lunedì 21 febbraio 2011

Aleksandra Kurzak in concerto alla Scala

Quando un teatro offre ad un cantante di esibirsi in un concerto di canto dovrebbe farlo o per garantire una presenza a chi non disponga di un titolo operistico in stagione ovvero a chi di lì a poco si esibirà in uno dei titoli della stagione stessa, ma quel che è chiaro è che il cantante scritturato è sempre una delle presenze amate e sicure presso quel teatro.

All’attivo di Aleksandra Kurzak ci sono tre recite nel Rigoletto della passata stagione. Non solo, ma il concertista per essere tale deve offrire, sempre, un equilibrio fra doti vocali e quelle interpretative, anche se talora alcuni celebrati concertisti sono stati soprattutto voci ed altri invece soprattutto interpreti, inutile farne i nomi perché tanto ci verrebbe opposta la loro inesistenza. L’altra irrinunciabile peculiarità del concerto è che il cantante sia posto nella condizione di esibire il meglio della propria arte vocale o interpretativa. Che sarebbero stati i concerti della Olivero senza Tosti o quelli della Horne privi delle arie acrobatiche rossiniane? E invece la Scala, come abbiamo già avuto modo di verificare e non condividere l’anno passato impone ai cantanti chiamati programmi di educazione culturale a base di musica cameristica, preferibilmente in lingua tedesca o mitteleuropea. L’italiano e tutte le lingue neo latine sono terribilmente “out”. Non solo, ma nel concerto di questa sera ha inflitto al pubblico anche una cantante dalla voce modesta per qualità naturali, non supportata da alcuna risorsa tecnica che le consenta di non emettere acuti gridati, note medio-alte fisse e periclitanti di intonazione (secondo il costume diffuso delle imitatrici di Edita Gruberova), zona centrale vuota e di colore bianchiccio e naturalmente con tale bagaglio “tecnico” di distinguere i vari sentimenti espressi nei brani “Nachtigall” proposti nella prima parte. Non per fare della facile ironia ma gli usignoli della signora Kurzak erano affetti da aviaria, altri piuttosto spennacchiati (Alabiev) e comunque tutti di batteria.
Letti i testi della seconda parte del concerto dedicato ad artisti polacchi (ce ne sono tanti oltre Chopin) abbiamo avuto il fondato dubbio che i testi cantati con assoluta monotonia e suoni periclitanti in zona medio-alta dalla signora Kurzak fossero tutti del medesimo tenore, ovvero minestrine Knorr. Alla fine di siffatto bagno di cultura il pubblico, quello che applaude sempre, ha invocato Verdi, non sappiamo se per disperazione o per ironia. E’ stato ricompensato invece con due brani del repertorio tipico del soprano di coloratura: la cavatina di Lucia e quella di Rosina. Davanti ad un’esibizione con un sovracuto urlacchiato, una cadenza in formato “le mie prime cadenze”, agilità aspirate e spappolate e la velleità di riproporre persino le agilità cromatiche in chiusa ci sarebbe voluto un grido dal loggione tipo “Mariella perdono!”. Ma avremmo dovuto gridare anche un “Toti perdono!” dopo un’esibizione scolastica e parrocchiale della cavatina di Rosina con abbozzo delle variazioni di Matilde Juva, per l’occasione mutatasi in Matilde Ciucca.
Il Barbiere e la Lucia pubblicati dai fratelli Fabbri, con i quali sono stato iniziato all’opera, si trovano purtroppo in cantina e non ho tempo di andare a recuperarli per proporvi un ascolto. Ma la Rosina e la Lucia ivi registrate sono quantomeno oneste e solide professioniste!



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