lunedì 28 febbraio 2011

Evadere la posta 1

Risposta al signor Gino Vezzini, presidente dell'associazione Amici del Loggione di Milano.

Gentile signor Vizzini,
ringrazio Lei e, soprattutto, i membri dell'Associazione per l'invito ad assistere alla prossima conferenza organizzata per lunedì 7 marzo presso la Vostra sede.
Purtroppo mancano, per una mia adesione, i necessari chiarimenti pubblici da parte Sua a seguito delle dichiarazioni, da Lei fatte in qualità di Presidente degli Amici del Loggione, al quotidiano Il Giorno nei confronti della mia persona e del mio blog, all'indomani della prima rappresentazione del dittico verista in Scala.
Solo allora sarò in grado di accettare l'invito ad una delle Vostre serate ed, eventualmente, di conoscerla, dato che non ci siamo mai nemmeno incontrati.
Non si meravigli di questa risposta pubblica, ma dopo la dichiarazione che ci saremmo resi indisponibili "Primule rosse " da parte di una "penna" de La Stampa, non posso che scegliere questa forma.

Cordialmente

giulia grisi



Invito


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domenica 27 febbraio 2011

Verdi Edission - Oberto, Conte di San Bonifacio

Ci ricorda il Dossi che Giuseppe Rovani (scrittore milanese in odor di scapigliatura che la pigrizia intellettuale delle nostre istituzioni scolastiche ben si guarda dall'includere in qualsivoglia programma di studi), parlando di Verdi ed elogiandone le melodie più riuscite, era solito dire: “eppure se ghe sent semper dent la vanga”. L’espressione – che pure non mancherà di inorridire i verdiani più puristi – esprime bene, anche se in modo colorito, un aspetto fondamentale della poetica del compositore, ossia quel carattere popolare, semplice, “basso”, che mai lo abbandonerà per tutta la carriera. Certo con l’affinarsi della pratica e dello stile, Verdi riuscirà a contenere questa radice originaria, a trasfigurarla, a meglio vestirla, ma fino ad Otello (compreso), non mancherà di riaffiorare di tanto in tanto nella generale nobiltà ed elaborazione delle composizioni (anche le più mature). Del resto Verdi iniziò tardi la sua carriera operistica (26 anni: e a quell'età Mozart aveva alle spalle Idomeneo e Die Entfuhrung aus dem Serail; Donizetti 13 titoli; Rossini ben 26, tra cui Barbiere, Otello, Mosé, Cenerentola, Italiana, Elisabetta, Tancredi...; Bellini aveva appena ultimato Il Pirata; pure Wagner aveva alle spalle Die Feen e Rienzi e stava componendo il suo primo capolavoro, Der Fliegende Hollander!) dopo una formazione poco accademica e un curriculum di studi e di esperienze non certo prestigioso (si può dire, senza irriverenza alcuna, che apprese l’arte del “comporre”, predisponendo le marcette per la banda di Busseto: questo fu il suo vero imprinting musicale).

Ovviamente questa radice popolare emerge maggiormente e con evidenza nei primi lavori: lavori nei quali – pur tra i molti difetti, le goffaggini, le ingenuità e la dozzinalità della scrittura – si riescono a scorgere anche alcuni dei semi che germoglieranno nella carriera operistica più incredibile e prestigiosa dell’Europa del secolo XIX. Con Oberto, Conte di San Bonifacio si apre il catalogo verdiano. Superata la querelle intorno al fantomatico Rocester – a cui lo stesso autore fa cenno e da molti ritenuto un lavoro perduto: oggi è accertato che si trattava semplicemente di una ipotesi primigenia dell’Oberto (nel senso che Verdi iniziò a predisporre una struttura operistica convenzionale, da poter adattare, a seconda delle esigenze, a diversi titoli e situazioni, in accordo con la committenza e in dipendenza dalle circostanze di fatto), così come il Lord Hamilton – nessun dubbio rimane sulla storia compositiva dell’opera e sulle sue revisioni ed aggiusti. Grazie ai buoni uffici della Sig.ra Strepponi e alla disponibilità – ad accettare la raccomandazione (eh sì: senza quell’italianissima “spintarella” probabilmente la parabola verdiana neppure sarebbe incominciata) – dell’allora impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, Verdi entrò nel mondo dell’opera dalla porta principale: il 17 novembre del 1839, la sua prima fatica ebbe il suo battesimo sul palco del massimo teatro milanese. Protagonista il celebre basso Ignazio Marini (già lodato interprete del Moise rossiniano). Il pubblico accolse abbastanza favorevolmente l’opera, e la stampa, pur evidenziandone le debolezze, diede giudizi incoraggianti, ammonendo, però, il compositore a non dar molto peso “all’effimero plauso del pubblico”. L’opera fu subito acquistata da Ricordi, legando a sé il giovane autore e dimostrando, così, di avere un innegabile fiuto per gli affari.
Ma, all’ascolto (abbastanza raro) com’è questo Oberto? Come si pone rispetto alla tradizione del melodramma italiano in epoca di transizione e mutamenti? Cosa lascia intendere rispetto alla successiva parabola verdiana? E’ chiaro che si tratta di un lavoro immaturo, impacciato nel maldestro utilizzo delle peggiori convenzioni dell’epoca, diseguale nella forma e nella distribuzione interna del materiale musicale, poco ispirato, inferiore (qualitativamente) alle tante opere minori di quel sottobosco di titoli e autori che costituiva la base di quella che appare come la musica di consumo. Oberto si ascolta solo per il dopo, non certo per intrinseche virtù. A sprazzi, però, si percepiscono taluni dei caratteri che formeranno lo stile verdiano compiuto. Il primo difetto dell’opera è il libretto (e questo – in un autore che ha fatto dell’urgenza teatrale e drammatica, la cifra prima della sua poetica – è indubbiamente un grave handicap): rimasticatura stanca e sgraziata dei più scontati topoi del melodramma, con personaggi per nulla credibili e dai caratteri indefiniti, ed una trama assurda e incoerente. La storia è banale: c’è un nobile libertino che ha giocato la stessa partita in due diversi campi da gioco; c’è un’amante respinta, innamorata e credulona; c'è una promessa sposa ignara (forse) del passato del futuro marito e che mostra compassione (sincera o interessata) per le sorti della rivale; c’è il padre della prima – antico avversario del nobile spregiudicato – che per soddisfare una vendetta (per fatti oscuri e inspiegati), usa in modo improprio la fissazione della figlia. Alla fine il libertino è smascherato, la fidanzata lo molla sull’altare e lo spinge tra le braccia dell’amante ormai resa demente dalla ritrovata (in)felicità, mentre il padre gongola per la riuscita della recita e per l’occasione di regolare i suoi conti passati. Ma va male a tutti: il padre fa la fine dei “pifferi di montagna” (che andarono per suonare e furono, invece, suonati) e rimane ucciso nel duello con il libertino; questo – avvedutosi che ammazzare il suocero non è il miglior regalo di nozze che si possa immaginare (anche se in molti casi potrebbe persin risultare un gesto lungimirante) – si da alla macchia; la figlia, consolata invano dalla nuova “amica”, decide di entrare in convento. Trama assurda, dunque, mal scritta e mal strutturata, come tanti melodrammi dell’epoca del resto, ma con la differenza che, nel 1839, non era più credibile né accettabile una tale assenza di vita teatrale (soprattutto dando uno sguardo – anche distratto – a quel che succedeva oltre le Alpi, nel resto dell’Europa civile). E diversamente dal Donizetti minore (anche lui ha musicato testi imbarazzanti), Oberto non fornisce neppure quel mestiere musicale che se proprio non riesce a trasformarsi in vera ispirazione, almeno fornisce un linguaggio collaudato e funzionale. Addirittura, per molto tempo, l’unica occasione di citare l’opera veniva fornita dalle vicende compositive di Ernani – quinta opera di Verdi – e nel presunto fatto che la cabaletta della cavatina di Silva, “Infin che brando vindice” derivasse proprio da un numero alternativo dell’Oberto (in realtà non c’è nessun autografo del pezzo e permangono dubbi persino sulla sua autenticità). L’opera, suddivisa in due atti, è costituita da 15 numeri musicali, preceduti da una Sinfonia: la distribuzione del materiale musicale rispecchia pedissequamente le convenzioni dell’epoca. L’Ouverture in due tempi (nient’altro che un centone dei temi dell’opera) svolge la medesima funzione della stragrande maggioranza delle ouvertures del melodramma italico, ossia avvisare il pubblico dell’imminente inizio dell’opera, invitandolo a prendere posto e a posare i bicchieri o le carte da gioco (quando non le grazie di un’amante furtiva): quattro sgraziati e rozzi accordi iniziali (con grancassa e piatti) e il solito tema su pizzicato dei violini affidato alle trombe, “assicurano” l’effetto banda. L’introduzione con cori ricalca i più consueti schemi del genere: dal trasportare lo spettatore in medias res (confidando nelle sue facoltà immaginifiche per riuscire a comprendere – nei limiti del possibile – gli eventi pregressi all’azione narrata dal libretto: sforzo talvolta inutile, data la profonda incoerenza dello sviluppo di ogni trama rispetto alle premesse storiche) ai timidi e ingenui tentativi di oleografia musicale (come ricorda il Budden gli operisti italiani hanno sempre associato l’idea dell’alba “ai motivi svolazzanti dei legni”: e lo stesso Verdi non riuscì ad emanciparsi dalla banalità di questo espediente, basti pensare agli analoghi episodi nell’Attila e nel Simon Boccanegra). I primi due episodi solistici (Riccardo e Leonora) sono di scarsissimo interesse: lo schema è quello tipico belliniano, con aria e cabaletta, ma molto semplificato e banalizzato (la strumentazione è pessima: in particolare il chiasso dei piatti e le trombe a doppiare la voce nella prima cabaletta). Assai più interessante il duetto successivo tra Leonora e il protagonista (forse la parte migliore dell’opera), soprattutto il bel monologo introduttivo di Oberto con le sue aperture cantabili e il vigoroso accento aristocratico sino allo sfogo melodico del duetto nella classica forma tripartita (efficace anche la stretta finale, seppur meno originale del resto). Dopo un coro di raccordo entra in scena l’altra protagonista femminile, Cuniza (la promessa sposa del nobile Riccardo): curiosamente nella versione finale dell’opera non è previsto il consueto episodio solistico (probabilmente a causa dell’inesperienza dell’interprete, come suggerisce il Budden), e l’opera prosegue verso un assai convenzionale duetto con il tenore, di chiara ispirazione belliniana (una vera e propria cavatina per Cuniza appare, invece, tra i tre brani completi di orchestrazione in appendice all’autografo – si possono ascoltare integralmente nell’incisione diretta da Marriner). Più elaborato il terzetto, ricco di idee musicali (che purtroppo accompagnano la scena più assurda dell’opera: dove si scoperchiano le carte e gli altarini del libertino vengono rivelati) e la prima parte del finale I, certo sono percepibili ingenuità e soluzioni maldestre, dovute essenzialmente all’inesperienza del compositore, tuttavia emergono quei semi – pur tra evidenti rimandi ai modelli tipici dell’epoca – che caratterizzeranno la particolarità della scrittura verdiana. L’atto si conclude con la solita stretta un po’ ruffiana ed impetuosa (Budden scrive “è puro Rossini, senza la destrezza di Rossini nell’evitare la superficialità”) che nulla aggiunge alla struttura musicale. L’atto II, dopo il solito coro di damigelle, si apre con la scena di Cuniza: una classica aria in due sezioni con cabaletta di scarsissimo interesse musicale (inspiegabile il suo relativo successo tra passate interpreti) e che appare una rimasticatura polverosa di Bellini e di Rossini. Altro coro di raccordo e altro episodio solistico per Oberto: meno riuscito però del monologo dell’atto precedente. A seguire la scena con quartetto, quella che suscitò più impressione nelle cronache dell’epoca: in effetti è più facile scorgere in essa delle anticipazioni del compiuto stile verdiano. Dopo il duello (fuori scena) rientra Riccardo con la sua romanza (bella la seconda sezione con l’arpeggio del violoncello ad accompagnare una interessante melodia). L’opera si chiude, poi, con il rondò della protagonista (e nel 1839 siamo decisamente fuori tempo massimo!). Che dire? Ripeto: opera che si ascolta per il “dopo” più che per intrinseche virtù. Resta evidente l’impaccio nella scrittura e la scarsa dimestichezza con le convenzioni, le ingenuità stilistiche e il continuo rimando a modelli passati (Rossini e Bellini in particolari: molto più sfumati gli influssi donizettiani, a differenza di quanto si è solito leggere: in realtà Donizetti appare più moderno e consapevole, tanto che il suo “spettro” sarà chiaramente udibile almeno sino al Trovatore che è, a mio parere, l’opera più autenticamente donizettiana di Verdi). Opera che mostra tutti gli squilibri dell’inesperienza e le lacune tecniche di un’istruzione musicale non costante (ben diversa la solidità di altri illustri esordi operistici, in particolare le assai più consapevoli Villi pucciniane): si percepisce, insomma, l’ansia e la volontà di emergere e di dire parole nuove, ma si constata la mancanza di strumenti per farlo. Pochissime le incisioni disponibili,sopratutto i live per una prorposizione in questa sede, a partire da un live superato e modesto (Torino ’51) e un altro assai peggiore del ‘77 (dirige Pesko e cantano la Gulin, Estes e Grilli: edizione discutibile): si segnalano le due incisioni in studio, di Gardelli (con il sempre ottimo Bergonzi, l’efficace, ma non impeccabile, Panerai e la solida Dimitrova: forse l'edizione migliore) dell’83, e di Marriner nel ’96 (che si segnala solo per la Cuniza della Urmana e la presenza di un’interessante appendice di brani alternativi: deludente Ramey). Più recenti il live del '99 da Macerata (buona direzione di Callegari e un ottimo Pertusi) e Abel nel 2007.

