardia, ma manifestazione di altro. E mi taccio. Prenda esempio da alcuni nostri sboccati detrattori, che hanno applicato il motto "un bel gioco dura poco" alle loro parodie. Auguri -quarta stazione augurale- anche a loro.

Auguri alla critica militante, scrivente e intanata nei teatri e festival, dei cui uffici stampa è diventata una venefica propaggine, che non potendo inneggiare agli spettacoli (spesso una minestra di magro del venerdì, per usare il linguaggio di Giannino Stoppani, alias Giamburrasca) è ridotta a rampognare il pubblico e ad aizzare i propri lettori verso chi esprima, more solito, la propria voce fuor del coro.
Hanno ottenuto di farsi compatire e di allietare le serate dei melomani con le loro facezie. Anche questo è un risultato.

Auguroni ai tre fori d'opera operativi in Italia. Nessuna ironia, come alcuno potrebbe pensare, perché con la responsabile di uno i rapporti sono vieppiù rafforzati in grazia di un post gratuito, cretino e di urfido gusto, prontamente e congiuntamente rintuzzato dalla responsabile medesima, che molto ci ha aiutato ai fini della salvaguardia dell'immagine personale offesa; un altro si occupa di un prodotto che solo nominalmente è simile al nostro ed il terzo, che -siamo sinceri- non può amare gli ingombranti Grisi, Grisini e Donzelli ha, però, posto un freno ad atteggiamenti compulsivi, che fanno sfigurare l'autore e che tanta pubblicità ci regalano!

Augurissimi ai cantanti d'opera. Moltissimi di loro ed i loro rappresentanti credono e scrivono che li maltrattiamo per divertimento e frustrazione di non calcare il placoscenico. Con l'occasione precisiamo che nessuno del Corriere ha mai provato a studiare canto (se mai alcuni hanno seri studi di uno strumento musicale). Spesso censuriamo non i limiti , ma le cause di questi stessi. Basta leggere. Qualcuno, sappiamo, ha lamentato maltrattamenti per cause metartistiche, amplificati e strumentalizzati da agenti e giornalai a corto di congruenti controdeduzioni. Qualcuno, invece, rischiarate le nubi, ed è il vero destinatario di questi auguri, ha recuperato alla grande e per il suo futuro artistico incrociamo le dita, ma ci starebbero ben più pregnanti scongiuri, ma si sa non sono all'altezza del rango di donna Giulia!!

E finalmente, da ultimi ma primi nel cuore, i nostri Lettori, sempre più numerosi, interessati a quanto scriviamo, a dibattere, anche a contraddire ma sempre dialetticamente, quelli che sono i nostri pensieri e le nostre idee, ma sempre tremendamente melomani, tanto da far saltare la notra chat per overdose di accessi la sera della scomparsa della nostra amatissima ed indimenticabile Dame Joan. Un tocco di malinconia per la sua scomparsa, come per quella di altre star e, soprattutto, di amici carissimi che per la prima volta non trascorreranno il Natale con noi, pur essendo sempre vivi nel nostro cuore.

Buon Natale a tutti, quindi! E se qualcuno abbiamo dimenticato, non se ne dolga: c'è sempre "el rebatin de Natal" e il carbone della Befana.

Domenico Donzelli


Gruber: Stille Nacht - Ernestine Schumann-Heink (1908)

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giovedì 23 dicembre 2010

Don Giovanni alla Staatsoper

Alcune considerazioni sul Don Giovanni presentato lunedì 20 alla Staatsoper viennese.
Nuova e lussuosa produzione firmata Jean-Louis Martinoty, solita ambientazione atemporale con richiami settecenteschi, qualche forzatura e una scena finale ben gestita (anche se donna Elvira agghindata da Suor Sorriso poteva esserci risparmiata).
Quanto ai singoli artisti, li elenchiamo in ordine crescente di decoro dimostrato e di conseguente meritata attenzione.

I divi d’Arcangelo ed Esposito, padrone e servo, si rifanno alle caccole e all’approssimazione dei Raimondi e dei Corena, senza peraltro possederne la "canna" vocale. D’Arcangelo canta con voce bitumata, larga ma non ampia né sonora (l’orchestra lo sommerge ad esempio nel finale I e nella scena della dannazione), sfalsettante a ogni tentativo di nuance (serenata). Esposito, voce da baritono brillante prestata a un ruolo da basso vero (inesistente il sostegno armonico offerto dal cantante negli ensemble, fin dall’introduzione), sfoggia nell’aria del catalogo il catalogo, appunto, dei propri malvezzi: suoni nasali e malfermi in acuto, difficoltà nel legato, parlati e cachinni indegni di un teatro di provincia. Misteri dello star system.
Altro mistero è come possano i Wiener Philharmoniker risultare svogliati e poco amalgamati in una partitura che dovrebbero conoscere anche capovolta. Inutile attendersi brio e colori da Franz Welser-Möst, neo Generalmusikdirektor del Teatro, ma almeno andare a tempo! Ottimi, per contro, i solisti in scena nei due finali.
Ulteriore mistero e rinnovate riflessioni impone la prova di Albert Dohmen, reputato specialista wagneriano, quale Commendatore. Prova che risulta illuminante circa il livello del canto wagneriano, specializzato e specializzando, di oggi. Quando erano affidati alle cure di cantanti wagneriani, ma non solo, del calibro di Journet o List, i Commendatori mostravano altra diginità, sia da vivi che da morti.
Ildikó Raimondi quale Elvira sostituiva praticamente all’ultimo Roxana Constantinescu, spartita dal cartellone dopo le prime recite (la première, trasmessa dalla radio austriaca, può forse illuminare in proposito). Ci asteniamo da commenti, se non per rilevare che l’intonazione non dovrebbe costituire un tratto negoziabile, a qualunque stadio della preparazione di un ruolo.
Saimir Pirgu si rifà agli Ottavio languidi e linfatici di certa tradizione deteriore, che però sfoggiavano di solito maggiore dolcezza e minore titubanza sul passaggio di registro.
Sylvia Schwartz è la classica Zerlina formato soubrette, garbata ma non sempre corretta sotto il profilo dell’intonazione. Se imparasse a respirare correttamente, ne trarrebbe sicuro giovamento. Anche Adam Plachetka (Masetto), la voce più omogenea e l’interprete più misurato del cast, potrebbe risultare maggiormente sonoro e quindi più incisivo se appoggiasse con maggiore costanza ed evitasse oscuramenti artificiali del timbro. Le premesse per una carriera ci sono, a ogni modo.
Sally Matthews porta assai bene il lutto ed è una voce, per gli standard odierni. Non è un soprano drammatico, ma oggi le donn’Anna di questo tipo sono rarissime, per non dire estinte. Le manca, per risultare convincente, una tecnica che le consenta di non gridare sul secondo passaggio (recitativo della scoperta del cadavere del padre), di cantare piano senza sfalsettare, di non emettere suoni tubati (Rachen-Arie) e di evitare scivolate d’intonazione (picchettati sul la naturale nel rondo). Come e più che per Plachetka, auguriamo anche a lei una pausa di riflessione. Salutare per tutti, in primis per gli addetti alla gestione delle voci, massime giovani.


Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I

Ma qual mai s'offre, o Dèi...Fuggi, crudele, fuggi - Maria Reining & Julius Patzak (1936)

Madamina, il catalogo è questo - Georg Hahn (1936)

Ah fuggi il traditor - Ilva Ligabue (1970)

Fin ch'han dal vino - Karl Hammes (1936)

Atto II

Vedrai carino - Mafalda Favero (1941)

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martedì 21 dicembre 2010

Don Carlos al Met: breve cronaca di un disastro e dintorni

Trasmissione radiofonica del Don Carlos verdiano, versione in 5 atti in italiano, dal Metropolitan Opera di NY sabato sera. Trasmissione di un disastro applaudito dalla generosa platea newyorkese, stigmatizzato al contrario sui fori, da diversi sms negativi inviati dagli ascoltatori italiani alla redazione della RAI, perché il pubblico italiano non è ancora stato abituato a reggere un siffatto infimo livello esecutivo delle opere verdiane. Gli italiani ancora recalcitrano, come fecero proprio al Don Carlo, all’Aida ed al Simon Boccanegra scaligeri, al recente Verdi Festival di Parma, al Rigoletto veneziano etc….Resistiamo, ma ancora per quanto?

