martedì 6 settembre 2011

Julia Lezhneva: Rossini Arias. Recensione in sette punti

Punto primo: la cantante. Tre anni fa il Rossini Opera Festival apriva con un concerto di canto di Juan Diego Flórez, intitolato “Il presagio romantico” e dedicato a pagine tratte da La donna del lago e Guillaume Tell. Partner femminile della stella peruviana fu Julia Lezhneva, sconosciuta giovinetta balzata si può dire dal nulla a uno dei più prestigiosi (almeno sulla carta) palcoscenici internazionali, e anzi il massimo (sempre sulla carta) per quanto concerne il cigno di Pesaro. Le accoglienze furono piuttosto tiepide e tali da indurre alla direzione del Festival, da una parte, a reclutare la signorina per l’edizione di quell’anno dell’Accademia rossiniana diretta da Alberto Zedda (come se un corso di perfezionamento “ex post” potesse riscattare quella diciamo stentata serata inaugurale), dall’altro, ad astenersi dal riproporla nelle edizioni successive, come di consueto avviene per i "pulcini" del corso di perfezionamento. Nel frattempo però la Lezhneva era entrata nel giro, come usa dirsi, dedicandosi al repertorio barocco (sarà prossimamente Sesto in un Giulio Cesare diretto da Alan Curtis) e arrivando a collaborare con Marc Minkowski, che l’ha voluta quale paggio negli “Ugonotti” recentemente allestiti a Bruxelles e l’accompagna in questo suo primo recital discografico. Dedicato, manco a dirlo, a Rossini.

Punto secondo: il programma. Come si sa, al giorno d’oggi, il disco non ha ragione d’essere senza il divo e il divo non può esistere senza il disco. Forte di una frequentazione esclusivamente concertistica (ma aspetto di essere smentito dai biografi della signorina) dei rondò di Cenerentola, Elena d'Angus e Zelmira, Julia Lezhneva affronta un programma che unisce, appunto, “Nacqui all’affanno e al pianto”, “Tanti affetti”, la canzone del salice, la cavatina di Semiramide, la preghiera di Pamira e l’aria di Mathilde dal secondo atto del Guillaume Tell. Una scaletta all’insegna dell’eclettismo, che ai tempi di Rossini avrebbero affrontato, con le dovute cautele, una Cinti Damoreau e ancora di più un’Alboni, cantante cui la Lezhneva può in certo modo apparentarsi, o così almeno dovrebbero coerentemente sostenere coloro che l'hanno voluta e magari applaudita quale Urbano. In tempi a noi più vicini una Onégin o una Matzenauer, ovvero una Callas prima maniera, avrebbero senza fatica retto un programma che impone alla voce di passare dal registro di mezzosoprano a quello di soprano centrale, e soprattutto alla cantante di passare dal genere di mezzo carattere a quello tragico, senza perdere smalto, fluidità di vocalizzazione, credibilità e proprietà di accento e di fraseggio. Purtroppo l’ascolto del disco suggerisce ben altri modelli canori, e soprattutto ben diversi termini di comparazione vocale.

Punto terzo: la voce. La prima ottava suona larvale, al punto che i microfoni stentano a captarla, anche perché, nel tentativo di esibire una voce morbida e levigata, la Lezhneva non ricorre a un appoggio costante e sistematico, e quando tenta di coprire il suono (ad esempio nel recitativo di Pamira e nell’aria di Mathilde), riesce solo a produrre suoni tubati, che non hanno neppure la consistenza necessaria a farli definire gutturali. Solo dal do centrale in su la voce acquista un poco di volume, pur senza possedere particolare bellezza timbrica, mentre a partire dal mi/fa (note immediatamente successive al secondo passaggio di registro) compaiono suoni stridenti e asprigni, spia di un’organizzazione vocale, a essere buoni, da principiante. Sentire ad esempio la scala ascendente su “ogni mio duol sparì” nella cavatina di Semiramide o le scale cromatiche del rondò di Elena, eccellente realizzazione, applicata al registro sopranile, del famoso “scalino” vocale teorizzato (e giammai praticato) da Ebe Stignani. Tacciamo poi degli acuti (e parliamo dei la bemolle del Tell come dei si bemolle della Donna e dei si naturali della Cenerentola), ghermiti, quando non gridacchiati, con udibile sforzo. Una vocalità di soprano leggero, insomma, cui l’imperizia tecnica preclude il repertorio che le sarebbe proprio (Philine, Oscar del Ballo, o se proprio vogliamo rimanere a Rossini, le farse veneziane e Jemmy del Tell) a favore di ruoli di cabotaggio centrale, malgrado la cantante non possieda la pienezza timbrica e tanto meno l’accento, sontuoso ed aulico, richiesto da personaggi come questi, trattati dall’autore nel segno dell’astrazione pura.