Giuseppe Verdi

Oberto, conte di San Bonifacio


Ouverture - Zoltan Pesko (1977)

Atto I


Di vermiglia amabil luce...Son fra voi...Già parmi udire il fremito – Umberto Grilli (1977)

Ah, sgombro è il loco alfin...All’altar protendi invano...Oh potessi nel mio core – Angeles Gulin (1977)

Oh patria terra...Guardami! Sul mio ciglio...Odi in quell’alte torri...Un amplesso ricevi – Simon Estes & Angeles Gulin (1977)

Fidanzata avventurosa...Basta, basta, o fedeli...Il pensier d’un amore felice...Questa mano omai ritorni – Viorica Cortez & Umberto Grilli (1977)

Alta cagione dunque...Sono io stesso, a te davanti...Su quella fronte impressa…Ma fia l’estremo – Maria Grazia Piolatto, Angeles Gulin, Viorica Cortez & Simon Estes (1977)

A me gli amici...A quell’aspetto un fremito...Non basta una vittima – Viorica Cortez, Simon Estes, Angeles Gulin, Umberto Grilli & Maria Grazia Piolatto (1977)


Atto II


Infelice, nel core tradito...Oh, chi torna l’ardente pensiero…Più che i vezzi e lo splendore – Viorica Cortez (1977)

Bonus: Oh, chi torna l'ardente pensiero - Ebe Stignani (1951)

Bonus: Oh, chi torna l'ardente pensiero - Elena Nicolai (1951)

Bonus: Oh, chi torna l'ardente pensiero - Shirley Verrett (1971)

Dov’è l’astro che nel ciel...Ei tarda ancor...L’orror del tradimento...Ma tu, superbo giovine – Simon Estes (1977)

Eccolo...Vili all’arme, a donne eroi...La vergogna ed il dispetto...Ah, Riccardo, se a misera amante - Simon Estes, Umberto Grilli, Viorica Cortez, Angeles Gulin (1977)

Li vedeste…Ciel, che feci…Ciel clemente – Carlo Bergonzi (1981)

Dove son?...Li cerco invano - Maria Grazia Piolatto, Viorica Cortez (1977)

Tutto ho perduto...Sciagurata! A questo lido...Cela il foglio insanguinato – Angeles Gulin (1977)

Bonus: Tutto ho perduto - Maria Vitale (1951)

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giovedì 24 febbraio 2011

Tosca in Scala: terza stazione.

EXORDIUM

Aggressore: Voi ascoltate solo dischi, dovete smettere ed ascoltare in teatro.

Donzelli: Ad arrivare alle estreme conseguenze del vostro pensare chiudiamo Brera e diamo fuoco al museo di fresco aperto del Novecento, che raccolgono opere cui si può compare un disco di Fleta o della Callas. Non solo, ma chiedete al commendatore Bergonzi a che può servire un disco di Aureliano Pertile e chiedeteVi a che può servire un disco di Jonas Kaufmann.

Aggressore: Andate ad insultare i cantanti in Via Filodrammatici!

Donzelli: Spiacente, la prestazione professionale e le approvazioni e riprovazioni connesse si svolgono sul palcoscenico non nelle vie adiacenti il teatro. Nelle via adiacenti, forse fate dell’autobiografia, circolano persone, che abusano di interessata piaggeria e adulazione. Noi non siamo quelli.

Aggressore: Chi vi paga?

Donzelli: Anche qui siete straordinariamente autobiografici nell’insulto. Ci paga la cultura, la curiosità ed il desiderio di imparare ed apprendere. Si impara assai più da un disco di Ernestine Schumann-Heink, che canta una canzoncina folk americana, che dalle orde che qui vogliono imporre la loro opinione, autoproclamatisi difensori di un teatro che ha, o avrebbe, altri argomenti per difendersi, se volesse.

Aggressore: Le do un cartone che l’addormento!"

Donzelli: Faccia pure così anziché un sordo per strada ne avremo uno al due (NdD: per chi non lo sapesse il "due" è San Vittore, il carcere mandamentale di Milano, situato in piazza Filangieri 2).


NARRATIO

E’ quanto sopra riportato lo stralcio, una porzione dei concitati dialoghi di martedì ore 23.30 circa in largo Ghiringhelli, innanzi quella che, ai tempi delle mie prime serate, era la biglietteria del teatro. Aggiungete grida, insulti e minacce di percosse e l’indecoroso spettacolo di persone anziane, docenti universitari, credo, difensori strenui di supposte esautorate bacchette, signore, che da ieri prontamente avranno già adito salotti e amiche a la page per dolersi di quattro ignoranti scalmanati, che sono state costrette anziché a parlare a fischiare e buare per insegnare ai detrattori della Scala educazione e cultura.
Quale eduzione ci chiediamo perchè fischiare e buare le persone, che non sono artisti, è spettacolo inammissibile, incivile ed indecoroso fuori di un teatro, dove è, piaccia o no, prassi accettata. Siffatto comportamento denota un pericoloso percorso inverso all’evoluzionismo. Sino a quando i nostri aggressori saranno in posizione eretta e riusciranno, come i primati, a congiungere pollice con mignolo? La parola di fatto l’hanno già persa.
Quale cultura se abiurano, per dire a sé stessi di avere sentito spettacoli encomiabili, il recente passato e cadono in palesi contraddizioni come quelle di uno dei miei aggressori, che mi invitava –novello fra’ Girolamo- ad un rogo delle vanità.
Quale cultura ed insegnamento, che sarebbe di pertinenza dei majores, compiacersi di avere tenuto i comportamenti sopra descritti, vantarsene nel mondo virtuale e sulla carta stampata. Personalmente se lo ritengo prassi all’interno del teatro lo reputo vergognoso ed incivile fuori.
Tutto ciò mi addolora e quel che è peggio diseduca ed allontana i giovani dal teatro e della cultura.
Era, lo ricordo, se il titolo non fosse stato sufficiente la fine della quarta recita di Tosca, seconda del tenore Jonas Kaufmann. Brevemente lo svolgimento della serata: sotto il più assoluto silenzio le celeberrime romanze di Cavaradossi ed il duetto d’amore nella chiesa – quella di Centocelle, che sarebbe, nel libretto, Sant’Andrea della Valle, alla fine del “Vissi d’arte” vi erano state contestazioni sostanziose per la protagonista, qualcuno, apostrofati i contestatori con “imbecilli”, è stato prontamente rimbeccato con un “cretino”. Alla fine della serata graziato Lucic, Scarpia da teatro di Satu Mare (Bulgaria), riprovato, assai meno di domenica Herr Kaufmann, buata pesantemente Oksana Dyka.
Non debbo nella narratio aggiungere quel che è successo fuori del teatro perché i protagonisti ne hanno menato vanto ovunque potessero e del fatto se ne occupata, con opinioni piuttosto differente dal manipolo di Vestali e Flamini della sera precedente persino la trasmissione radiofonica più ascoltata in Italia.
Del vanto del comportamento aggressivo, che è confessione dei fatti, altrove impone la nostra dignità ed onestà dovrà occuparsi chi a ciò deputato. Me ne dolgo, ma non si può agire differentemente.
Non si può – ripeto- agire differentemente perché gli incriminati buatori hanno, more solito dimostrato comportamento civile e consono al luogo.
Chi ci ha aggrediti ha dimostrato solo di volersi arrogare il diritto, che non può e deve avere, di dire ciò che è bene e ciò che è male, ha dimostrato solo di voler imporre la propria opinione quale opinione del loggione. Questo può anche essere gradito a cantanti e loro agenti, che con questo aiuto, possono continuare a piazzare i loro prodotti, ma non sembra ufficialmente condiviso dal teatro. Mi domando il senso di questo comportamento autarchico. Credo sia il retaggio del passato recente e non (insomma degli ultimi quarant’anni) e della presunzione tutta scaligera di quelli ( ed erano in scena l’altra sera fuori dal teatro) che rispondevano al ventenne reduce, magari dal Tancredi veneziano “ se la Horne e la Cuberli non cantano in Scala non sono da Scala”. Il tutto nell’intervallo di Anacreonte con Elisabeth Connell !!!