Già, ancora per quanto, dato che lo star system ha l’ardire di mandare in scena sul più prestigioso palcoscenico mondiale assieme alla Scala una compagnia di canto abborracciata, i cui componenti, forse fatto salvo per ciò che è stato Giorgio Giuseppini, sostituto last minute di Ferruccio Furlanetto, dimostravano tutti di non possedere né i fondamenti tecnici minimi per affrontare tale impegno, né speciali virtù timbriche naturali, né un minimo senso del fraseggio verdiano.
Un Don Carlo di origine orientale, Yonghoon Lee, voce da tenorino gonfiata, acuti urlati, fraseggio meccanico ed insipido; un baritono di blasone (?), Simon Keenlyside, costantemente con il centro masticato in bocca, acuti indietro e forzati, tutto di fibra, e fraseggio improprio tanto da dubitare che capisse cosa stesse cantando, dato che su ogni frase ha cercato di berciare, digrignando i denti, di dare di naso, di “morsicare” letteralmente tutte le più belle, liriche e nobili frasi di Posa.
Il senescente Filippo di G. Giuseppini, voce stanca, fraseggio scolastico, né ieratico né dolente, ingolato e fibroso, indietro e fisso in alto. Il duetto con Posa, per entrambi, un must del fallimento del canto verdiano, senza aristocrazia, senza dialettica tra i due, nemmeno personaggi nobili parevano, nessuna intenzione…ricordate il famoso “canto di conversazione” ? Ecco, l’esatto contrario!
E le donne?? Le donne!!!! Una Eboli, Anna Smirnova, dal canto casuale, ordinario, musicalmente anche sgangherato, con la voce aperta e di petto sotto, tutta tubata, il centro senza legato, gli acuti urlati, insomma un concentrato dei peggiori difetti dell’Obratzova e della Barbieri decotte. Ha cantato una versione parodistica della “Canzone del velo”, ed un surreale “O don fatale”, per non parlare di cosa è accaduto nel meraviglioso terzetto del giardino, dove in tre si sono prodigati a fare del loro meglio..! Una Valois, quella di Marina Poplavskaja, cui persino quella imbarazzata e talora imbarazzante dell’esausta Fiorenza Cedolins scaligera bagna il naso in ogni battuta (!). Voce senza alcun sostegno del fiato, sempre bassa, o in bocca a falsettare, o retronasale in alto, perennemente “sotto” nell’intonazione e fissa, di timbro senescente assai poco gradevole, cortissima in alto, chè la Valois non sale per nulla ( giustamente prossima Violetta al Met al posto della diva Anja, tanto per garantire un primo atto di qualità! ), fraseggio inesistente anche per lei, quello di chi non capisce ciò che sta dicendo. E il maestro Nazét Seguin? Una buona orchestra, un po’ fracassona, tempi comuni, senza originalità ma nemmeno contrasto col canto, ma un perfetto latitante con i cantanti, stando a quanto abbiamo sentito.

Ecco qui il pacco dono, è il caso di dirlo, della trasmissione radiofonica dal Met, perfettamente incartata dalla stagnola lucente dei soliti cronisti Rai che han mescolato buona informazione e panzane straordinarie, funzionali a decantare un evento che di interessante aveva assai poco.
Topica favolosa e favolistica quella che il Met avrebbe inaugurato la prassi del Don Carlo in 5 atti con “l’era Bing”, mentre sino ad allora si sarebbe allestita solo la versione in 4 atti. Insurrezione dei miei archeo-autori e lettori ventenni, e sottolineo ventenni, perchè loro sanno che è vero il contrario! Il Don Carlo dell’era Bing ( a memoria, direi che il cast inaugurale del 1950-51 era Bjoerling-Warren-Hines-Barbieri-Rigall- Striedry, poi ripreso mille volte con vari cast e bacchette sino al 1972 ), di cui esistono le incisioni per documentare la realtà dei fatti, era in 4 atti, mentre, al contrario, era in 5 atti la prima produzione newyorkese, del 1920 ( Martinelli, Matzenauer - Ponselle, Didur, De Luca….!!!!), con tanto di Peregrina e strano taglio del duetto Filippo Inquisitore. E poi, scusatemi, ma la grande scena del III atto ( vers. in 5 ) ha luogo sulla piazza di Nostra Dona de Atocha a Madrid, mica….a Valladolid !!!! Mille inutili discorsi sulla produzione, sull’allestimento, che il pubblico radiofonico nemmeno vede, mentre la musica trasmessa è un disastro condito con madornali errori di radiocronaca, a decantare la versione in 5 atti dell’era Bing.

Piange Verdi, piange, perché non trova esecutori professionali, non trova se stesso nel canto dei suoi moderni esecutori, è abortito nei suoi obbiettivi drammaturgici per ogni dove.
Milano, Londra, Berlino, Vienna, Parma, Firenze, Ney York, San Francisco, Bilbao, Parigi….a Mantova!, dappertutto Verdi piange.
Le rappresentazioni dei titoli verdiani falliscono, con o senza contestazioni poco importa, nel tradimento dell’autore e con performances teatrali imbarazzanti. Si stona, si urla, si bercia, si cala, si parla perfino, anzi, si accenna, come abbiamo udito al Verdi festival parmigiano, ci si barcamena alla bell’è meglio, sotto il livello di guardia. Chè l’Arena di Verona di solo 20 anni fa aveva un livello incomparabile ed irraggiungibile oggi da parte di tutte le stelline e stellette e starrrrsssss che calcano i maggior palcoscenici del mondo.
Recentemente, arrampicandosi sugli specchi per giustificare cast e direzione artistica parmigiana, un critico ha concluso affermando che le produzioni verdiane di ottobre sono fallite perché non si è fatto teatro di regia, ricorrendo ad allestimenti tradizionali per Vespri e Trovatore. Sono sempre quelli che non volendo ed ormai non potendo più recensire la scena, dato il livello cui siamo scesi, recensiscono le voci ed il comportamento del pubblico, quasi che loro non lavorassero per i loro deputati lettori, il pubblico appunto, ma per altri, ossia quelli che con siffatti obbrobri ci affliggono.
L’adagio “Fin che la barca và, lasciala andare” sta finendo perché l’incantabilità e, dunque, l’irrapresentabilità di Verdi è già qui con noi, appartiene al nostro presente. Le difficoltà finanziarie giungono propizie a deviare l’attenzione dalle ambizioni, squagliatesi pian piano come un gelatino multigusto al sole d’agosto, di una Verdi “edision” in dvd di targa parmigiana e di una rappresentazione di massa delle opere di Verdi entro il 2013, mentre non abbiamo gli artisti adeguati per rappresentare un solo titolo per anno! Fantaverdi da fantaopera con fantacast, e “fanta” sta ormai chiaramente per …..fantasma!
Dopo il Boccanegra ed il Posa di Bruson, niente più baritoni verdiani. Quanti anni ha il signor Bruson oggi? Dopo Maria Chiara non più una Amelia o una Aida almeno veramente liriche, con la voce duttile e morbida. Quanti anni ha oggi la signora Chiara? Dopo il Filippo II e l’Attila di Ramey, che di verdiano aveva assai poco, ma di tecnica e classe per simulare ne aveva parecchia, quanti altri bassi che non siano tubati o ingolati per non dire altro, e capaci di fraseggiare, abbiamo udito in Verdi? E quanti anni ha oggi il signor Ramey? Dopo Fiorenza Cossotto è arrivata, con voce veramente verdiana e non prestata a Verdi, la solo signora Zajich. Quanti anni ha oggi la signora, e come cantano e chi sono le nuove Eboli o Amneris che stanno per prendere il suo posto? L'argomento tenori nemmeno lo affronto..