Punto quarto: il virtuosismo. Di ortodossa matrice baroccara. Sentire le agilità ora accennate, ora sgallinacciate, specie quando cadano nella zona medio-grave della voce (quartine vocalizzate nella seconda parte del rondò di Elena), ora sgranate al rallentatore, con ulteriore impoverimento della linea musicale (preghiera di Pamira), i trilli meccanici e molli (inseriti spesso a sproposito, come nella canzone del salice, in ossequio al principio per cui le note tenute vanno “abbellite” indipendentemente dal carattere della melodia e dalla circostanza drammatica), i sospiri aggiunti e le note in chiusura di frase pigolate (rondò di Elena - "tanTA felicità"), nel discutibile tentativo di “colorare” le frasi alla maniera dei cosiddetti specialisti di musica antica. E tralasciamo le variazioni, scolastiche per numero, qualità e soprattutto esecuzione.

Punto quinto: l’interprete. Tutte le pagine del disco, che siano improntate a gioia o disperazione, vengono proposte con il medesimo accento querulo e piagnucolante, con le stesse inflessioni di infantile dolore, che non mancheranno di suscitare l’entusiasmo dei cultori di certi fenomeni discografici, persuasi che Rossini e l’opera in generale non siano che il pretesto per l’esibizione della presunta “personalità” dei divi, che si contrapporrebbe alla “mera esecuzione” offerta da quei cantanti che, non essendo divi, non possono e non debbono esprimere altro che mancanza di fantasia e originalità speculativa. Alla poetica degli accenti nascosti si sostituirebbe insomma quella degli accenti inudibili. Inudibili ovviamente per orecchie poco o nulla esercitate. Come le nostre, insomma.

Punto sesto: l’accompagnamento. Marc Minkowski, già specialista di musica barocca e ora più in generale faro della musica francese, rende un ben povero servizio a Rossini, raddoppiando in orchestra la mollezza, l’assenza di inflessioni, la secchezza di suono offerte dalla solista. Forse parte del “merito” spetta alla modestia delle forze coinvolte (Sinfonia Varsovia e Warsaw Chamber Opera Choir, a dir poco dilettantesco specie nella Donna del lago), ma la Sinfonia della Cenerentola, unica pagina puramente sinfonica del disco, suona piatta e meccanica, animata solo nei crescendo, che risultano tuttavia più caotici e rumorosi che travolgenti e brillanti.

Punto settimo: il fantasma. In questo disco, come in recenti cimenti teatrali, aleggia, o per meglio dire incombe, il fantasma di una cantante, mitica e poderosa in ogni senso, che periodicamente agenzie di canto, case discografiche, teatri e primedonne si piccano di richiamare in vita, in tutto o in parte. A questa cantante il Corriere dedicherà prossimamente una serie di riflessioni. Non già, come maligneranno alcuni, per manifesta incapacità di cogliere nell’ubertoso panorama odierno la presenza di numerose eredi potenziali (benedette o meno dal disco), ma per chiarire in primo luogo a noi stessi in che cosa consista la parabola storica e musicale di quell’incognita chiamata Isabella Colbran.



Gli ascolti

Rossini


La Cenerentola


Atto II

Della Fortuna instabile...Nacqui all'affanno e al pianto - Frederica von Stade (1974)


La Donna del lago

Atto I

O mattutini albori - Angeles Gulín (1974), Frederica von Stade (1981), Lucia Aliberti (1990), Julia Lezhneva (2008)

Atto II

Fra il padre e fra l'amante - Frederica von Stade (1981)










4 commenti:

mozart2006 ha detto...

Una sola domanda. Ma dove li vanno a pescare sti catorci?
Perchè la cosa più virtuosistica di questo disco è il fatto che la voce di una ventunenne suona come quella di una cinquantenne, al netto delle deficienze tecniche da te giustamente evidenziate e che per qualcuno sono addirittura punti di forza della vocalità di codesto esemplare...

Anonimo ha detto...

A pensarlo bene, l'unico fantasma di cui sento la presenza nel canto della Lezhneva, notami finora soltanto da ascolti su Youtube, è la Bartoli.
Comunque ciò vale soltanto per il canto fiorito.
Quando invece s'accinge a cantare spianato ("Il sogno", quello dell'op. 38), oppure "La fanciulla di neve", la voce diviene subito un'altra - e la dizione tende a sparire.

Megacle ha detto...

Concordo con Angelodifuoco, anche a me sembra di sentire una nuova Bartoli (ce n'era proprio bisogno), infatti dopo averla sentita mi è subito venuto in mente il bartoliano Turco in Italia. Certo comunque che il paragone con la grande Von Stade è davvero umiliante...i difetti segnalati da Tamburini sono facilmente percepibili, un registro grave molto debole che ella tenta inutilmente di ingrossare, risultando sgraziata e rendendo incomprensibile il testo. La ragazza ha molto, molto da studiare, poiché di questo passo la sua carriera terminerà presto, come ormai spesso capita agli acerbi cantanti che lo star system catapulta nel mondo incognito del canto professionale

Marquis de Posa ha detto...

Mi dispiace, i gusti son gusti, ma questa qui un "Non più mesta" come quello di Cecilia Bartoli se lo sogna, sia in termini di agilità che di freschezza e immediata comunicativa...