DEMONSTRATIO

L’oggetto principale non può che essere il nuovo arrivo, l’arrivo del divo.
Però si deve, anche, ricordare come guardando lo spettacolo abbiamo apprezzato splendidi gesti registici di sublime cretineria come il sacrestano, che entra con un secchio di acqua e ne versa parte nella pila dell’acqua Santa e parte nel pilozzo di Cavaradossi. Si voleva essere blasfemi e si è finiti con l’essere cretini. Ancora Scarpia che “si rigira il pacco” e principia a slacciare la braghetta dicendo “Tosca finalmente mia”. Si voleva essere a luci rosse e si è fatta la figura del “vorrei, ma non posso” perché un gesto simile imporrebbe l’esibizione di un qualche cosa alla Rocco Siffredi, che estasi il pubblico a ciò interessato, esattamente come la Tosca che si “tira su” le calze rosse sul canapè prima di simulare l’adesione alla proposta di Scarpia è solo ridicola, specie se la caviglia è un po’ forte.
Qualcuno ha detto che Lucic faceva rimpiangere il più becero Silvano Carroli e il vecchio Ruggero Raimondi. Condivido e li faceva rimpiangere perché quelli, almeno, quanto a volume non tenevano confronti. Qui né volume né intenzioni interpretative e tono laido, che sono di Scarpia la sigla.
Peggio che mai la protagonista. Siccome più volte abbiamo scritto che il canto non è l’arte della cabala, recensendo la prima avevamo per inciso detto che con quella tecnica approssimativa il numero di recite previste sarebbe stato oneroso se non impossibile. Puntuale alla terza recita abbiamo sentito una “casetta” che ricordava per durezza ed asperità di suoni una cassetta di ferri, nessun legato uno strillo scomposto per il la delle “voci delle cose”. Quanto ad acuti scomposti la signori in tale modo li ha emessi tutti al di sopra del si bem. Urla nella scena della tortura, nessuna smorzatura nel Vissi d’arte, un do della lama che era li pronto per qualche commento del pubblico (pietoso verso la cantante). Non solo, ma tutte le pacchianate veriste che tutte le Tosche demodé hanno praticato come “assassino”, “sogghigno di demone”, “muri dannato, muori” erano presenti e puntuali all’appello a confermare che la cantante non ce la faceva più.
Mi meraviglio che non sia comparso “l’orribil mercato” ispirato a quello della divina Emma Carelli, non dispero, ma per certi colpi di teatro ci vuole, comunque, una autentica prima donna.
Il terzo atto dal racconto dell’uccisione di Scarpia alla trionfalata ( per dirla con Puccini) è stato un trascinarsi senza mezzi vocali e risorse espressive.
Quanto al direttore, che da rivelazione assoluta, la cautela ha imposto si dica potrebbe essere una rivelazione se, ma , forse continua a colpirmi l’incapacità nei momenti descrittivi e se non si descrive in Puccini soprattutto in quello di Tosca, che ha un quarto protagoniste nell’Urbe a tutte le ore ed in diversi luoghi si scentra l’obiettivo.
Ascoltare la compilazione del salvacondotto, che è descrizione della preparazione di un gesto disperato come l’omicidio, l’alba su Roma e l’introduzione di Cavaradossi al terzo atto per non sentire nulla se non il cattivo suono dei violoncelli, ascoltare tutta la scena della tortura per sentire solo fragore e non tensione, isteria in buca, persecuzione psicologica nell’orchestra, che dovrebbe sottolineare (visto che il baritono non canta) i “dite dov’è Angelotti”. Anche qui, e tenuto conto che per certi versi Tosca non propone i problemi di tenuta palco - buca di una Fanciulla, di una Turandot o anche del finale secondo di Boheme ( Gustavo Dudamel docet) la direzione è ben lontana da quella del direttore di talento o almeno talentuoso.
Infine il vero corno della discordia è Herr Jonas Kaufmann. Richiamo che alla domenicale assenti i crudi grisini ed i loro adepti è stato riprovato dal pubblico, sicchè il concorso dei laudatores la successiva rappresentazione è stato copioso ed agguerrito.
Tanto nome, tanta fama discografica meritano un esame attento.
Invito a sentire sul tubo come suonasse la voce di Kaufmann agli inizi di carriera e come suoni ora. Non è la normale maturazione di una voce, che sin dall’inizio aveva limiti tecnici, ma il cantare per ben precisa tecnica con suoni bassi, in zona parotidea, imitando ora Vickers ora Domingo, senza sostegno della respirazione, emettendo smunti falsettini limitatamente alla zona centrale della voce, che magari in disco sembrano anche decenti, gridando senza neppure troppo volume in zona alta, con assoluta monotonia di accento perché quel metodo di canto non consente nè modulazioni, né colori nella voce.
Esempi:
Recondita Armonia: Tralascio che sia l’attacco in pp della romanza, mi soffermo, invece, su quel che succede alla frase “ e te beltade ignota” che prevede un sol acuto risolto con un attacco duro e fisso del suono. E’ una romanza d’amore per la cronaca E che il signore in questione chiuda con fa falsettante tenuto a dismisura per propiziare il non pervenuto applauso nonfa certo onore ad un cantante, che vorrebbe avere fra le proprie prerogative la musicalità
Attacco di “qual guardo al mondo” Kaufmann utilizza per le prime frasi ( nota più acuta un fa) ii falsetti indietro, che simulano amore e sesso, poi arriva la salita al la nat di “occhio all’amor soave” e la voce diventa dura fissa e il canti sul forte. Amore, sesso e passione pochini. Sentire, prima che venga bruciato il disco come si comportano Beniamino Gigli, voce d’oro, o Carlo Bergonzi voce di ben altro metallo o più di tutti Richard Tucker, anche lui squillante, ma non sfumatissimo ( errata communis opinio).
Scena con Angelotti e frase “la vita mi costasse” con forcella e salita al si bem. Rimane solo un si bem ghermito di strozza.
Ne volete ancora per completezza di demonstratio?
Andate a sentire al terzo atto l’attacco di “e lucevan le stelle” piuttosto che di “o dolci mani”. La scrittura è sempre la stessa ossia il brano comincia in zona centrale e poi progressivamente sale, chiedendo al cantante un si bem decente e squillante, facilità sul passaggio. L’esecuzione è sempre la stessa falsetto opaco ed afono nelle prime battute suoni incontrollabili nella zona acuta seguente, accento e colore della voce da sfida Lohengrin- Telramund.
Esausto il cantante al si bem di trionfal

PERORATIO

Tutti si aspetterebbero che invocassi da buon nostalgico i soliti Gigli, Caniglia, magari l’Olivero e la Raina, poi Molinari-Pradelli o Votto.
Ed invece no. Invoco il decoro, la buona educazione ed il rispetto delle norme consuetudinarie, che ammettono riprovazioni in teatro ed all’indirizzo dei cantanti, tanto da non dover sentire né gli orgogliosi deliri e vanterie di chi avrebbe principiato la fischiata ai fischiatori, né le miserande accuse che ho riportato nell’exordium.
E poi loggionisti magari violenti, magari dalla lingua tagliente e pronta al lazzo, ma dall’orecchio fine, onesto sopratutto ed allenato come la Rina, pesera di via Falcone o il nostro Tino.


Gli ascolti

Puccini - Tosca

Atto II


Ed or fra noi parliam da buoni amici - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda(1929)

Orsù, Tosca, parlate - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)

Atto III

E lucevan le stelle - Miguel Fleta (1924)




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lunedì 21 febbraio 2011

Aleksandra Kurzak in concerto alla Scala

Quando un teatro offre ad un cantante di esibirsi in un concerto di canto dovrebbe farlo o per garantire una presenza a chi non disponga di un titolo operistico in stagione ovvero a chi di lì a poco si esibirà in uno dei titoli della stagione stessa, ma quel che è chiaro è che il cantante scritturato è sempre una delle presenze amate e sicure presso quel teatro.

All’attivo di Aleksandra Kurzak ci sono tre recite nel Rigoletto della passata stagione. Non solo, ma il concertista per essere tale deve offrire, sempre, un equilibrio fra doti vocali e quelle interpretative, anche se talora alcuni celebrati concertisti sono stati soprattutto voci ed altri invece soprattutto interpreti, inutile farne i nomi perché tanto ci verrebbe opposta la loro inesistenza. L’altra irrinunciabile peculiarità del concerto è che il cantante sia posto nella condizione di esibire il meglio della propria arte vocale o interpretativa. Che sarebbero stati i concerti della Olivero senza Tosti o quelli della Horne privi delle arie acrobatiche rossiniane? E invece la Scala, come abbiamo già avuto modo di verificare e non condividere l’anno passato impone ai cantanti chiamati programmi di educazione culturale a base di musica cameristica, preferibilmente in lingua tedesca o mitteleuropea. L’italiano e tutte le lingue neo latine sono terribilmente “out”. Non solo, ma nel concerto di questa sera ha inflitto al pubblico anche una cantante dalla voce modesta per qualità naturali, non supportata da alcuna risorsa tecnica che le consenta di non emettere acuti gridati, note medio-alte fisse e periclitanti di intonazione (secondo il costume diffuso delle imitatrici di Edita Gruberova), zona centrale vuota e di colore bianchiccio e naturalmente con tale bagaglio “tecnico” di distinguere i vari sentimenti espressi nei brani “Nachtigall” proposti nella prima parte. Non per fare della facile ironia ma gli usignoli della signora Kurzak erano affetti da aviaria, altri piuttosto spennacchiati (Alabiev) e comunque tutti di batteria.
Letti i testi della seconda parte del concerto dedicato ad artisti polacchi (ce ne sono tanti oltre Chopin) abbiamo avuto il fondato dubbio che i testi cantati con assoluta monotonia e suoni periclitanti in zona medio-alta dalla signora Kurzak fossero tutti del medesimo tenore, ovvero minestrine Knorr. Alla fine di siffatto bagno di cultura il pubblico, quello che applaude sempre, ha invocato Verdi, non sappiamo se per disperazione o per ironia. E’ stato ricompensato invece con due brani del repertorio tipico del soprano di coloratura: la cavatina di Lucia e quella di Rosina. Davanti ad un’esibizione con un sovracuto urlacchiato, una cadenza in formato “le mie prime cadenze”, agilità aspirate e spappolate e la velleità di riproporre persino le agilità cromatiche in chiusa ci sarebbe voluto un grido dal loggione tipo “Mariella perdono!”. Ma avremmo dovuto gridare anche un “Toti perdono!” dopo un’esibizione scolastica e parrocchiale della cavatina di Rosina con abbozzo delle variazioni di Matilde Juva, per l’occasione mutatasi in Matilde Ciucca.
Il Barbiere e la Lucia pubblicati dai fratelli Fabbri, con i quali sono stato iniziato all’opera, si trovano purtroppo in cantina e non ho tempo di andare a recuperarli per proporvi un ascolto. Ma la Rosina e la Lucia ivi registrate sono quantomeno oneste e solide professioniste!



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sabato 19 febbraio 2011

Tosca alla Scala: seconda stazione

Giovedì sera seconda recita di Tosca in Scala. Una via dolorosa non per gli interpreti ma per il pubblico, di cui facciamo parte, regolarmente e paganti.