Devo continuare? Potremmo aprire il tema “errori di cast” , errori di insipienza, e non solo purtroppo, da parte di chi gestisce, sceglie e fa scegliere. Sarebbe un tema triste, anche se ormai ridotto a pochi esempi, tanto il mercato delle voci è rarefatto e fermo. Eppure le scelte assurde come certe carriere ingiustificate, sorrette dalla parte complice della stampa, il melomane di lungo corso le vede e le sa riconoscere. Come altrettanto triste sarebbe affrontare il tema delle voci “giovani”, del loro livello di impreparazione palese in cui versano mentre si lasciano lanciare allo sbaraglio su ruoli che non possono ricoprire, con esiti di cui è meglio tacere. Giovani che hanno anche mezzi naturali ragguardevoli ma cantano in modo abominevole, senza possedere, con tutta evidenza, le coordinate di base per orientarsi nell’universo del canto verdiano, coordinate tecniche ma anche stilistiche, di gusto. Potremmo anche parlare delle grandi bacchette, annoiate complici di questo modo incolto ed insipiente di fare opera, insipienti loro stessi in alcuni casi, sordi a certi disastri che fanno scritturare nei cast da loro guidati fin tanto che….qualcuno da lassù glieli fischia! Solo allora sentono, ma solo allora, sennò vanno avanti così, indifferenti, “Fin che la barca và….”.E dell’arte, dell’opera chi se ne….?
E chi deve scrivere? Anzi, chi doveva iniziare anni ed anni fa a rilevare che il canto verdiano era in declino, che le voci verdiane stavano sparendo, anziché interrogarsi su quanto stava con tutta evidenza accadendo, per bocca di certi “grandi cantanti”, che ha fatto, a parte fermarsi alla buvette riservata collocata nei foyers dei teatri? Se ne accorgono adesso?

La morale è poi una, e cioè che nessuna delle parti in causa sente di aver alcuna responsabilità in questo. A nessuno viene in mente di pensare che sia di fatto un problema di ignoranza e di incultura, di perdita di una tradizione del fare, di un sapere preciso, quello tecnico-vocale e stilistico. Questione troppo, troppo grande da affrontare, che richiederebbe tanta umiltà da parte di quelli che “fanno” nell’opera. Più facile risolvere che, in fondo, è colpa di altri, del “destino”, del normale scorrere delle cose, della mancanza di un teatro di regia in Verdi, anzi, fatemelo dire, meglio dire che la vera colpa è di quei soliti quattro che si lamentano tra il pubblico perché ancora si ricordano di cosa sia il cantare Verdi! Che se lo dimentichino, e alla svelta!!! Così se tutto è dimenticato, prestazioni come quelle su menzionate di colpo saranno eventi di vera ed alta qualità musicale, e finalmente il raglio dell’asino trasformato nel canto delle Muse!


Gli ascolti

Verdi - Don Carlos

Atto IV


O don fatale

Per me giunto è il dì supremo

Atto V

Tu che le vanità...E' dessa


Don Carlos - Yonghoon Lee
Elisabetta di Valois - Marina Poplavskaya
Rodrigo - Simon Keenlyside
La principessa Eboli - Anna Smirnova
Filippo II - Giorgio Giuseppini
Il Grande Inquisitore - Eric Halfvarson

Direttore d'orchestra - Yannick Nézet-Séguin




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domenica 19 dicembre 2010

Ballo in maschera alla Staatsoper

"Causa indisposizione di Micaela Carosi il ruolo di Amelia sarà sostenuto da Barbara Haveman, che il Teatro ringrazia". Questo il laconico annuncio che accoglieva ieri sera gli spettatori della Staatsoper viennese, giunti per assistere all'ultima delle quattro recite in cartellone del "Ballo" verdiano.

Dopo le disavventure dell'ultimo Festival parmigiano, il Cigno di Busseto si conferma il "menagramo" per eccellenza fra i compositori d'opera, ché una vera voce verdiana (stando a quando vanno scrivendo un poco ovunque gli ammiratori della signora Carosi, affetti probabilmente da una lieve forma di grafomania) non regge quattro recite, opportunamente distanziate, del medesimo titolo. Certo che, anche grazie alle testimonianze un poco più esatte e fededegne di Youtube, riesce davvero difficile non leggere in questa annunciata indisposizione la spia di un rapporto, diciamo conflittuale, con le onerose richieste del Verdi "pesante". Rapporto conflittuale che peraltro caratterizza tutti i protagonisti residui di questo "Ballo", estendendosi in un paio di casi ai requisiti e alle caratteristiche del canto professionale.
Incomprensibile beniamina del pubblico viennese, Nadia Krasteva (Ulrica), voce di soprano tubata e gutturale in una parte di autentico contralto, regala autentici brividi, non di piacere. Assai problematico il rapporto con l'intonazione, caratteristica che l'accomuna alla recuperata protagonista, Barbara Haveman, voce da Adina o al più da Mimì, provata dalla scrittura marcatamente centrale del ruolo, spesso e volentieri in debito d'ossigeno e incapace di sostenere le ampie arcate melodiche previste per l'infelice "moglie pericolante" di Renato. Più sonori, seppur spinti e acidi, gli acuti, ma è la zona della voce che li prepara, o che dovrebbe prepararli, ad accusare la maggiore instabilità. Che poi la Haveman canti un "Morrò ma prima in grazia" musicalmente più quadrato di quello, piuttosto sgangherato, della Carosi poco influisce sulla valutazione complessiva di una prova caratterizzata da un accento perennemente querulo e smanceroso. Buona parte del "merito" spetta, va detto, alla bacchetta (vedi oltre), che nella grande scena del secondo atto stacca un tempo bello largo, quasi avesse a disposizione una Milanov o una Stella.
La migliore del comparto femminile, Julia Novikova, è la classica vocetta con poca "punta", cinguettante e leziosa, ma, se non altro, intonata. Molto meglio qui che nella Gilda televisiva al fianco di Domingo.
Il veterano Ramón Vargas, tenore da Donizetti e Bellini ormai da lungo tempo prestato al repertorio verdiano, tenta di inserirsi nella scia dei Riccardo/Gustavo "di grazia". Quelli, per capirci, che fanno capo ad Alessandro Bonci. La sortita, staccata a tempo convenientemente rapido, scorre abbastanya sicura, la voce non è imponente, specie in basso, ma corre discretamente ed è omogenea. Purtroppo già dal terzetto con le donne cominciano i problemi, con slittamenti di intonazione in zona centrale e, quel che è più grave, "affondi" di sapore paraverista in basso. Ovvio che poi la salita agli acuti richiami quella al Monte Calvario. La sensazione è che la parte sia troppo onerosa, tanto da non consentire al cantante un rubato, uno stentando, una soluzione di fraseggio insomma che renda questo eroe verdiano qualcosa di più che un Nemorino travestito da re. Quando non si ha la voce, o la voce non è sufficiente, si dovrebbe sopperire con i "ferri del mestiere", ossia l'accento e l'inventiva, come insegnano le sublimi mistificatrici, da noi tanto amate, che per certi ruoli avevano tutto, tranne, appunto, la voce. Una generica "musicalità" non sempre basta a risolvere una serata.
Renato (George Petean, che rimpiazzava il da gran tempo svanito Carlos Alvarez) compie un percorso analogo a quello del suo signore, cantando discretamente la cavatina e il terzetto, con voce chiara, anche se, tanto per cambiare, più adatta al belcanto che non a Verdi, anche in ragione di un volume limitato e di una gamma di colori piuttosto ridotta. Alla scoperta della presunta infedeltà della moglie e ancor più al terzo atto, si studia di risultare maggiormente "virile", more solito di certi cantanti dell'Europa centro/orientale, ed emette suoni gonfi e nasali sul passaggio, finendo per suonare stimbrato e in difficoltà con il legato (seconda parte dell'aria). Si apprezza la freschezza della voce, ma ci si domanda anche quanto la stessa sia destinata a durare, se non opportunamente condotta e regolata.
Philipe Auguin riesce nell'impresa di dirigere i Wiener Philharmoniker in una sorta di versione Gasthof del "Ballo", con accompagamenti meccanici e pesanti (salvo che nelle arie di Amelia e Renato), ritmi squadrati e diffusi clangori di percussioni. Ovvio che la magia vada ricercata piuttosto nello spettacolo gloriosamente "old style" di De Bosio (scene di Luzzati, costumi di S. Calì), un tripudio trompe-l'oeil che ha il suo culmine nella grandiosa scena del ballo, condotta con spiccatissimo senso della "meraviglia" teatrale.


Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera

Atto I

Che v'agita così?...Della città all'occaso - Gilda Cruz-Romo, Richard Tucker & Irene Dalis (1973)

Atto II

Ecco l'orrido campo - Ghena Dimitrova (1972)

Teco io sto...Ahimè! S'appressa alcun...Odi tu come fremono cupi - Richard Tucker, Margherita Roberti & Cornell McNeil (1965)

Atto III

Morrò, ma prima in grazia - Maria Nemeth (1927), Ilva Ligabue (1978)

Siam soli...Dunque l'onta di tutti sol una - Leonard Warren, Zinka Milanov, Norman Cordon, Nicola Moscona & Frances Greer - dir. Bruno Walter (1944)

Saper vorreste - Alda Noni (1942)

T'amo, sì, t'amo e in lagrime...Ella è pura: in braccio a morte - Max Lorenz, Hilde Konetzni & Mathieu Ahlersmeyer - dir. Karl Böhm (1942)



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venerdì 17 dicembre 2010

Le cronache di Carlotta Marchisio: Traviata a Pavia

Quietati i ditirambi mediatici in onore della dea Scala, del suo sommo sacerdote e dei suoi occasionali ministri e vestali; spazzate via le pingui onorificenze, la rancida retorica del clap clap costumato in costume, il mare – fa quasi sorridere dirlo – magnum degli inviti ad honorem e i sacrificali banchetti su tavolate (e su altre spalle) di una nuova nouvelle cuisine a portata di palchetto; rispettate le presenze spettrali, e quindi televisive, delle ubique Natalie e delle valchirio-Valerie, facce jokeriane della stessa medaglia o Giano bifronte dell’esperta del nulla e della di nulla esperta; insomma, una volta riassorbito il solito fuoco fatuo della paglia milanese, ritorniamo coi piedi per terra. E spesso capita che la realtà, riletta alla luce delle giuste proporzioni, possa apparire anche migliore del consuetudinario trionfo in salsa oleografica. In questo senso, La traviata cui ho assistito al Fraschini di Pavia, pochi giorni prima dell’inaugurazione ambrosiana, riflette in qualche modo questa logica, che sta definendo oramai per certi versi una tendenza, considerato che i primi tre titoli allestiti dal Circuito Lirico Lombardo hanno avuto ciascuno più di un elemento di interesse. E allora, dopo Medea e Sonnambula, una bella ripresa dell’universale capolavoro verdiano.

Bella perché, al di là di un’indegna bacchetta, il trio di protagonisti, pur con le dovute e consistenti differenze, è stato all’altezza dei rispettivi ruoli e no si tratta certo di osannati e strapagati divi. I difetti e le imperfezioni tecniche ci sono e su più di un fronte, inutile negarlo, ma la resa complessiva è stata più che decorosa, soprattutto tenuto conto del contesto ufficialmente “provinciale” e quindi di minor pretesa d’eccezionalità. In dettaglio.

Dei tre, meno convincente mi è parso (ironia del caso?) il nome di maggiore richiamo e visibilità, su cui alcuni addetti ai lavori non sanno risparmiare qualche encomio di troppo. Sto parlando della Violetta di Yolanda Auyanet, soprano spagnolo dal repertorio sterminato (Puccini, Massenet, Donizetti, Verdi, Mozart, e via cantando) e di discreta fama, almeno per chi frequenta i teatri europei di seconda linea da quasi vent’anni. Dotata di un timbro non proprio fortunato (in zona centrale presente un bel colore, che, però, tende a farsi via via più aspro appena sale di tessitura), la Auyanet trova il suo limite più grave ed evidente nella difficoltà a mantenere il suono sempre timbrato, col giusto sostegno del fiato, in particolare nel canto di conversazione del primo atto e nei passaggi in movimento discendente, sottolineati, purtroppo, da un portamento discendente sciatto e volgare, difetto che qualche scaltro recensore potrebbe oltremodo giustificare, magari facendo leva sul milieu poco nobiliare dell’erede di Dumas!

Il grande assolo tripartito rivela ancora, nel recitativo d’entrata, la mancanza d’appoggio, mentre nel cantabile successivo riesce ad abbandonarsi con giusto slancio lirico e buon legato, anche se un po’ al limite della rottura (più che sensato, quindi, il mancato taglio di tradizione della seconda strofa). E se nel tempo di raccordo fa girare bene “i vortici”, i vocalizzi seguenti sono un po’ “larghi” e rallentati, con conseguente effetto… etilico. I primi quarti della cabaletta scivolano, poi, via per la mancanza di corpo in zona grave, tanto da inficiare pesantemente la qualità del fraseggio. La salita alla corona del do5 dei «ritroVI» è tirata mentre la nota non è altro che un grido di rabbia, così come il do diesis in chiusura degli altri vocalizzi prima del richiamo onirico di Alfredo. Più nitidi, invece, quelli che precedono il “da capo”, non privo di un altro paio di strilli, ma risparmiato del mi bemolle, segno di lucida avvedutezza (mi chiedo tuttavia cosa possa venir fuori dalle varie Lucie e Marie donizettiane che il soprano vanta in repertorio…).

Va comunque detto che l’esperienza e la indubbie doti sceniche della Auyanet, non separate da una certa comunicativa, le permettono di venir fuori meglio nel secondo atto, dove la tensione emotiva, che raggiunge momenti di grande intensità nelle frasi liriche e appassionate del duetto con Germont padre, può diventare terreno fertile per interpreti che ben sanno come “giocarsela” sul piano espressivo. Non a caso il momento più riuscito è stato l’”Addio del passato” del terzo atto, cantato con un trasporto emotivo e una pertinenza d’accento quasi struggenti, sostenuti questa volta da un più attento controllo dell’emissione rispetto allo standard medio della prestazione. Non per nulla trattasi di brano dalla scrittura piuttosto centrale.

Discreta la prova del tenore francese Jean-François Borras. Ad onta di un bel timbro in natura si percepisce un incompleto utilizzo del passaggio superiore, zona nella quale Alfredo è spesso chiamato a cantare, comprovato dal suono sbiancato e da una dinamica piuttosto povera dove predomina il forte. Quindi i problemi sono stati gli attacchi dell’aria e dei duetti dove Alfredo è chiamato all’espressione tenera ed all’emissione morbida, meglio la cabaletta ben risolta, senza da capo e con do leggermente tremulo, per contro nella scena della festa ed in quella seguente cosiddetta della borsa qualche squarcio verista di troppo, estraneo al clima dell’opera.
Il momento migliore della rappresentazione, il confronto padre figlio anche grazie a Damiano Salerno (sentito anche in un discreto rigoletto a bologna, scuola dell’opera) davvero interessante, timbro chiaro, intonazione impeccabile, senza muggiti in alto (strano eh) ed emissione pulita, il dubbio è che canti più per dote che per il possesso ed il controllo della voce come comproverebbe la poca proiezione. Strabiliante la cabaletta. Complimenti!