Per la seconda la prevista protagonista era risanata, malattia fulminante, istantaneo risanamento.
Oksana Dyka è stata un mese or sono una insufficiente Nedda dei Pagliacci, riprovata dal pubblico. Non ci sarebbe voluto né un pozzo di scienza, né una professionalità esemplare per esercitare il diritto di protesta nei confronti dell’incauta scritturata. Invece abbiamo dovuto sopportare una Tosca assolutamente inidonea ed insufficiente. Sia la cantante che l’interprete. Vuota sotto la voce, spinta dal la acuto in su (era infatti un bercio quello che ha chiuso l’aria di Nedda alla prima) ha cantato piattamente fra il mezzoforte e il forte, urlato senza risparmio (ma ci sono svariate altre recite!) le note acute, nemmeno tentate un paio di smorzature di tradizione, come sul la bemolle acuto in chiusa al Vissi d’arte. Per la cronaca la eseguiva anche Maria Caniglia nel 1956, perdonerà il paragone la signora Donati Caniglia. L’interprete, attesa l’assenza di dinamica, inesistente, si badi non limitata e carente, inesistente. Sbagliato non fare le singole uscite, perché al diritto della cantante non protestata di esibirsi, corrisponde quello del pubblico di esprimere la propria opinione, Opinione ugualmente negativa riguardo Carlo Ventre, recuperato dopo il perdurare della malattia di Jonas Kaufmann, che dal sito della Scala sembra essere il vero protagonista del titolo pucciniano. Ma è legge consuetudinaria non disapprovare i sostituti, anche se il loro posto sarebbe la provincia, atteso che anche in quest’epoca di carestia quella lombarda ha offerto rappresentazioni encomiabili.
La malattia del prescelto pare, salvo smentite coi fatti di domani, essere grave, ricorrente e perdurante. Con autentico spregio e dileggio del pubblico accorso ad ascoltare il miracolo vivente della corda tenorile, miracolo creato dalle centrali del consenso, il teatro non dice esplicitamente se e come il divo canterà.
In compenso vediamo, nostro malgrado, una critica sempre attiva, sempre pronta a difendere chi, per superiore scelta ed ordine, DEVE essere encomiasticamente recensito, strenuamente difeso. Tanto è che dalle pagine dei quotidiani milanesi le penne deputate, parlando della bacchetta, si sono scagliate a dire dell’ignoranza crassa del pubblico, delle preordinate contestazioni, del mirabile curriculum di chi abbia diretto il melodramma in quel di Padova e Tel Aviv.
Allora un po’ di chiarezza, un po’ di coerenza. Quando si parli di fischi e contestazioni ordite e preordinate lo si deve fare ben certi di quel che si fa dicendo, in difetto “interessar se ne potria un tantin l’autorità”. E, poi, si perde la faccia, a dirlo allorché la propria esclusiva fonte sia un becero bercio di platea prontamente ridicolizzato e zittito dal loggione. All’unanimità. Quando si santifica un direttore per acclamazione popolare si deve, almeno, spiegare al popolo bue (altrimenti perché viene lautamente pagato il critico?) l’ubi consistam delle virtù eroiche e della santità. Perché per due sere di virtù e miracoli non ne abbiamo uditi e visti punto. Alle spicce perché altrove si è divertito a vagliare battuta per battuta l’intera partitura: orchestra pesante sempre, ottoni spernacchiati (dalle prime tre battute dell’opera in poi), archi, violoncelli in particolare al terzo atto, dalle sonorità acide e baroccare, campane all’alba su Roma da “Avemo er Papa novo” e passando dalla grammatica alla sintassi (ma quella del caso!) evidente mancanza di un disegno interpretativo. Tosca può essere esasperatamente lenta e languida ad evocare la sensualità della donna che tutto muove e tutti eccita, oppure violenta, drammatica, parossistica nelle sonorità e dichiaratamente novecentesca nelle scene di scontro e tortura, non solo fisiche ma soprattutto psicologiche (Te Deum compreso, a sposare conati laicistici), che sostengono la vicenda. Nulla di tutto questo se non tempi ora inutilmente lenti, diffuso fragore, nessuna finezza orchestrale e sottolineatura degli episodi topici e neppure la sicurezza dei direttori di tradizione alla Molinari-Pradelli. Tralascio poi, strombazzate e sonorità pesante e pestate alla chiusa di ciascun atto nell’inutile tentativo di recuperare drammaticità e vigore. Questo tanto per esser chiari, è il marchio di fabbrica, identico a quello propostoci alla chiusa del secondo e terz’atto di Aida dal maestro del “maestro rivelazione”. Noi poveri ignoranti non siamo stati illuminati, rischiarati nella nostra ottusità, anzi per difendere il palcoscenico siamo stati insultati, senza motivo e senza risparmio, dimostrando un’altra volta come la critica intenda molta diversamente dal passato e dal codice deontologico, il proprio compito.
Alle spiegazioni, partitura alla mano, siamo ben disposti. Anzi, noi le pretendiamo.
Quando poi, e qui la pianto, si riprova l’idea di controlli e censure, inneggiando allo spirito liberale della dirigenza, coerenza vorrebbe, in uno con informazione e professionalità, rammentare che si può essere gendarmi in altri modi come il ripulire il facebook della Scala da ogni commento negativo secondo il provinciale perbenismo del “contenemo lo scandalo”. Buona domenica a tutti.

Consoliamoci con l'unica valida rilettura moderna di Tosca.



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giovedì 17 febbraio 2011

900.000! Regaliamoci un altro concerto.

E siamo arrivati sino a 900.000. Non l'avremmo giammai creduto all'inizio di questa nostra avventura! Frase questa non nuova, ma nuovo è il nostro stupore dinnanzi al risultato.
Mi domando, anzi ci domandiamo, quanto contribuisca a questo risultato la pubblicità denigratoria, che qualcuno con assiduità pratica.
Confesso che non mi interessa perché pei nostri denigratori, che talora mi vengono indicati mentre guardano al mio indirizzo (facile bersaglio), proprio non ho alcun interesse. Ciascun per la sua strada ciascuno con le proprie opinioni.

Per questa ricorrenza abbiamo scelto un personaggio ed un brano di aspetto semplice e lineare dove trionfano due qualità della autentica schiera di dive e divine che lo hanno registrato e che andiamo a proporre, ovvero lo splendore vocale o, in alternativa, la maestria del dire.
Due qualità che compaiono in tutte le esecuzioni in varia percentuale. Perchè se lo splendore vocale è la prima peculiarità di Ebe Stignani o di Frau Ernestine il dire lo è di Claudia Muzio o di Lotte Lehmann o di Teresa Berganza. Solo che sono cantanti di tale levatura interpretativa che possono dire tutte splendidamente e dire tutte in maniera differente perchè il dire di Teresa Berganza è il dire con il rispetto della semplice linea vocale, che si addice alla trovatella, quello di Claudia Muzio evoca la diva anche nell'apparente semplicità e quello di Frau Lehmann, complice la lingua, quello della vera grande liederista.
C'è anche -lo confessiamo- un altro motivo in questa scelta ossia un invito a riflettere. Oggi il titolo di Thomas sembra dimenticato ( ne attendo -confesso- un'edizione di quelle case editrici, che si occupano di titoli desueti) eppure per il title role è accessibile a soprani, soprani accorciati, mezzosoprani e persino contralti. Il tutto documentato, perchè documentare con ascolti è uno dei principi irrinunciabili del Corriere.
La possibilità di documentare mi consente un'ulteriore piccola chiosa ovvero che ottant'anni di ascolti insegnano a chi sia in grado di comprendere come l'opera possa subire alcune modifiche nella fruizione, nella considerazione popolare da musica, appunto, popolare e di vasta diffusione a prodotto di nicchia o di cultura, ma qual che che sia la considerazione resta sempre melodramma da eseguire nel solco della tradizione, secondo consolidati principi. In difetto avremmo solo orribili pastrocchi, commistioni di generi, incongruenze, che non sono svecchiamento e modernità, ma spocchia da coniugi Verdurin (si badi non quelli di Proust, ma quelli di Signore e Signori).
Ci scusiamo per non avere rispettato il 900.000, ma Tosca, serata per qualche verso di altri tempi, ha imposto lo slittamento.
Per il milione saremo puntualissimi. Posso, tanto per mettere il brivido dire che c'è molto fermento per la scelta che deve accompagnare quella scadenza. Musica o immagini?


Gli ascolti

Ambroise Thomas

Mignon

Atto I


Connais-tu le pays

1905 - Gemma Bellincioni
1906 - Sigrid Arnoldson
1906 - Adelina Patti
1907 - Ernestine Schumann-Heink
1907 - Marcella Sembrich
1908 - Emmy Destinn
1909 - Geraldine Farrar
1915 - Elisabeth Schumann
1917 - Claudia Muzio
1925 - Giuseppina Zinetti
1928 - Lucrezia Bori
1930 - Gianna Pederzini
1930 - Lotte Lehmann
1931 - Germaine Cernay
1931 - Conchita Supervia
1932 - Ninon Vallin
1937 - Jennie Tourel
1941 - Ebe Stignani
1943 - Rise Stevens
1949 - Giulietta Simionato
1950 - Solange Michel
1953 - Elisabeth Grümmer
1975 - Teresa Berganza
1980 - Marilyn Horne

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mercoledì 16 febbraio 2011

Tosca alla Scala

Dialogo tra regista e cantante, tra modernismo e passatismo:



Eravamo in coda per la ripresa, ripulita, del brutto Idomeneo del regista Luc Bondy più di un anno fa quando da New York giugeva l’eco del megaflop al Met della nuova produzione di Tosca, firmata dal medesimo regista e coprodotta anche dal nostro teatro milanese.

Un‘ondata “passatista” si riversò sul teatro americano a favore della trentennale produzione zeffirelliana e per la dismissione del nuovo prodotto d’avanguardia. Pare che la direzione del Met avesse pure indetto una conferenza stampa per spiegare al pubblico la novità dell’incompreso spettacolo, ma senza ottenere effetto. Grande polverone mediatico, con tanto di dichiarazioni di fuoco di Franco Zeffirelli…..insomma, uno degli spettacoli più discutibili e perciò criticati di cui si sia mai sentito parlare.
E noi ci domandammo se era proprio il caso di continuare nell’impresa facendo arrivare fino a qui una Tosca, che si diceva all’insegna della volgarità, a tratti anche del ridicolo, contraria alla poetica dell’opera pucciniana. Decisi a non farci mancare nulla, nessuna delle chicche registiche à la page che gravano pesantemente sui bilanci dei teatri d’opera, abbiamo compiuto anche ieri sera il rito modernista, in uno spettacolo pure questo “limato “ e “accomodato”, depurato dal sommo gesto registico della fellatio ad inizio del secondo atto e da altre “novità” affini, ma comunque sempre brutto, volgare, nel migliore dei casi insignificante. Anzi, anche insensato, come il cambio d’abito che Tosca compie dopo avere ammazzato Scarpia, presentandosi all’esecuzione di Castel Sant’Angelo diversamente vestita dal secondo atto. Ieri sera la gente ha riso nel momento della morte di Scarpia, come pure al terzo atto, quando il soprano viene costretta a mimare la morte di Cavaradossi sulle parole “ E cadi bene- Come la Tosca in teatro-così—così” perché a volte il riso è consolatorio. Una parola speciale, però, và anche spesa per lo “scenografo-muratore” (perdonatemi la battuta ma…) Richard Peduzzi, che da trent’anni “mura” ripetitivamente ogni produzione con i suoi fondali in mattoni: è dal Lucio Silla del 1984 che vediamo queste quinte, sempre la medesima variazione sul tema, fattesi un po’ troppo frequenti in questi anni di Tristano ed Isotta, Carmen, ed ora Tosca. Questa l’ha pure murata male, tra l’altro, dato che il soggetto dell’opera non si presta affatto ad essere trasferita in un non-luogo dal sapore industriale. Ieri, il primo atto, più che la chiesa di Sant’Andrea della Valle pareva un brutto scorcio, troppo buio, della metafisica Chandigart di L. Kahn e il secondo atto l’ufficio di un questurino di un paese dell’agro romano degli anni ’30, arredato modestamente con gusto vintage.
Roma è dappertutto nella Tosca, è nella musica, Puccini la crea e la pretende anche in scena, dato che questa è la poetica dell’opera, che non può e non deve essere annientata, perché sennò si annienta l’autore, che fino, a prova del contrario, è il protagonista, colui che detta la cifra del testo. E Tosca, da questo punto di vista, è opera determinatissima, che lascia assai poco spazio alla novità, che non sia registica. Zeffirelli, Ronconi, De Ana, Bolognini, loro si che han messo in scena “la Tosca”. Ieri sera abbiamo sopportato una bruttura gratuita ed incongrua.
Ha sopportato il pubblico, ma hanno sopportato anche i cantanti, che oggi più che mai hanno bisogno di essere aiutati, coadiuvati, corroborati in ciò che fanno, perché non sono in grado di andare lontano con le proprie gambe.

Alla produzione sciagurata si è unita la prova mediocre del maestro Wellber, che udivamo per la prima volta. Al signor Wellber è mancato semplicemente una minimale conoscenza ed aderenza al titolo, non alla sola tradizione, fondamentale per opere come questa, il suo colore romano, l’atmosfera grandiosa e perversa del Te Deum, come quella dell’agro romano ad inizio del terzo atto (ma che fracasso quelle campane fuori scena!). E’ mancata anche certa tensione drammatica al secondo ( alludo alla scena della tortura, ove l’orchestra non era in grado di suonare il ritmo incalzante dei “ Più forte - più forte…” di Scarpia e Tosca ), ma anche al duetto del terzo, dove assieme a lui sono mancati pure i cantanti, visibilmente stanchi. Insomma, una direzione che non ha mai preso il pubblico né creato la dovuta atmosfera, che sarebbe stata tanto necessaria al cast. Già, perché nel teatro accade anche che quando il cast canta poco, il direttore si faccia “ cantante”, e la Tosca a questo si presta moltissimo. Ma ieri sera non è stato proprio così.

Quanto ai protagonisti, non si commentano le rocambolesche avventure del “virus” scaligero, perché, lo abbiamo già osservato altre volte, i virus nell’opera paiono gli esseri viventi, che brillano per tempismo e coordinamento con gli eventi e le difficoltà organizzative degli enti lirici. Fatto sta che il teatro si è aggrappato alla signora Radvanovsky, causa defezioni varie, ed ha rimediato un tenore, quello sì, imprevisto, il signor Antonenko, spiazzando tutte le chiacchiere sul tototenore, che preconizzava rimpiazzi con alcuni . Ed il pubblico ha apprezzato la loro disponibilità nel soccorrere la serata, il loro non tirarsi indietro di fronte ad una produzione, che li esponeva a dei rischi.

Parliamo di canto, quello vero.
Il cast vocale, in realtà, non è piaciuto al pubblico, che ha avuto parole positive per la sola qualità vera apprezzabile in campo: una serie di intenzioni musicali, di fraseggio, fatte udire dalla signora Radvanovsky, che, ad onta di una voce sgradevole al centro soprattutto per limiti tecnici, ha però avuto saputo porsi da cantante di rango, che deve “dire”, cioè esprimere.
Ha costruito un personaggio plausibile anche sul piano scenico, mai volgare ( qualche notaccia di petto al secondo atto, al momento dell’assassinio di Scarpia, ma come di prammatica….), con bel fraseggio nell’aria, che le è valso il solo applauso della serata. Abbiamo apprezzato la sua preparazione musicale, meno quella tecnica. La voce è importante per volume, estesa in alto, non certo bella di natura. Sopratutto e versiamo nei limiti tecnici al centro è fortemente tubata, vibrata e “di fibra”, “chevrotante” come dice il gergo francese. Al centro i suoni sono spesso presi “da sotto” e corretti nell’intonazione, con difficoltà di legato, causa un uso del fiato non di scuola. In un‘opera come Tosca, di scrittura centrale nei cantabili e che guizza all’acuto prevalentemente nei momenti drammatici, il difetto ha grande rilevanza, soprattutto in una voce di grande volume, ed il pubblico ha faticato ad accettare questa voce, giunta anche molto affaticata al terzo atto. Ed in fondo è Tosca, non Aida o Ballo.

Quanto ai due protagonisti maschili nulla di speciale. Il tenore, signor Antonenko, ha una voce spessa e non a fuoco. Ha cantato con solidità ma anche con cali di intonazione sensibili, fraseggiando pochissimo e portando a termine la sua serata con una “solidità” poco elegante ed inespressiva, ma che lo ha messo al riparo dalle reazioni suscitate dai protagonisti del dittico verista. Il secondo, signor Lucic, è stato uno Scarpia greve, anche volgare a tratti, dalla voce insufficiente in volume e dagli acuti sistematicamente indietro, tanto da essere in difficoltà nel Te Deum, ove ha faticato a farsi udire. Complice la regia, il suo Scarpia di baronale aveva assai poco, e più che elegantemente laido e perverso, è parso assai triviale e truculento. Le "limature" di regia quasi che il pubblico milanese sia moralista e facile allo scandalo hanno aggravato la situazione. Anche per lui l’efficacia di chi esegue il proprio compito al riparo dai disastri, ma anche lontano dal cantare con arte.

Leggiamo or ora le dichiarazioni di stampa e direzione del teatro, che meritano qualche chiosa anche da parte nostra.
Che la produzione sarebbe stata fischiata lo si sapeva da mesi, ha ragione il signor Lissner. Ma questo non per un progetto di deliberato danno al teatro, ma semplicemente perché si trattava notoriamente di uno spettacolo brutto, sbagliato in partenza, e contestatissimo ab origo, per giunta trasmesso nelle recite di Monaco anche dalla televisione. Sono state tolte le escursioni nel pornografico gratuito ma l’essenza è rimasta invariata. Al pubblico non spetta entrare nel merito della gestione delle cose, dei costi, dell’acquisto fatto molti mesi addietro, ma solo l’espressione del proprio apprezzamento. E così è stato:abbiamo dovuto vederla per forza? L’opinione è stata quella espressa ieri sera, controversa.
In fatto di cantanti, non la penso però come la maggior parte del pubblico di ieri sera.
La Scala ha peccato di leggerezza al momento della dipartita della signora Serafin dalla produzione, per motivi personali, avventurandosi in una promozione al primo cast di una cantante che forse andava meglio soppesata nelle sue qualità. I milanesi ben sapevano del Trovatore comasco in cui era incappata la signora Dyka non molto tempo fa e gli audio disponibili in internet proprio di Tosca suggerivano una maggiore prudenza. Il teatro, però, è corso ai ripari, anche con fortuna, recuperando una protagonista, originariamente chiamata per supplire solo alcune recite, che è comunque la massima Tosca oggi presente sul mercato. O meglio, sul mercato dei “divi”, perché, ad onta di alcuni miei vecchi compagni di loggione, la signora Radvanovsky ha fior di carriera e curriculum professionale e non è, come alcuni han creduto, “un secondo cast” recuperato alla bell’è meglio. Il virus tempista ha fatto il resto, e il teatro ci ha comunque esibito la Tosca più blasonata di oggi, ed in questo ha fatto, almeno sulla carta, il suo dovere.
Mentre forse non l’ha fatto nella scelta della bacchetta e nel perseverare con una produzione che non può piacere a nessuno.
Il teatro ha anche subito il forfait di Jonas Kaufmann, peraltro previsto in cartellone a Monaco di Baviera sino al giorno 13 febbraio in Carmen, recita cancellata all’ultimo, in coincidenza della prova generale di Tosca a Milano. Ammalatosi il secondo tenore designato, signor Berti, si ammala anche Kaufmann, e la Scala resta senza tenori. Ed il pubblico rispetta la prova del signor Antonenko giunto all’ultimo, perché così funziona il teatro da che mondo è mondo. Certo, se poi la recita del 17 viene cancellata per assenza di tenori, come ha annunciato oggi su un quotidiano il signor Soprintendente, nessuno ne ha colpa, men che meno il pubblico, che ha applaudito l’uscita del cast vocale.
Certo, continuare ad organizzare scritture di cantanti che per calendario arrivano all’ultimissimo minuto, andando in scena senza prove, è esporsi a questi rischi, perché i cantanti di oggi non sono quelli di ieri. Non è più il tempo dei Domingo, delle Caballè, dei big “last minute”, in grado di cantare sempre e comunque. I cantanti di oggi non hanno più la stessa preparazione tecnica, quella che consentiva ad alcuni di loro, i big appunto di cantare ogni sera, e talora cancellano semplicemente perché….non ce la fanno. Nessuno è esente da questi problemi, salvo le vecchie signore nominate Gruberova, Devia, o signori nominati Nucci etcc, che possono andare in scena sempre.

Cosa è opportuno dire a questo punto?
Che assieme alle scelte imprudenti o errate, la Scala paga anche lo scotto dell’adeguamento inevitabile (davvero?) ad un sistema, il cosiddetto “star system”, che è arrivato al capolinea. I cantanti sono cambiati perché è cambiato il modo di cantare: il loro bagaglio tecnico si è impoverito oltre il limite consentito per reggere ritmi e repertori che sino agli anni ’80 erano ritenuti normali. Eppure a questo dato lampante, che tutti constatano ogni sera, il sistema non sa trovare il giusto rimedio. La Scala è in crisi? Assediata dai bu e dai fischi? La qualità che il teatro sta esprimendo vi pare davvero inferiore a quella espressa da un teatro come il Met ? Il problema è che un teatro esprima la propria opinione, sempre fondata tra l’altro, o che, a furia di storture, di un sistema di falsi valori extravocali, ci si sia ridotti a non poter allestire perfino la Tosca, che da che mondo è mondo si allestiva nei massimi teatri di tutto il mondo come in quelli di provincia? Parliamo di fischi o di qualità artistica intrinseca agli spettacoli?
Il problema và ben oltre la dualità passatisti –modernisti, ma sta nel modo in cui si operano le scelte artistiche ma sta anche nel rimettere a fuoco quali debbano essere le qualità tecniche di chi và in scena ed alza la bacchetta, e dove andare a recuperare quegli strumenti di lavoro perduti.
Ieri sera il pubblico è stato molto giusto, almeno a mio avviso, perché ha detto di no là dove si poteva far meglio, ed ha lasciato andare dove il teatro non poteva, lì per lì, metter rimedio.
Avremo comunque occasione di riparlare di questi temi al più presto.
E partiremo dalla considerazione di un'altra "sopravvissuta"della vecchia generazione Miss June Anderson, che ci ha ricordato come un tempo si fosse divi dello stars system per scelta e decreto del pubblico, mentre oggi i divi dello stars system sono quelli che per tali vengono propagandati ed imposti.
E questa la regola che MAI il pubblico italiano, scaligero in particolare, potrà accettare e condividere. Alla prossima!

Puccini - Tosca

Atto III


Io de' sospiri...Mario Cavaradossi?...E lucevan le stelle...Franchigia a Floria Tosca...O dolci mani...Trionfal di nova speme - Antonietta Stella & Richard Tucker - dir. Dimitri Mitropoulos - Met 1958

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lunedì 14 febbraio 2011

Hipólito Lázaro: Mi método de canto.

Cari amici, tempo fa incontrai una mia vecchia conoscenza, il tenore Manuel Garcia. Fu per caso, ad una stazione di posta sulla via di Parigi, lui diretto in Italia, io verso un altro trionfo agli Italiani.
Pranzammo insieme ( e come avrei potuto rifiutarmi?! ..) Parlava e parlava e parlava, un oceano di parole minute…oddio! non faceva che raccontare esaltato i successi della grande scuola di canto spagnola, dei grandi tenori, dei soprani, di questa e di quella, con l’orgogliosa logorrea con cui gli ispanici artisti sono soliti autodecantarsi. La prese da lontano, cominciando col blasone della sua famiglia, uomini e donne, quasi ch'io abbisognassi d’apprendere alcunché dai Garcia, dimentico ch’io sono la più grande di tutte le cantatrici del belcanto di ogni tempo!! Stavo quasi per alzarmi dalla tavola, annoiata e un po’ seccata per tanta enfasi, ma poi cambiò di colpo la sua rotta. Prese a narrare di questo giovane virgulto catalano, tutto temperamento, voce e acuti, corazon e voz !!!, nomato Hipolito Làzaro. Mi raccontò dei suoi trionfi nelle Americhe, in compagnia d’altri cantori e cantatrici della terra di Spagna, e della sua passione per il canto.
Sarò sincera: Garcia finì per incuriosirmi nel narrare le vicende di questo giovane prodigio. Ci salutammo, ma poi mi venne incontro sulla porta, mentre risalivo sulla mia carrozza, tenendo un libro in mano: “Mi metodo de canto”, scritto proprio dal Làzaro.
“Garcia, non crederete ch’io, dopo tutti i miei assoluti trionfi con il canto, mi cimenti nella lettura di un giovane ambizioso, seppur di grandi qualità?”
“Leggete, donna Giulia” mi disse, “ leggete, e fate leggere ai vostri colleghi ed amici di Parigi e di Londra. Leggete di quale sapienza, estro ed impeto siam capaci noi spagnoli, nel canto al par che...…nell’amore!”
“ Mi state corteggiando, signor Garcia, o semplicemente fate appello alle lusinghe perch’io mi interessi al vostro tenore?”
“Entrambe le cose, divina Grisi, entrambe!”
“Allora lo leggerò, mio caro Garcia, e lo farò leggere agli amici. A presto!”