Disastro il direttore Pietro Mianiti. Quasi mai a tempo, bandaccia, per usare un solito termine gergale, spesso slentato, alterna momenti di totale mollezza ad altri di peso e clangore quasi wagneriano, ma la vibrazione e il mordente di Verdi anche con complessi mediocri sono ben altro. L’orchestra: suona male ed al pari del basonato complesso scaligero spernacchiate dei fiati in particolare.

Comprimariato sotto la soglia di guardia, mentre la regia di Andrea Cigni esibisce una sorta di iperrealismo essenziale (sedie di plastica trasparenti, etc). solite incongruenze di prossemica, inserimenti “fantastici” che nulla ci azzeccano, ovvero un po’ di deja vu come la figura nera della morte, che prende posto sulla sedia di Violetta (già visto, retorico).

Pensierino doveroso:
Il Circuito lombardo ha proposto tre spettacoli di cui uno con fama difficile per la scelta della protagonista e gli altri due con titoli di repertorio per i quali i confronti sono scontati ed anche dovuti, i mezzi del Circuito lombardo sono quelli che sono da sempre e gli spettacoli non solo reggono per il livello proposto, ma anche per il confronto con blasonate città di provincia deputate patrie dell’opera e meritevoli di piogge di milioni di euro. E’ chiaro che la misurata disponibilità economica aguzzi l’ingegno ed allontani, con profitto, prodotti pre confezionati, mal assemblati e peggio scongelati del circuito non già lombardo, ma di agenzie note e riviste specializzate (sic!).


Carlotta Marchisio




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mercoledì 15 dicembre 2010

Le cronache di Giuditta Pasta: Ariadne auf Naxos all'Opéra Bastille

All’Opéra Bastille di Parigi la sera del 14 dicembre ha avuto luogo la terza rappresentazione di “Ariadne auf Naxos” di Richard Strauss, con la bacchetta di Philippe Jordan e la regia di Laurent Pelly, nella solita revisione del 1916.

“Ariadne” è un’opera che, vista la sua orchestrazione ed il generale ambito cameristico, sarebbe sicuramente stata più adatta alle dimensioni della sala del Palais Garnier. Se si contava su una grande affluenza del pubblico ed un maggior guadagno economico, quello che abbiamo visto il 14 dicembre erano numerosi posti liberi anche nelle categorie meno costose della grandiosa sala della Bastille.
In quanto alla regia di Pelly, dall’inizio sino alla fine la vostra umile serva ha creduto di avere un déjà vu. Tutto - oggetti, scene, gestione delle luci, ambiente, drammaturgia – sembrava identico all’allestimento del Elisir d’amore scaligero (e precedentemente parigino) di Pelly. Lo stesso minibus, le stesse corse e viavai, lo stesso humour volgare e banale, gli stessi costumi e scenografie stile “La strada” di Fellini. Solo alla fine dell’opera, quando Pelly ricorre a cambiamenti radicali e molto belli nell’illuminazione, riusciamo a vedere una vera differenza fra il mondo della buffonata e quello sublime e patetico di Ariadne. Durante lo spettacolo la sola differenza fra la “gnocca” Zerbinetta che si dimena in bikini e l’Ariadne mesta e vestita quasi di cenci, è quella fra una prostituta fortunata ed una prostituta sfortunata.
Nel Prologo (che Strauss ha aggiunto all’atto unico nella seconda versione dell’opera), colmo di personaggi minori ed apparizioni frammentarie dei personaggi centrali, si distingue la figura del Compositore. Il nominale mezzosoprano francese Sophie Koch, cantante amatissima a Parigi, si è esposto con uno strumento di maggiore ampiezza ed un fraseggio espressivo ed elegante nella tradizione declamatoria di una Brigitte Fassbaender. Anche i vizi vocali di Koch si inseriscono nella medesima tradizione. La voce è segnata da una certa disomogeneità nell’emissione, la cantante cerca di scurire il suono nel centro, dove la voce è più chiara di natura, le noti gravi (che nel ruolo del Compositore sono comunque poche) sono gonfiate e chiuse nella gola, in alto la voce è generosa, ma raramente distaccata dal corpo e guidata interamente sul fiato. Anche Sophie Koch, come tante altre sue colleghe, è in verità non un mezzosoprano, ma un soprano corto, anzi cortissimo. Comunque, dopo il Prologo il pubblico parigino l’ha premiata con un grande applauso, sia per la familiarità con l’artista sia per il suo talento di attrice. E’ evidente che la sua espressività (alla tedesca) non è completamente collocata nella sua vocalità e ha permanentemente bisogno di strumenti extra-vocali, ma nella sala di Bastille questo sembrava l’ideale stesso di una prestazione lirica. Ci associamo con un applauso tiepido e passiamo al primo atto.
Nel trio della Naiade, Driade e Eco che in complesso “funzionava”, dobbiamo comunque sottolineare la durezza dalla parte di Elena Tsallagova (Naiade) nella gestione della zona acuta in cui si distendono le sue meravigliose frasi di coloratura. Bisogno segnalare anche il vuoto che la Driade di Diana Axentii fa sentire nel registro basso dove gravita il suo ruolo di “terza voce”. Più continua invece l’Eco di Yun Jung Choi che resta un ruolo piuttosto centrale e senza eccessive esigenze vocali. Esagerato nella loro buffoneria il quartetto di Arlecchino, Scaramuccio, Truffaldino e Brighella. L’unico credibile vocalmente è stato il basso François Lis quale Truffaldino.
Ricarda Merbeth quale Primadonna-Ariadne ha cantato con voce incolore e di penosa emissione durante l’intera serata. Nel Prologo c’era ancora la speranza che si stesse riscaldando per il tour de force dell’Opera, ma invano… Senza entrare nei dettagli si può dire che Ricarda Merbeth è inudibile nel registro centrale e grave e che grida in quello acuto. Ogni nota esce dal suo corpo separatamente, come se ogni volta ci fosse bisogno di uno sforzo inumano, con ciò distruggendo l’infinita bellezza di ogni frase della principessa abbandonata. Inutile nel “Ein Schönes war” che richiede un legato ed un fiato di esemplare stabilità; indistinta all’inizio e spinta alla fine del “Es gibt ein Reich”. Nel duo finale con Bacchus, ogni volta che tentava di cantare piano, emetteva suoni simili al borbottio di acqua (forse di quello dei lidi di Naxos…). Gli applausi che ha ricevuti alla fine erano comunque più che cordiali. Ed è Ricarda Merbeth a passare oggi per una delle più grandi “specialiste” del repertorio straussiano (Daphne, Imperatrice) e wagneriano (Senta, Eva, Elsa, Sieglinde). E’ una di quei soprani con voce grossa, timbro incolore, fraseggio senza capo né coda che affrontano e dominano il repertorio lirico-spinto di Wagner e Strauss. Si chiamano Manuela Uhl, Michaela Kaune, Anja Harteros, Ricarda Merbeth, Camilla Nylund etc.
Impresentabile anche il collega diretto di Ricarda Merbeth, co-specialista del repertorio tedesco Stefan Vinke nel ruolo del Tenore-Bacchus. Voce grande perfettamente ingolata, di colore sgraziato, priva di ogni nobiltà sia nel accento sia nel timbro, spinta della prima nota fino all’ultima. Non ci resta che immaginare come suonasse il Bacchus della prima assoluta nel 1912 a Stoccarda, ossia Hermann Jadlowker. Stefan Vinke, già sentito come Siegfried in una Götterdämmerung a Colonia, condivide con Simon O’Neill, la nuova star del canto wagneriano, la stessa voce di caratterista, pero possiede uno strumento dieci volte più ampio del tenore neozelandese. Ed è un sonoro “buu” che ha ricevuto alla fine, tra applausi neutrali.
Il duetto finale di Ariadne e Bacchus sarebbe stato insopportabile senza la direzione del maestro Philippe Jordan che, dopo un Prologo poco originale ed anzi abbastanza fiacco, ci ha regalato una lettura dell’Opera così compatta da compensare le modeste prestazioni vocali della maggioranza dei cantanti. Soprattutto a partire della scena di Zerbinetta l’impressione era che stesse suonando un’altra orchestra. Tutto è divenuto più spontaneo, più corposo, più dinamico, l’armonia straussiana è sorta in tutta la sua sontuosità. E’ nella scena finale che Jordan ha guidato l’orchestra a un culmine di qualità trascendente e ricchissima sonorità, salvandoci inoltre dai gridi di Merbeth e Vinke.
La migliore della serata è stata senza dubbio Jane Archibald quale Zerbinetta. La sua voce è troppo piccola per una sala come Bastille, soprattutto nel registro centrale e grave dove ha la tendenza a parlare invece di dare un poco di corpo alla sua risonanza. Eppure, quando sale nel registro acuto e sovracuto, la voce diventa morbida, mai gridata o pigolata come nel caso della maggioranza delle attuali “colorature”. Oltre ad incarnare Zerbinetta con una civetteria naturale, si è mostrata capace di dare senso ed un tocco di vero virtuosismo alle colorature che eseguiva. Il legato non è perfetto e la risonanza fra i diversi acuti o sovracuti non è sempre uguale, certi risultano piuttosto bianchini, gli altri invece più metallici ed ampi. È soprattutto nella seconda parte della sua grande aria che ha saputo convincere ed è stata premiata con un applauso fermo e caloroso sia dopo l’aria sia durante le uscite singole. Il giovane soprano canadese è piaciuto alla vostra umile serva in primo luogo per la naturalezza del suo timbro e la spontaneità nell’esecuzione. Comunque ci si deve chiedere se il ruolo di Zerbinetta, come lo troviamo nella partitura, fosse concepito per dei “canarini”, visto che la prima Zerbinetta della versione di 1912 è stata Margarethe Siems (e quella della versione di 1916 – Selma Kurz). Se consideriamo da un lato che la Siems ha creato anche ruoli straussiani come la Marschallin e Chrysothemis e che Zerbinetta è stata scritta espressamente per la sua voce, e se ascoltiamo d’altronde le sue registrazioni che variano da “Je suis Titania” a “D’amor sull’ali rosee”, si capisce che la Siems era tutto salvo un mero soprano di coloratura. Bisogna anche considerare che “Ariadne auf Naxos” è un’opera molto “tecnica”, molto Jugendstil in un certo senso, con ornamenti volutamente esagerati e stilizzati, il barocco del barocco, il paradosso e l’umorismo di un’opera cameristica in mezzo alle Elettre e Donne senz’ombre del tardo romanticismo. Questo si sente sia nella sofisticata scrittura vocale sia nella strumentazione stravagante (orchestra ridotta, ma nondimeno molto complessa; la presenza del pianoforte etc.). Quindi, la “pointe” di questo pezzo molto sperimentale non può semplicemente consistere nell’esposizione di un soprano canarino nel ruolo di Zerbinetta, perché ci mancherebbe il vertice dell’ironia di Strauss e Hoffmannsthal, consistente nell’esporre una primadonna “completa” come Margarethe Siems in un “riduttivo” ruolo di coloratura come Zerbinetta. Sottile passaggio simile a un dettaglio autenticamente Jugendstil – al contempo miniaturesco ed opulente.