HIPOLITO LAZARO: IL MIO METODO DI CANTO

PREFAZIONE.

Dopo la grande esperienza raggiunta nelle incessanti osservazioni nella mia lunga carriera da cantante, durante la quale ho avuto l’onore di recitare nei più grandi teatri del mondo, ed essendo io stato eletto diverse volte per recitare ruoli di personaggi esplicitamente scritti e pensati per me, ho ritenuto che fosse mio dovere scrivere questo Metodo, che cercherò di rendere il più chiaro possibile con l’obbiettivo di semplificare a tutti coloro che abbiano il desiderio di dedicarsi, per passione o professione, all’arte del bel canto, l’insegnamento dell’antica scuola, unica e vera, e per avere la soddisfazione di poter lasciare nelle scene un successore della mia scuola che, all’ascoltarlo, mi possa dare lo stesso piacere che può provare colui che dà vita a qualcosa di proprio e vicino e che considera perenne.

Ho potuto verificare, dopo lunghe riflessioni, che al giorno d’oggi molte voci falliscono per il semplice fatto di non essere ben impostate dall’inizio. E ciò è dovuto al fatto che vi sono alcune persone senza coscienza che non possiedono in assoluto il senso dell’arte nella propria anima e che si dedicano all’insegnamento del canto pur potendo dedicarsi ad attività secondarie, essendo la maggior parte di loro elementi mediocri, falliti nella carriera, o semplici appassionati noncuranti. Posso testimoniare tutto quello che racconto o giudico: nel mio percorso da studente ebbi a che fare con un soggetto, che di professione faceva l’orologiaio, il quale dedicava parte delle sue giornate a impartire lezioni di canto senza aver mai cantato, semplicemente perché non aveva voce, e, cosa assurda, non conosceva nulla del teatro ne aveva mai visto una rappresentazione. Questo individuo viveva in un piccolo paesino a otto ore di distanza dalla città.
Ad ogni modo vi furono numerosi artisti celebri che fallirono come maestri di canto: ebbi contatti con alcuni di loro; attualmente non conosco un discepolo di suddetti artisti che abbia una educazione al canto corretta; sono solo stati utili per danneggiare gli organi vocali: molti di loro non sono nati per fare i maestri. Non è la stessa cosa infatti nascere con una voce naturale e insegnare a cantare possedendo molti difetti.
Per questa professione bisogna nascere nel teatro, avere grande pazienza, aver ascoltato un numero infinito di cantanti e possedere predisposizione ad essa.

Questo che ti insegnerò, è il Metodo di cui mi sono servito e mi servo tutt’ora per studiare e conservare tutte le facoltà del canto fino ad oggi, senza nessuna crepa. Mi è stato insegnato dal mio caro Maestro, Ernesto Colli, di indimenticabile memoria, quando io avevo ventitré anni. Da molto tempo ero alla ricerca di qualcuno che fosse in grado di insegnarmi a costruire la voce e il passaggio della stessa dal petto alla testa, essendomi reso conto che cantando “Spirto Gentil” della “Favorita”, stonavo in modo particolare nelle note fa, sol, mi, del passaggio di voce. Ciò mi tormentava, ed io lo sentivo di più di nessun’altro, essendo musicista.
Perduta la speranza di trovare qualcuno che mi guidasse, rimasi talmente deluso che decisi di dedicarmi a cantare nelle chiese e nei teatri con tutti i miei difetti e le delusioni da essi derivate, solo per non aver trovato una guida di cui tanto avevo bisogno.
Fu la soprano messicana Magana Lopez, che cantava con me la “Gioconda” al Teatro Sociale di Treviso, ad indicarmi chi poteva insegnarmi ciò di cui io tanto avevo bisogno. E lo riuscì raggiungere col Maestro Colli, in tre mesi di studio costante.
Riuscirai ad imparare questo Metodo con facilità, con spirito d’intuizione ed imitazione. Se in te mancano queste qualità, avrai molte difficoltà nell’assimilarlo e potrai cantare solo per pochi anni, pur avendo grandi capacità, e non avrai mai soddisfazioni per la tua arte, sebbene oggi si possano raggiungere mediante grandi… “protezioni”. Nei secoli scorsi erano sufficienti i meriti per fare grandi carriere. Eccoti alcuni esempi: Adelina Patti, Elena Teodorini, la Malibran, Borghi, Mamo, Giuseppina Pasqua, Marcella Sembrich, Gemma Bellincioni, Melba, Schumann-Heink, Rubini, Navarrini, Juliàn Gayarre, Angelo Masini, Duch, Mattia Battistini, Francesco Marconi, Roberto Stagno, Francesco Tamagno, Garulli, Antonio Cotogni, De Marchi, Francesco Cardinali, Francesco Uetam, Antonio Paoli, Aramburo, Angoletti, Victor Maurel,… Questi cantanti non ebbero bisogno di nessuno per diventare grandi; furono loro sufficienti i propri meriti ottenuti con incessante studio. Naturalmente studiavano sette od otto anni di vocalizzazione, e potevano permettersi il lusso di cantare tutti i generi poiché erano in possesso completo di una solida base preparatoria.
Nella epoca degli artisti moderni è successo lo stesso. Ti offro un elenco di nomi che han fatto gli onori del bel canto.
Maria Barrientos, Graciella Pareto, Eva Tetrazzini, Elvira de Hidalgo, Angeles Ottein, Toti dal Monte, Lily Pons, Mercedes Capsir, Harclée Darclée, Emma Carelli, Geraldina Farrar, Burzio, Poli Randaccio, Rosa Raisa, Matilde de Lerma, Carmen Bonaplata, Arangi Lombardi, Eva Turner, Claudia Muzio, Hina Spani, Ofelia Nieto, Rosa Poncelle (sic), Gilda de la Rizza (sic), Margaret Matzenauer, Gabriella Besanzoni, Maria Gay, Luisa Garibaldi, Genoveva Vix, Bidu Sayao, Rosina Storchio, Benedetti, Titta Ruffo, L. Sobinoff, Giuseppe Borgatti, Lucien Muratore, Giuseppe Anselmi, Ramon Blanchard, Teodor Chaliapin, Carlo Galeffi, Giovanni Zenatello, Viglione Borghese, Constantino, Caschsmann, Lanzoni, Josè Mardones, Carlo Cartica, Alessandro Bonci, Enrico Caruso, Armando Crabée, Walther Kirchhof, Riccardo Stracciari, Giuseppe De Luca…Tutti questi artisti hanno dato un grande contributo allo splendore dell’arte ed io personalmente lo posso confermare avendo avuto l’onore di essere compagno di scena di molti di loro. Tale fu, a mio parere, l’epoca di maggiore vitalità per il teatro lirico italiano.
Ti parlo con sincerità, lo vedi, senza farti promesse lusinghiere che ti potrebbero danneggiare nel tempo, e potresti più avanti negli anni accusarmi di averti ingannato. Io questo non lo faccio.
Quello che a breve leggerai non è millanteria, ma pura verità, affidandomi alle facoltà che possiedo che mi permettono di spaziare in tutti in generi -drammatico, mezzo carattere, lirico e lirico leggero-, sempre con grande successo nei grandi teatri. Ciò mi ha spinto ad aggiungere alcune lezioni al metodo del mio maestro, cantante limitato al solo genere lirico e quindi non in grado di addentrarsi nei generi drammatico, lirico leggero e mezzo carattere. Mi arrogo il diritto di inserirle, spinto dalla confessione che mi fece di non aver mai raggiunto la mia perfezione per mancanza di capacità nel suo registro vocale. Testuali e memorabili parole furono dette in presenza dei critici musicali dei giornali delle agenzie teatrali e dei quotidiani milanesi, in occasione della rappresentazione “Il Piccolo Marat” dell’illustre maestro Mascagni, con il libretto di Forzano, opera che mi ha dato grandi soddisfazioni nella mia carriera. Il suo autore la scrisse per me e tutti quei tenori che hanno tentato di cantarla, hanno fallito.
Per tutti coloro che vogliano dedicarsi al teatro, vorrei dare alcuni suggerimenti di grande importanza e necessari prima di entrare nelle profondità del canto, che potrebbero esservi fatali se vi sbagliate. A ciò mi obbliga la mia coscienza e il mio dovere.
Innanzitutto mi rivolgerò a coloro che desiderano dedicarsi al canto come professione, non come passione.
Prima di intraprendere lo studio, è necessario sottomettersi ad un esame fisico per sapere in che condizioni fisiche versa il vostro corpo, essendo vitale mantenersi in forma. Allo stesso modo è estremamente importante farsi estirpare l’amigdala e le adenoidi, se si hanno e danno fastidio, poiché producono raucedine in caso di raffreddore assieme a tutti gli inconvenienti -che elencherò più avanti- che possono emergere. Bisogna quindi scegliere un dottore adeguato per le operazioni: in caso di esito negativo, potresti soffrirne le conseguenze per tutta la vita. Di ciò sono un esempio tangibile.
Quando cantai al Metropolitan di New York, uno specialista mi convinse a farmi operare al naso per una difficoltà di respirazione che avevo rilevato
-credevo fosse dovuta ad una frattura subita da piccolo-. Mi operò lasciandomi però un buco talmente consistente che ad oggi è così grande la quantità d’aria che respiro che mi raffreddo con grandissima facilità.
Risultato: non era necessario operarsi, ma il medico desiderava ovviamente infilarsi nelle tasche 1000 dollari e che io mi ricordassi di ciò con grande gioia…per tutta la vita! Vuoi sapere perché non riuscivo a respirare normalmente? Avevo due cuochi in casa che facevano a gara per farmi salse inventate da loro stessi: per questo bevevo molti ed eccellenti vini e degustavo caffè. Tali vizi mi provocarono una irritazione e un perenne fastidio. Detto ciò, fatti entrare in testa questa vicenda!
Allo stesso modo ti consiglio, per il tuo futuro, di avere molta attenzione nel non contagiarti con malattie pericolose, tra le quali ci tengo a sottolineare la sifilide che col tempo può portare ad un cambio del colore della voce, che costituisce un pilastro nella nostra carriera. Mi permetto fare queste precisazioni soprattutto per i giovani, dopo aver visto nella mia carriera tristi casi legati a questa malattia.
È altresì vitale mantenere in buono stato la dentatura, giacché questa compromette pesantemente la dolcezza e il colore stesso della voce: portando dentiere, il timbro perde morbidezza e soavità, acquisendo durezza come se il palato fosse una volta di cartone, lasciando spazio inoltre ad una vibrazione metallica, dura, opaca, senza velluto, come dicono gli italiani.

Molti mi chiedono a che età sia consigliabile iniziare lo studio del canto. Credo non ci sia nessuno in grado di rispondere. È una domanda a cui è arduo e difficile rispondere, per i seguenti casi naturali.
La Patti, la Barrientos ed io siamo artisti venuti al mondo con una voce già ben definita. La prima cantava le prime romanzette in pubblico alla tenera età di otto anni. La Barrientos ai dodici o quattordici anni si esibì nel “Barbiere di Siviglia” a Parma col celebre tenore Stagno. Quanto a me, io ho sempre cantato come tenore, fin dalla mia infanzia, e agli undici anni cantai in una messa del maestro Hipolito Escoriguela, padre missionario del Sacro Cuore. In cambio, il celebre baritono Mario Sanmarco mi raccontò diverse volte che, da bambino, cantava nelle chiese come contralto -come quasi tutti i bambini che cantano in queste; quando cambiano età alla maggior parte di loro la voce diventa rauca; indubbiamente sono destinati a perderla per lo sforzo continuo che devono fare per cantare nel registro di voce poc’anzi nominato-. Ciò che è raro è che alla maggior parte di loro cambia la voce, ma in basso. Ho sentito alcuni casi.
Ti consiglio inoltre, per esperienza vissuta, di iniziare, come semplice preparazione, a studiare il solfeggio e la respirazione fin dalla più tenera età, poiché per poter cantare gli esercizi di questo è necessario un metodo di respirazione perfetto.
Qualora si sia persa la voce con la crescita, la precedente preparazione sarà tuttavia utile per sviluppare i polmoni e avere un profondo e sviluppato senso della musica, dell’arte e del canto. Perciò, se uno è in grado di prepararsi fin da giovane, ha certamente il vantaggio, se in possesso di una voce naturale, di poter iniziare prima la carriera.
Scrivendo il mio parere su questo tema così trascendentale, mi torna in mente, anche per rinforzare il mio punto di vista, un episodio che certamente ricorderanno gli adulti che leggeranno queste pagine.
Era giunta a Barcellona al “Teatro de Novedades” una compagnia italiana formata da artisti minori, tra cui il più anziano aveva appena sedici anni, per cantare “La Traviata”, “Il Barbiere” e anche “Tosca”. Dunque, c’è qualcuno che può dirmi chi fra questi giovanissimi artisti ha raggiunto la maggiore età proseguendo la carriera canora? Non ne ho sentito nominare nessuno da nessuna parte. È una evidenza che non lascia spazio a dubbi.
Non è quindi possibile dire con certezza quando è consigliabile iniziare la carriera. Dal mio punto di vista, e dopo lunghe osservazioni che ho fatto a tal proposito, credo sia preferibile iniziare lo studio del canto al cambio di voce, per impostare lo studio in base alla chiave su cui si vuole iniziare la vocalizzazione. Se casualmente a qualcuno vengono impartite lezioni da tenore per poi risultare baritono, lo studente ne uscirebbe danneggiato e non sarebbe più in grado di cantare né in un genere né nell’altro.
Questo discorso sia valido per tutte le voci.
È interessante e altresì degno di grande importanza che tu sia in grado chiedere a te stesso se hai il valore e l’energia necessaria per affrontare i problemi che ora ti elenco.
Riuscirai ad essere energico per affrontare le lotte e gli intrighi della professione?
La tua volontà sarà sufficientemente robusta per giungere all’estremo sacrificio fisico in tutti i suoi aspetti?
E avrai l’integrità di carattere per trattare le donne che, in questa professione, rappresentano la prova più difficile?
Se dopo aver riflettuto su quello che ti ho appena chiesto, sarai capace di agire come richiedono la prudenza e la carriera, non indugiare in inutili considerazioni ed inizia ad acquisire tre metodi: uno per imparare il solfeggio, uno per la teoria del medesimo ed uno per studiare l’italiano, che è la lingua in cui deve essere appresa l’arte del canto.
È altrettanto importante procurarsi un diapason cromatico che potrebbe esserti di grande aiuto.
Studia con costanza virtù che, te lo garantisco, ti darà grandi soddisfazioni, se ne hai il merito. I veri momenti di gloria non si possono pagare con tutto il denaro del mondo, perché nascono direttamente dallo spirito di chi ti ascolta per giungere al tuo, colmandoti di vero e autentico piacere.
Se però manca in te anche una delle qualità che poc’anzi di ho elencato, abbandona lo studio, perché non riusciresti ad essere nient’altro che una mediocrità e sarai costretto a sacrificarti e soffrire allo stesso livello di chi invece gode di fama, ma con la semplice differenza che non potrai mai trarre beneficio dalle grandi soddisfazioni e dai grandi successi. Tuttavia, se la tua passione è profonda, e ti consideri in grado di sopportare tutti i sacrifici necessari in virtù del tuo obbiettivo, se, in poche parole, vuoi tentare la sorte, deciditi. Ma non dire che sono stato io a consigliarti!
Ciò nondimeno, non si può mai sapere cosa succederà! Spesso con la costanza e il talento, il tempo e la protezione della fortuna, si possono raggiungere grandi risultati.


Ti raccomando di imparare bene l’italiano, perché è la lingua in cui tutte le vocali sono più dolci e si prestano ad una migliore impostazione del suono.
Quando la tua voce sarà ben impostata, potrai cantare in tutte le lingue. Io canto in italiano, castigliano, catalano, inglese, francese, ebraico,…A tal proposito voglio raccontarti un episodio che potrà esserti d’aiuto per la collocazione della voce.
Negli anni in cui io cantavo al Metropolitan, ebbi modo di sentire in varie occasioni alcuni artisti -di cui mi evito di fare il nome- che, per aver cantato in differenti lingue, avevano perso il punto d’appoggio dove deve essere collocato il fiato: non erano più in grado di condurre il suono dove necessario. In realtà quello che succedeva a loro era di non sapere, e non aver mai saputo, cosa fosse un punto d’appoggio per la vibrazione della voce, cioè l’arco armonico. Io credo, e lo sostengo teoricamente e praticamente, che non è vero che si può perdere la direzione dell’appoggio della voce per il semplice fatto di cantare in lingue diverse, ma credo che questo si perda per non aver mai saputo dove portare il fiato fin dall’inizio; in me hai viva testimonianza di ciò. In Romania cantavo in rumeno, in Ungheria in ungherese, in Brasile cantavo canzoni portoghesi…Dopo tanti anni, possiedo ancora il dominio della collocazione della voce, come dimostrano i miei recenti successi in “Aida” e altre opere in Spagna e Portogallo. Quello che si verificava in quei cantati era che, pur nascendo con una bella voce, si erano presentati in pubblico senza una solida preparazione di studio e di canto.
Prima di concludere questo aneddoto, ti dirò, per semplice curiosità, che nel teatro precedentemente citato era richiesto cantare in diverse lingue, a seconda dell’autore di ogni opera.

La collocazione della voce si fonda nella capacità di saper condurre il fiato al labbro superiore, chiamato ponte.
Ti avviso che devi imparare perfettamente le prime tre lezioni del Metodo, assieme alle altre, certo; ma non potrai procedere nello studio se non le riesci a dominare alla perfezione.
Una volta imparate tutte queste lezioni, potrai considerare appresa la difficile arte del canto. Ma non dimenticarle, che devono rappresentare il faro per tutta la tua carriera.
Non avere fretta nel voler debuttare: se lo fai senza essere perfettamente preparato, tutto il tuo studio e i tuoi sacrifici sarebbero tempo perso. Quando sarai in possesso di una voce ben impostata, potrai avanzare velocemente e agire seguendo i tuoi obbiettivi. Non bisogna dimenticare che ti sto formando per raggiungimento di ciò che maggiormente desideri: dedicarti a questa bella professione. Sebbene io mi rivolga a persone sensate, vi sono tuttavia maniaci, a cui però non posso insegnare nulla, poiché sanno già tutto.

CLASSIFICAZIONE DELLE VOCI

CHIAVE DI SOL

• Soprano leggero: la sua estensione deve essere la seguente: dal DO grave al
FA sopracuto sostenuto. È comunque sufficiente raggiungere il FA naturale
sopracuto.
• Soprano lirico: estensione: dal DO grave al RE naturale sopracuto. Se si
raggiunge un RE bemolle sicuro, è sufficiente.
• Soprano drammatico: estensione: dal DO grave al RE naturale sopracuto.
• Mezzo-soprano: estensione: dal LA naturale grave al SI naturale acuto.
• Contralto: estensione: dal LA naturale grave al LA naturale acuto.
• Tenore leggero: dovrebbe avere un’estensione pressappoco simile a quella del
soprano leggero.
• Tenore lirico: estensione: dal DO grave al RE sopracuto.
• Tenore spinto (o mezzo carattere): estensione: dal SI naturale grave al RE
sopracuto. Io, ad esempio, raggiungevo un FA sopracuto di
grandissima e bellissima qualità. Cantando “I Puritani” di Bellini, con
Amelita Galli-Curci, soprano leggero, a Rio de Janeiro, li eseguii durante
l’ultimo atto tutte e tre le sere, nell’anno 1914.
• Tenore drammatico: dovrebbe avere la medesima estensione del tenore spinto,
ovvero: dal SI grave al RE naturale sopracuto.

CHIAVE DI FA

• Baritono: estensione: dal DO grave al LA sopracuto.
• Basso: estensione: dal MI grave al SOL sopracuto, ben sicuro, per poter
cantare il “Pif Paf” de “ Gli Ugonotti” di Meyerbeer.

Permettetemi ora alcune parole di approfondimento sul tenore drammatico, sul tenore leggero e sul tenore spinto (o mezzo carattere).

TENORE DRAMMATICO

Come ho detto prima, il tenore drammatico dovrebbe avere la medesima estensione del tenore spinto, ossia: dal SI grave al RE naturale sopracuto. Dico questo perché tale tenore avrà a che fare, nel corso della carriera, con diverse opere che richiedono suddetta estensione. Altrimenti non potrà cantare il repertorio secondo lo stile tradizionale, restando soltanto un discreto tenore.
Un esempio sul medesimo: sin dalla prima del “Trovatore” nel 1853, si canta il RE bemolle sopracuto nel terzetto della sfida nella prima scena col tenore. Potete dirmi come possono farlo i tenori odierni che, per quanto siano drammatici, sono e restano corti, non riuscendo molti di loro ad andare addirittura oltre un SI naturale? E i tre do della “Pira”? Dal mio modesto punto di vista, quello di cui hanno bisogno è di studiare, fin dall’inizio, da baritono.
Questa è la mia opinione, e per confermarla vi racconterò un episodio che dimostrerà lo scarso successo che hanno questi tenori, ormai incapaci di ricevere grandi retribuzioni e successi.
Nell’anno 1911 si cantava la “Norma” del Gran Teatro San Carlo di Napoli con la celeberrima Ester Mazzoleni. La direzione era affidata al grande Maestro Leopoldo Mugnone. Mancava però il tenore per la parte di Pollione, che non si riusciva a trovare da nessuna parte. L’ultima carta da giocare fu il baritono della compagnia di operette del Sig. Caramba: un certo Ferrari Fontana, il quale riuscì edottenere un enorme successo nelle vesti di Pollione. Lo incontrai, passando per Napoli diretto in Egitto per cantare ad Alessandria d’Egitto e al Cairo. Che fine ha fatto tale soggetto? Dopo alcuni anni in cui vestì solamente i panni di Pollione, riuscì a cantare al Metropolitan di New York negli anni 1921-1922, dove si presentò con la stessa opera al fianco di Rosa Ponselle e ne “L’Amore de Tre Re” di Montemezzi, accompagnato da Claudia Muzio. Dopo queste poche esibizioni in pubblico, non ne ho più saputo nulla.

TENORE LIRICO-LEGGERO.