Giuditta Pasta



Richard Strauss
Ariadne auf Naxos
Oper in einem Aufzuge nebst einem Vorspiel
Libretto: Hugo von Hoffmansthal


Philippe Jordan Direzione musicale
Laurent Pelly Regia e costumi

Franz Mazura Der Haushofmeister
Martin Gantner Ein Musiklehrer
Sophie Koch Der Komponist
Stefan Vinke Der Tenor (Bacchus)
Xavier Mas Ein Tanzmeister
Vladimir Kapshuk Ein Perückenmacher
Jane Archibald Zerbinetta
Ricarda Merbeth Primadonna (Ariadne)
Elena Tsallagova Najade
Diana Axentii Dryade
Yun Jung Choi Echo
Edwin Crossley-Mercer Harlekin
François Piolino Scaramuccio
François Lis Truffaldino
Michael Laurenz Müller Brighella

Orchestre de l’Opéra national de Paris


Gli ascolti


Meyerbeer - Les Huguenots

Atto II

O beau pays de la Touraine - Margarethe Siems (1908)


Strauss - Der Rosenkavalier

Atto I

Kann mich auch ein Mädel erinnern - Margarethe Siems (1908)


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lunedì 13 dicembre 2010

Caro Maestro, cara Giulia / 8

Mio caro ed illustre Maestro,
forse la memoria Vi falla, ma l'unica Grisi che ha goduto di Vostri raggiusti è la mia povera sorella. Vi conosco e Vi apprezzo più di ogni altro e l'intuition féminine mi dice che mi state parlando di un'opera non Vostra.


Purtroppo, molto di coloro i quali la cantarono e chi la scrisse non può smentire né confermare. Ma non pensate, mio caro ed illustre Maestro, la Vostra Giulia sì digiuna di contrappunto da non riconoscere, sotto le spoglie di altri autori, l'Arte Vostra.

Vostra
Madama de Candia



Bellini - I Puritani

Atto I

Ah, vieni al tempio - Joan Sutherland (1976)

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sabato 11 dicembre 2010

Le cento primavere della signora Olivero. Sesta puntata: il Verismo oltre Adriana

In questa puntata del nostro ciclo dedicato al primo secolo di vita e arte di Magda Olivero, Carlotta Marchisio ci parla di alcuni dei principali ruoli veristi affrontati dal soprano piemontese. Nella selezione non è compresa Adriana, alla quale dedicheremo una puntata monografica. Buona lettura.


Abbiamo più volte suggerito come la personalità e la qualità artistica di Maria Maddalena Olivero non possono essere studiate se non inserite in un certo contesto culturale, prima ancora che musicale, ben individuabile, e come la definizione di un repertorio nei primi decenni del Novecento fosse tendenzialmente condizionata dagli stilemi di una vocalità drammatica che, se ci concedete una piccola dose di approssimazione, possiamo continuare a chiamare “verista”, pur “avanti lettera” in qualche caso. In altre parole, così come la signora Magda, più nel bene che nel male, rimane ugola e figlia prediletta del suo tempo, Mefistofele, Iris, Francesca da Rimini e Fedora restano, al di là dei soliti snobismi di sorta, quattro grandissime espressioni del teatro d’opera a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Sintomo della congruenza tra la sensibilità della virtuosa di Saluzzo e il celestiale intimismo della Margherita boitiana è una data: 20 settembre ‘39. Al teatro “Donizetti” di Bergamo Magda Olivero debutta il ruolo a fianco di Tancredi Pasero, Galliano Masini e Lina Bruna Rasa, un ruolo, benché di rilevanza secondaria nell’economia dell’opera, assimilato e fatto proprio fin dalla giovane età e destinato a diventare cruciale nella futura carriera della signora. Prova ne sarà la continua, costante presenza della grande aria “L’altra notte in fondo al mar” nella più parte dei concerti in carriera, primo di una lunga serie quello all’EIAR di Torino del 7 luglio ‘33, a poco più di sei mesi dal debutto ufficiale in palcoscenico.
Ma il rigore espressivo e la saldezza della tecnica, che come ben sappiamo sono elementi essenziali per la salvaguardia dello strumento e contrassegni primari del soprano in questione, fanno sì che nel ’72 allo Sferisterio di Macerata i fortunati spettatori si godano un’Olivero sessantaduenne in freschissima forma vocale – anche il tubo ne dà testimonianza – nonostante la direzione del poco ispirato Nello Santi. Già nel duetto con Faust (Giorgio Merighi), in apertura di secondo atto, la signora comincia a tratteggiare una Margherita consapevolmente ingenua, ben definita sia dalla notevole inflessione di lucida mestizia sulla prima strofa «Cavaliero illustre e saggio, / come mai vi può allettar / la fanciulla del villaggio / col suo rustico parlar», sia poco oltre sui due versi «Dimmi se credi, Enrico / nella religione», che sembrano suggerire, più che un rapporto sensuale, e quindi terreno, col “redigiovane” Faust, una sentita devozione spirituale che si riverbera nel credo stesso della cantante, che mai ha fatto mistero del suo sempre vivo sentimento religioso. Da qui, due riconferme che si alimentano a vicenda: da una parte la Margherita della Olivero, presupponendo con la sua interpretazione un rapporto dialogico con l’ultraterreno, ridefinisce il Mefistofele quale opera che si struttura come “scena verticale” (Alewyn), o, più semplicemente, asseconda i tratti distintivi del “meraviglioso” di cui parla Dahlhaus. Dall’altra attesta l’estrema perizia con cui ogni volta il soprano piemontese approccia lo studio di un nuovo personaggio, che può trarre senso solo se vicino alla sensibilità e dell’artista e della persona. Insomma, l’ennesima esemplificazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di un’etica che si fa estetica (e viceversa). Roba d’altri tempi…
Ma il meglio, in particolare dal punto di vista strettamente esecutivo, arriva di nuovo nella celebre aria del terzo atto, attaccata con autentico accento drammatico, fondamentale per poter fraseggiare con fantasia e pertinenza d’interprete. E la Olivero lo fa intuendo l’essenza teatrale sottesa a ogni verso, a ogni parola, fino alla discesa al doppio re grave, raggiunto con una copertura del suono di alta scuola – lontana dalle “sbracature”, in quella zona del pentagramma, di tanti soprani in carriera – tale da rimandare a una spirale angosciosa, alla disperazione di una mente non più lucida alle prese con un infanticidio di cui non può che rigettarne, quale genitrice del bimbo, la responsabilità. Poco oltre, la serie di biscrome, che rimanda alla lievità del passero («vola, vola, vola») che si libra in aria come l’anima della protagonista, è risolta con un vocalizzo di lucentezza diamantina tale da avvalorare sempre più la tesi di chi avrebbe voluto un’Olivero belcantista. Impressionante poi in chiusura l’esecuzione della sestina («DEL bosco») che porta alla corona sul si naturale acuto, altitudine certamente impervia da cui attaccare una messa di voce esemplare nella sua intelligente contenutezza, che resta coerente perché in linea con la dimensione raccolta, quasi conventuale, del momento solistico in questione.

La Francesca da Rimini è altra opera che può vantare una prestigiosa frequentazione con l’arte di Magda Olivero. Anzi, la sinergia tra il soprano e il titolo di Zandonai sancisce forse una rarissima eccezione, se non un unicum nella storia del teatro lirico. Debuttata il 29 maggio ‘40 al “Teatro della moda” di Torino – con un cast che vedeva tra gli altri Alessandro Ziliani e Carlo Tagliabue nei ruoli dei due protagonisti maschili, il primo Paolo “il bello”, il secondo suo fratello il “Gianciotto” – la parte di Francesca a firma Olivero è rimasta a buon diritto non solo tra le interpretazioni più riuscite di tutto il Novecento discografico, per altro portata in scena solo tre volte in tutta la carriera, ma anche una compagna di vita per quasi settant’anni, fino all’ultima, toccante esibizione a Palazzo Cusani nell’aprile dello scorso anno.
Sono sufficienti tuttavia le due registrazioni di cui siamo in possesso – l’una live del ’59, l’altra in forma di highlights del ’69, entrambe a fianco di Mario Del Monaco – per render conto di come l’Olivero sia stata coinvolta dalle vicende della tragica eroina ravennate. Dalla prima si staglia il breve duetto tenore-soprano del secondo atto, quando Francesca si appresta a soccorrere Paolo, credendolo ferito. Qui la saldezza del registro acuto di entrambi gli interpreti, rinforzato da quell’impeto davvero drammatico, quasi violento che continua a caratterizzarne la cifra artistica, viene fuori in quei momenti apparentemente transitori ma altresì fondamentali per tracciare le linee guida per una buona comprensione dei caratteri in scena. Dopo aver presentito la catastrofe che si rivelerà incompiuta, Francesca ripete per l’ultima volta «Paolo! Paolo!» esibendo una cavata e una capacità polmonare forse inaudita, e le stesse invocazioni a concedere una tregua alla battaglia (nitidi e lucenti quegli «Inginocchiati!») sono precedute da due acuti strabilianti per la padronanza della corretta respirazione e per l’incisività radiosa dovuta alla felice scoperta («Salvo, salvo e puro!»). Notevole è poi anche il duetto al quarto atto col Gianciotto (Giampiero Malaspina), in cui Francesca sottopone al marito le perplessità sull’indole poco pacifica di Malatestino, suo cognato. Se le qualità di un cantante si misurano non solo dalla capacità di fraseggiare, ma anche dalla gamma delle diverse soluzioni da adattare a ogni situazione scenica, qui la Olivero estremizza l’accento dimesso della giovane sposa, esibendo autentiche mezze voci, sempre calibrate in senso espressivo e mai figlie di un gratuito virtuosismo.
Dalla registrazione in studio del ’69 è possibile invece rilevare singoli versi, che per la particolarissima inflessione determinano non solo il ritratto di una valida interpretazione, ma arrivano a reinventare addirittura le dipendenze reciproche tra personaggi e senso del tempo (elemento centrale dell’opera). Quel secondo «Chi sei tu?» in principio di secondo atto – qualcuno, non visto da Francesca, sta salendo per la scala della torre, che porta a una botola – viene attaccato in pianissimo e sostenuto sempre con la stessa stabilità, con un’intensità di suono costante, priva della sua canonica espansione. In questo modo il “pianissimo” sembra quasi abbozzare non solo una certa voluttuosa attesa (aspettativa?), ma addirittura ne profetizza la sua effettiva realizzazione (è proprio Paolo a comparirle davanti!). La stessa smorzatura nel terzo atto, quando, in dialogo col giovane, Francesca gli racconta come le sue «donne» abbiano organizzato una ballata in onore della stagione primaverile, la splendida smorzatura su «salutare il marzo» pare suggerire invece la soavità della situazione che sta vivendo, di un godimento che però può passare solo attraverso l’abbraccio del “presente” (la tragedia incombe…), in una logica non troppo distante da quel faustiano «attimo arrestati, sei bello» (è sufficiente la presenza di Paolo…). Tant’è che non si tratta certo di casualità quando nel duetto “Paolo, datemi pace” – edizione in studio del ’69 – la Olivero prenda ancora in “pianissimo” quella «primavera» forse mai pienamente vissuta ma che già si definisce come passato da rievocare («Ahi! Che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra»). Voler poi a tutti i costi analizzare le prodezze vocali di questa pagina, così come quella del duetto conclusivo del quarto atto, sarebbe solo un gesto di facile agiografia. Basti però notare ogni volta la dolcezza degli attacchi, il raro equilibrio psichico e fisiologico, la scansione decisa dell’articolazione (altro che le linee dure, frammentarie e schizofreniche di tante divette correnti!), la fermezza dei suoni e la varietà dei colori. Non ultima la duttilità del fraseggio, provata da quell’indimenticabile piglio vezzoso con cui chiede a Paolo, da poco reduce da Cesena, di avvicinarsi alla finestra, sedersi, sentire i suoi racconti…