Questo tenore era conosciuto nei secoli passati come il “tenorino”: a lui erano affidate le parti più liriche o addirittura i ruoli secondari. Conferma le mie parole il fatto che Stagno sia giunto, nei primi anni della sua carriera, a Madrid come secondo tenore, ottenendo grandi successi (basti citare il suo Rodrigo nell’ “Otello” verdiano). Fu baciato dalla fortuna quando il primo tenore della compagnia di canto, Mario de Candia, si ammalò. In tale occasione gli consigliarono il “Robert le Diable”, ottenendo un tale trionfo in questa opera che decise di cambiare il suo nome da Vincenzo a Roberto, nome con il quale è passato alla storia.
Questo personaggio del teatro è degno di essere ammirato e imitato da tutti gli studenti di canto avendo egli dedicato tutta la carriera ad uno studio costante e preciso. Cinque anni prima di raggiungere la fama fece il suo debutto a Milano con un pesante fiasco; da questo insuccesso non ne trasse dolore o scoraggiamento ma maggiore costanza e impegno nello studio, cercando di cancellare ogni minimo difetto fino a raggiungere la soddisfazione di cui si gode solo dopo tanto e lungo studio e sacrificio.
Invece, al giorno d’oggi, la maggior parte dei tenori dopo solo tre mesi di studio pensano già al debutto e hanno persino il coraggio di cantare fin da subito opere come il “Werther”: giustamente la critica, sentendo il duetto d’amore con un tale squilibrio nelle voci, si pone dopo delle legittime domande sul personaggio di Carlotta chiedendosi “chi era il soprano?”. Immagina per un istante il fastidiosissimo effetto che potrebbero creare i due timbri del celebre duetto, giacché il tenore deve avere la voce delicata e la mezzo-soprano invece virile.
Per il bene dell’arte, il cantante deve avere più rispetto nei suoi confronti e limitarsi a interpretare solo quelle opere che meglio si adattano alle sue facoltà; per godere di una buona e bella voce per tutta la carriera bisogna saper scegliere il giusto repertorio per sé stessi.
Molti oggi osano cantare anche “Tosca”, di carattere più drammatico, pur non essendo ancora in possesso della giusta drammaticità vocale per il personaggio. Se si studiano alla perfezione “Il Barbiere di Siviglia”, “La Sonnambula”, “Don Pasquale”, “L’Elisir d’Amore” e “Don Giovanni” più altre del medesimo repertorio, i cantanti potrebbero avere più soddisfazioni artistiche, guadagnerebbero di più, darebbero grandi contributi per risollevare lo stato critico odierno dell’arte (dovuto in gran parte allo scarso livello dei cantanti) e avrebbero il rispetto e l’ammirazione del pubblico.
Ho la più assoluta certezza che se nascesse un cantante con le caratteristiche sopra indicate, di senso comune, e che restasse nel suo repertorio mirando al perfezionamento di questo in logico e sensato rapporto con le sue capacità e condizioni, potrebbe fare una grande carriera, proprio perché oggi non c’è un solo cantante che si sia dedicato come di dovere ad un determinato repertorio.

TENORE SPINTO O “MEZZO CARATTERE”

Ammetto che non ho mai capito perché si definisce questo tenore come di “mezzo carattere”, essendo, dal mio punto di visto, il tenore più completo poiché in possesso di una voce grave, del centro, degli acuti, di mezze voci, filature, flessibilità, in grado di eseguire ogni sfumatura richiesta, oltre a saper dominare il genere drammatico, lirico e lirico-leggero.
La prova di ciò sta nel fatto che il grande tenore Masini, che oltretutto era anche “spinto”, dopo aver cantato gli “Ugonotti” al Liceu di Barcellona, venne chiamato a Parigi per cantare “Il Barbiere”. Aveva 64 anni, esattamente come il suo illustre collega Tamagno quando cantava “Otello” e “Lucia”. Credo che questo genere di tenore sia in possesso perfino di un temperamento drammatico. Dal mio modo di vedere, e di classificare, questo deve essere considerato il vero tenore, nella più ampia concezione terminologica, dotato di grandi facoltà sia per i ruoli da dongiovanni sia per quelli più audaci.
Fatta la classificazione delle voci e esposto il mio parere su queste (credo di averle analizzate con un criterio oggettivo, grazie alla mia esperienza), passerò alla completa esposizione del mio metodo, con il massimo entusiasmo che richiede la difficile arte del “bel canto”.


Gli ascolti


Arrieta - Marina

Costas las de levante - Hipolito Lazaro (1920)


Bellini - I puritani

Atto I


A te, o cara - Hipolito Lazaro (1916)

Atto III

Vieni fra queste braccia - Hipolito Lazaro (1916)


Mascagni - Il piccolo Marat

Atto II


Sei tu? Che cosa vieni a fare...Va' nella tua stanzetta - Hipolito Lazaro & Mafalda De Voltri (1926)


Verdi - La traviata

Atto III


Parigi, o cara - Hipolito Lazaro & Maria Barrientos (1918)







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sabato 12 febbraio 2011

I duellanti.

Gilbert Louis Duprez e Giovan Battista Mancini (ossia Belcanto ossia, credo, altro) sono la più esaustiva realizzazione dei duellanti. Indomiti, instancabili, insaziabili.

Entrambi con il sottoscritto, per motivi professionali presenti e futuri, potrebbero costituire un collegio giudicante dove lo sventurato Domenico Donzelli, per soli motivi di anzianità, sarebbe chiamato al compito di presidenza. Ingrat,o perché dovrebbe essere armato non già di scientia et sapientia ed equilibrio, ma di vigore fisico per cercare di separare i duellanti. Le ultime puntate (risse?) hanno avuto due oggetti l’uno caro e reiterato, ovvero la Rosina soprano, l’altro nuovo nel nome, usato nella sostanza ovvero Battistini nel ruolo di Jago.Dirò subito che la Rosina soprano mi piace se ben cantata e ben variata, trovo lo Jago di Battistini splendido, tanto da desiderare una volta nella mia esperienza di ascoltatore sentirlo in teatro, anche, perché le mie esperienza con l’alfiere verdiano sono state, purtroppo, ben differenti
Con questo non ho scelto un duellante avverso l’altro.
Dirò che più giovani si è e più grande è la tentazione e la tendenza a guardare il particolare e non il generale. Insomma, la casistica è della gioventù la sistematica dell’età avanzata, quando il disco fisso della memoria è pieno e magari non ce ne rendiamo neppure conto.
Credo che , sempre, debba prevalere il buon senso, il momento di riflessione su tutte le affermazioni e in tutta la battaglia. Mi spiego
E’ vero che non esiste la Rosina trasportata per soprano ad opera di Rossini. Esiste, anzi, lo scritto di Geltrude Righetti Giorgi in senso assolutamente contrario.
Esistono, però, variazioni è vero tarde, pur sempre autentiche ed in chiave di soprano.
Come pure all’indomani della prima alcuni soprani come Josephine Fodor ed Henriette Sontag cantarono Rosina. Quest’ultima, poi, eseguiva in aperta rivalità con Maria Malibran Cenerentola, mentre per la prima è scritta in indiscutibile tessitura di soprano l’aria “Ah se è ver chein tal momento…l’innocenza di Lindoro”.

Pausa di riflessione: tutte queste notizie ci dicono che accomodo e trasporto fossero la regola dell’800 . Piaccia o no, confligga o meno con idee come quella dell’unità dell’opera d’arte. Spesso un titolo è sopravvissuto con l0’accomodo e solo con l’accomodo di tradizione , non d’autore lo può. Abbiamo discusso e documentato la progressiva discesa del ruolo di Elvino. Avesse preso male le misure del cantante Bellini sin dalla prima, tanto che abbassò di suo subito, fosse un fuori classe Rubini, fosse in declino lo stesso subito dopo la prima o si esegue qualche cosa differente dall’autografo o ci mettiamo Sonnambula nel cassetto o aspettiamo un fuori classe alla Rubini, sperano, poi, che il pubblico accetti certi suoni in certa zona della voce. E questo, però un altro problema, importante, ma non unico perchè il problema, che rileva è che cantare come scritto era un problema contingente anche la prima esecuzione. Ed il solito buon senso lo aveva risolto.
Ma noi e questa è la declinazione attuale del problema quel buon senso e quel momento storico non lo viviamo più.
Questo è, quindi, il problema più arduo, e sul quale non ho presunzione di dire alcunché come realizzare un principio, perché non è detto che per definizione la Rosina mezzo sia perfetta e la soprano per antonomasia una cagna insopportabile. Documento l’assunto. Posso aggiungere che tutto dipende dal gusto e dalla sapienza tecnica. Come sempre. Nessuno al momento documenta gli inserimenti sopranili contemporanei alla prima, ma se certi picchettati della Tetrazzini (per altro perfetti nell’ esecuzione) lasciano perplessi altre esecuzioni sono più morigerate negli inserimenti e, comunque, meno liberty.
Anche qui però ci vuole buon senso. E mi spiego perché se è vero che Rossini non scrissee quasi mai staccati e picchettati per le voci centrali e gravi femminili, per le acute (anche nel periodo francese) utilizzò queste forme ornamentali (Vedi Adele di Fourmoutier dell’Ory). Inoltre quando vediamo le fantasmagoriche cadenze delle Marchisio staccati e picchettati abbondano eppure le sorelle torinesi, sono “le mie care mimmine” che il maestro in persona esaltò e ringraziò per avere risuscitato la morente Semiramide.
Forse Rossini era meno angosciato da regole letterario-pesaresi ed dal culto della prima esecuzione e, uomo del suo tempo assai più legato all’imperativo di andare in scena, soddisfare il pubblico, i cantanti e fare botteghino. Tutte regole che abbiamo, poi, al di là dei proclami teorici viste applicate nelle edizioni autentiche e critiche, magari tacendo . Da ultimo vedasi la poco felice versione Pasta della Zelmira, accomodata per i limitati mezzi della protagonista scritturata. E tanto per documentare offro l’esecuzione di due acclamate Amenaide del Tancredi, la prima molto rossiniana (Lella Cuberli) l’altra doc pesarese e con una tendenza al liberty non pienamente sfogata (Mariella Devia). Entrambe di grande tecnica e controllo della voce, ma……
Quindi anche l’opinione dell’autore o dei suoi esegeti ufficiali patisce nell’applicazione l’uso del “grano salis”.
E’ vero e documentato come a Verdi non piacesse Battistini Jago, però gli piacque moltissimo (vedi Monaldi) il modello di Battistini, ovvero Antonio Cotogni quale posa e per la prima di Otello sognava, salvo cedere dinanzi a motivi di costi, Adelina Patti, il cui belcantismo, e la maniacale attenzione al suono anche i dischi della decrepitezza vocale confermano.
Tacciamo,poi, dei risultati cui condurrebbe il rispetto letterale delle indicazioni di Verdi per la Lady Macbeth. Ascolteremmo una sorta di Spelunken Jenny. Non che ciò non sia già accaduto in tempi recenti.
Allora cosa dobbiamo imparare da queste ulteriori informazioni che forse per Verdi Desdemona andava cantata e suonata, mentre Jago andava detto. E andiamo avanti a speculare perché Battistini era , oltre che un grande cantante, un indiscusso maestro del dire, ma del dire da attore vocale di marca donizettiana e protoverdiana e non da cantante attore. Verdi e in generale la critica a cavallo fra ottocento e novecento approvano Don Carlos e Rodrigo, il dire di Jago però è diverso. Attenzione è una differenza molto, molto sottile, pèrò non solo il primo Jago ( l’esausto da troppi Rigoletti e Simoni, Victor Maurel), ma anche Giraldoni e Kashmann cantano con la stessa tecnica, lo stesso suono sostenuto e coperto del “re dei baritoni”, ma senza il compiacimento del bel suono e del bel dire che è la sigla interpretativa del personaggio aulico e togato del romanticismo.
Almeno credo!
Ai destinatari di questa riflessione . Perdonate le offese, se ritenete di averle ricevute. Se qualcuno degli instancabili duellanti è offeso ha, sempre due scelte perdono o duello. Scelga!


Gli ascolti

Rossini - Tancredi

Atto II - Giusto Dio che umile adoro - Lella Cuberli (1983)









Eugenio Giraldoni - Otello - Credo











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