Le onoranze del ’51 dedicate a Mascagni, istituite a Livorno da un comitato nato appositamente per celebrare il compositore, alla cui presidenza compariva l’allora Capo dello Stato Giovanni Gronchi, hanno rappresentato l’occasione ideale per il primo debutto operistico di Magda Olivero dopo l’abbandono delle scene dieci anni prima. Inutile dire come il carattere simbolico del titolo, che smentisce ma allo stesso tempo conferma la necessità del “reale” come referente, si confaccia, nelle sue sfumature “decadentistico-floreali”, all’espressività “liberty” del canto del soprano in questione.
Noi possediamo la registrazione dal vivo del ’63, in cui la Olivero canta al fianco di Ottolini ed è diretta da Vernizzi. Una prova audio che garantisce senza remore la particolare raffinatezza degli svolazzi lirici della linea vocale, che esprimono con grande intelligenza la purezza, la trepidazione e l’ingenuo abbandono della musmé giapponese. E la celebre “aria della piovra” ne dà un valido esempio, non soltanto per il magnifico si naturale attaccato in “pianissimo” e rinforzato fino al “mezzoforte”, tale da produrre notevole risonanza e accelerazione in senso drammatico (pur senza quell’espansione portata a totale compimento, come invece abbiamo sentito in altre occasioni). Perché tutto l’assolo è teso, sostenuto, irrequieto nello spaziare frenetico e disinvolto tra le pieghe più alte e più basse della tessitura, raggiungendo con quelle vibrazioni strazianti – biglietto da visita del magistero della Olivero – un’acme di disperazione davvero inaudito.

Come Iris, anche Fedora rientra tra le opere studiate e debuttate dopo la lunga pausa decennale, sebbene già nel ’40 Pietro Ostali, proprietario della “Casa Musicale Sonzogno”, dopo i travolgenti successi di Traviata e Adriana, fa recapitare al soprano varie lettere con inviti a studiare la poliedrica parte della principessa Romazoff. Ma il debutto, come accennato, arriva solo il 25 novembre ’53 al teatro “Bellini” di Catania, salutato dalla critica locale con recensioni entusiastiche che sanciranno Fedora tra i cavalli di battaglia più significativi della carriera di Magda Olivero.
E il contesto borghese, signorile anzi, del soggetto sembra riflettersi nell’eleganza della sua linea musicale, brillante e leggera come un cristallo. Fedora è insomma un giallo da salotto, sostenuto in particolare nel primo atto da un canto di conversazione che Giordano sa calibrare con eccellente senso del teatro, attraverso l’affioramento incalzante di tasselli informativi che non solo arrivano a definire un certo colore locale – sono vicini gli echi di una “polifonia” da romanzo russo tardo-ottocentesco – ma definiscono anche il sostrato morboso su cui poggia il versante vocale. Possiamo forse definire l’opera una sorta di dramma schizoide dell’apparenza, in cui per l’interprete diventa importante la capacità di destreggiarsi con i continui cambi d’identità e le verità inconfessabili che adombrano il buon esito di un rapporto amoroso. E la Olivero coglie perfettamente questi aspetti, esibendo una linea vocale febbrile, nervosa, che spinge contro le pareti di una compostezza che continua a tendersi senza mai sfibrarsi o lacerarsi.
Il primo atto della registrazione in studio diretta da Gardelli nel ’69 è esemplare da questo punto di vista. Già i primi versi, con cui saluta l’entrata in scena («Assente è il capitan?» e «Lungamente l’attesi»), rivelano doti indiscusse nella ricerca dell’accento giusto, a metà strada tra l’irruento e il sospeso, indubbiamente carico di venature nobiliari, aristocratiche, che fin da subito appunto bastano a definire il carattere impetuoso della principessa Fedora. Di indubbio fascino anche quell’«O schiette labbra», attaccato in “pianissimo” e trattenuto, senza essere risolto con piena espansione, così come l’altra smorzatura in corrispondenza di «mi turba», nello stesso arioso, che sembra suggerire uno stupore quasi giovanile per la consapevolezza di un nuovo inizio («sento che qui comincia un’altra vita in me», dirà il verso successivo). Ma ciò che più impressiona della Fedora di Magda Olivero è, come indicato poco sopra, l’efficacia del canto di conversazione, che emerge con squarci di inaudita intensità espressiva e potenza d’accento. Da brividi il trasporto di «Ah! Vladimiro!», a commento dell’arrivo della slitta con l’amante ferito, così come «L’assassino dov’è?» e subito dopo «E’ lui, è lui, l’assassino!», quando lo stalliere ricorda che durante la mattinata un uomo è entrato in casa, ha scritto una lettera e se n’è andato al’improvviso. La simbologia cristiana e il giuramento di castità in chiosa di primo atto (“Son gente risoluta”), sancito dal soprano con particolare trasporto, non solo enfatizzano la sostanza religiosa della principessa Romazoff, in apparente opposizione all’impulsività vendicativa, quasi assolutista, che la contraddistingue un po’ quale Tosca mitteleuropea ante litteram – non per nulla la matrice letteraria proviene dalla stessa penna di Victorien Sardou – ma, dopo la devota Margherita boitiana, riconverte il discorso prima di tutto all’interno di quell’”affettività elettiva” – la professione di fede, appunto – che il soprano pretendeva da ogni incontro con un nuovo personaggio.
Il finale dell’opera, con la principessa che si avvelena per il senso di colpa e Loris che le dà il perdono, è uno tra i più alti momenti operistici, limitati a un certo repertorio, di tutto il Novecento. E la registrazione live del ’71 con Giacomini al “Teatro Sociale” di Como ne testimonia la grandezza. La capacità di cantare sfumato per l’intera durata della scena è prova insindacabile della padronanza del sostegno del fiato, che distoglie dalla linea vocale il rischio della pur minima stimbratura, conferendo anzi alla sua morte una dignità che – se già il libretto di certo non occulta – viene raddoppiata dalla preziosità e dall’eleganza del canto.

Come evocato in capo al pezzo, qualcuno potrà obiettare, non senza margine di ragione, che alcuni inquadramenti, in special modo quelli atti a definire un periodo storico o ancor più una corrente artistica, finiscono spesso per risultare sommari, limitanti, semplificatori. Sappiamo bene che parlare di “verismo” alla luce di questi titoli possa essere sembrato una facile forzatura, poiché nessuno dei quattro può essere considerato rappresentativo della corrente. E di questo chiediamo comprensione ai nostri lettori. Ma va pure detto che mai come nel caso di Magda Olivero possiamo giustificare la pertinenza di una declinazione più comprensiva. Una definizione – come dire - più allargata di aderenza al vero, che non presuppone una ricerca incondizionata di uno scorcio “realistico”, piuttosto lo svelamento di quella verità che, prima ancora di appartenere al personaggio, è parte integrante dell’artista e quindi della persona. È questo il “verismo” di Magda Olivero. La sua generosità d’interprete. La sua Stimmung. La sua apertura al mondo.



Carlotta Marchisio



Gli ascolti

Magda Olivero / 6




Boito - Mefistofele

Atto III

L'altra notte in fondo al mare (1962)

Spunta l'aurora pallida (1962)







Zandonai - Francesca da Rimini

Atto I

Amor le fa cantare...Francesca, dove andrai? (con Pinuccia Perotti - 1959)

Atto II

Qualcuno sale per la scala (con Mario del Monaco - 1959)

Atto III

Paolo, datemi pace! (1959)

Atto IV

Mia cara donna, voi m'attendevate? (con Giuseppe Malaspina - 1959)

Francesca! Paolo...Dammi la bocca (con Mario del Monaco & Giuseppe Malaspina - 1959)



Mascagni - Iris

Atto II

Un dì, ero piccina (1962)



Giordano - Fedora

Atto I

Assente è il Capitano?...O grandi occhi lucenti di fede...Su questa santa Croce (con Mario d'Anna & Pietro di Vietri - 1971)

Atto III

Fedora, quella donna è a Parigi!...Tutto tramonta (con Giuseppe Giacomini, Mario d'Anna & Elena Baggiore - 1971)

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